Lilith and the Sinnersaints – Revoluce (AlphaSouthRecords)

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Lilith nasce artisticamente nel 1981 ed è ancora tra noi.

Aveva fondato i Not Moving band tra le più rappresentative del rock’n’roll italiano di quegli anni, 8 anni di attività su e giù da palchi più o meno importanti poi il silenzio fino al 2005, anno della reunion e successivamente il cambio nome in Lilith and the Sinnersaints per creare Revoluce  album che racchiude le parole Rivoluzione e Luce.

Quello che andremo ad analizzare è uno spaccato di vita che è un ponte di trent’anni dentro alla storia della musica italiana, tra dirompenti soddisfazioni e incapacità di affrontare il futuro, tempo al tempo, possibilità per possibilità e grande capacità di adattamento che si scrolla di dosso la polvere del tempo per ritornare dove ci aveva abbandonati, con la necessità e la volontà ancora una volta di dire, di fare e di raccontare qualcosa.

Lilith è uno spirito inquieto capace di emozionare con poesie che vanno oltre la concezione della luce e si intersecano in piccole opere cesellate che si concedono lo spazio per creare punti di sbocco dominanti da dove poter uscire e respirare ancora una volta, fino a quando abbiamo fiato, fino a quando tutto quello che vive intorno a noi acquisisce un senso che ha il sapore dell’eternità.

Lei si fa precursore di suoni e l’incedere delle undici tracce ne sono l’esempio, vite errabonde consumate che parlano di rapporti su scale emozionali avvincenti e di forte impatto, tra atmosfere desertiche e linee sincopate a creare atmosfere uniche, tra Mauro Ermanno Giovanardi e Cesare Basile, passando per Ferretti e Umberto Palazzo.

Un disco suadente ed emozionante capace di stringere consuetudini abbandonate in una ricerca di stile continua e profonda.

 

MEnestro – MEnestro (Autoproduzione)

Incalzante e sconveniente, elegante e graffiante in testi mai banali escogitando fraseggi sonori che si inerpicano nelle coscienze sotterranee per estrarre linfa che ci fa sopravvivere.

Un ep d’esordio questo Menestro che ha tutte le carte in regola per diventare un qualcosa di più, quel qualcosa che potrebbe trasformarsi immediatamente in parabola ascendente che regala soddisfazioni a non finire, cercando di mantenere il rapporto inalterato che Luigi Fiore tenta di esprimere lungo le 5 tracce del disco.

Si perchè al consolatorio: ne vedremo delle belle in futuro, si contrappone un’esistenza raccontata tra cumuli di macerie dove solo la voce indifesa di un bambino contro il resto dell’umanità, può dare ancora segni di speranza e di vita.

Ecco allora che le canzoni si trasformano attraverso ossimeri e parole che si annullano come in Tutto il mio niente, regalando una falsa motivazione di base in Equilibrio, passando per la bellissima Il male sottile e chiudendo il tutto con le improvvisazioni pianistiche in L’attentato.

Un felice esordio quindi che si fa altoparlante per il mondo, una voce che vuole gridare la propria presenza, un inno di reale in una realtà immaginaria.

Alcova – Il sole nudo (Rossocorvo)

Ascoltare gli Alcova è fare un tuffo nel passato dove la new wave si fondeva in modo inesorabile con testi di matrice impegnata che raccontava di quotidianità, attualità; quel quotidiano che sembra così lontano e in punto di morte da quanto ne viene abusato nel suo silenzio.

Ecco allora che finalmente una band si schiera in modo palese, la critica c’è in ogni singola strofa, in ogni singola parola e il cuore pulsante e in divenire è fiamma sempre accesa che brucia le vecchie idee lasciando il posto ad un mucchio di macerie da cui rinascere di nuovo.

Questo non è un disco per tutti, è un disco impegnato e purtroppo in Italia le persone non sono impegnate.

Si lasciano andare alle chiacchere da aperitivo dimenticando ciò che li circonda, quell’intricata trama di fili che sorregge il mondo e ci fa vivere quotidianamente.

Ecco allora che i nostri Alcova si fanno portavoce di questo malessere, delle volte cantato, delle volte gridato altre parlato e ancora sussurrato; racchiudendo speranze in 9 tracce, racchiudendo un fiume in piena che non smette di scorrere.

Come non dimenticare le parole di Damasco o di Cannibali, passando per l’esemplare Il sole nudo o la decisione in Risvegli.

Un disco ricco di pathos e fibrillazione che dopo il primo ascolto ci lascia scossi, scossi dalla scintilla del voler uscire e fare qualcosa per cambiare modo di pensare, forse tutti ne avremmo da guadagnarci.

LaTarma – Antitarma (Qui base luna)

Marta Ascari in arte LaTarma esordisce con un full length ricco di sperimentazioni pop in bilico tra l’indie e il mainstream, cercando di produrre un suono del tutto personale e fuori da qualsiasi tipo di schema prestabilito, ricomponendo il tutto ad ambizione profonda che si fa carne viva, naturale, in completo cambiamento.

E’ un disco si che suona pop, ma che riesce a catturare l’attenzione per sonorità affini ad un mondo poco convenzionale, ricco di sfumtaure che si librano soprattutto in un cantato moderno, ricercato e ricco di senso e condivisione.

Entrare nel mondo di Marta non è difficile anzi, lei mette a disposizione tutto quello di cui abbiamo bisogno per sperimentare e sperimentarci.

Un musica che si fa viva e raggiante racchiusa in brevi momenti di intimità che si fanno portavoce di un esistenzialismo moderno e di controcultura letteraria.

I testi sono in bilico tra il non sense e l’ossimoro esibito che prende forma all’interno di un contesto che racchiude perle da custodire e conservare, quasi fosse un regalo prezioso da far vedere solo a chi veramente conta.

Latarma sa il fatto suo e colpisce nel segno con pezzi come il singolo “Icastica” o l’energia in “fiori neri” passando per la tiepida “Istanbul”; fanno capolino poi nel finale la malinconica “Mongolfiera” e la sperimentale “La bellezza delle cose”.

Un disco per ogni stagione, che racconta il disincanto e la passione, un album che fa sperare tra la poesia e la magia: il mondo raccontato da Marta è un mondo dove poter vivere.

DuValier – III (Autoproduzione)

imageQuesti giovani thienesi, provinciali di Vicenza, ci sanno davvero fare.

Solo 3 canzoni sporche, piene, dense di blues maledetto e rasserenamenti post aurora boreale in cui le sostanze si complicano per avvicinarsi ad un mondo in putrefazione e alterazione continua, un mondo di risorse da cui attingere i vuoti di una memoria senza tempo, un suono che è il racchiudersi di un’orchidea maledetta e rappresa al suolo dalla nera pece.

Un ep che parla di strade, donne, maturità e senso della vita che sprofonda in canzoni dalla matrice rock ’70 e perle in disillusione pronte a colpire, pronte a far sperare ancora.

Ecco allora che i toni post punk di M.A.D. si fanno distese infinite in Texas per finire con le chitarre di pura improvvisazione in Dallas ’63.

Una bella piccola, prova, matura ed eterogenea che si lascia alle spalle le ingenuità da prima band per approdare in territori più incisivi e completi in attesa di un vero e proprio full lenght.

Loop Therapy- Opera Prima (Irma Records)

Contaminanti, ammaglianti e abbaglianti.

Polvere di stelle che cade dal cielo per ricoprire uno strumento usato, vecchio , di legno lacerato, ma che incanta per disincanto; quello strumento pronto ad essere usato e accoppiato per esigenza a campionamenti in Miles Davis crashato per passare al funky, hip hop e alternative della migliore matrice.

Accoppiamenti singolari quindi si ascoltano con i Loop therapy che riescono con inspiegabile naturalezza  a tracciare una linea, un solco prezioso da dove poter attingere materiale per improvvisazioni infinite.

Si perché qui c’è l’elettronica, ma c’è anche il rap di strada, suonato con veri strumenti questa volta; c’è il dub, ma anche il free jazz con incursioni sonore degne della miglior scena americana.

Sembra di ascoltare, in questa Opera Prima, un rigore di fondo che in qualche modo contrasta e si accende a contatto con la polvere di un palco ammorbidito dal tempo e dalla stagionatura del palquet.

Un album che vede diverse collaborazioni come Bassi Maestro, Turi e Colle der formento ad impreziosire ciò che lo era già di per se.

Un raccolta di immagini che il solo ascolto in loop per giorni e giorni non riuscirebbe a stancare le orecchie più labili.

Ecco allora che il pregio di questa piccola opera monumentale sta nel fatto di poter raggiungere nuove menti e nuovi occhi rimanendo inalterati, senza scendere a compromessi, vivi.

 

 

 

This is not a brothel -This is not a brothel (Autoproduzione)

Questo non è un bordello, primo album omonimo dei This is not a brothel.

Un’incursione nell’Italia più cupa, poco serena, oscura dove il manipolo dei corpi e del potere si stagliano lungo mete che non hanno nessun traguardo, ma solo sogni che non lasciano più scampo, che non lasciano traboccare i fiori, ma si inerpicano nei pensieri più reconditi di noi poveri umani, per raggelare i cuori di chi, a stento, riesce a vivere tutti i giorni.

Bocche che si innalzano per mangiare corpi, fiori dalla sola parvenza che sono pronti a trasformarsi in materiale di decomposizione per generare semi di follia.

Un suono granitico, lacerante che incontra il grunge di Seattle all’indie rock di stampo newyorkese.

11 brani che ripercorrono un declino spaventoso, una musica non per tutti, una musica fatta di vibrazioni sospese tra un declino memorabile e una rinascita sperata.

Un gruppo questo, che al suo primo esordio, confeziona una prova convincete, sudata e inglobante.

Come barca in mezzo alla tempesta, come albero che scava nella terra, come l’uomo che smarrisce l’anima dentro al mondo.

Il mercato nero – Società drastica (SeahorseRecordings)

Un rap che si trasforma in musica Indiepoprock.

Qual è la formula alchemica di tutto questo? Qual è questa capacità di mettere in rima parole con basi musicali che non sono loopate, ma suonate in modo perfetto con strumenti “comuni” e l’aggiunta si sintetizzatori?

Il mercato nero, al loro primo disco, mette assieme frasi condite con un velo d’ironia scalciata dalla drasticità della vita, una vita non fatta nella strada, ma per la strada, una vita che risucchia il tutto che viene rielaborato grazie all’utilizzo del vintage anche nel generare suono.

Ecco allora che il vecchio incontra il nuovo, il nuovo che non è sempre positivo, non è sempre portatore di sani principi e il “Mercato nero” lo sa bene in quanto in questa loro  “Società drastica” il tema, il senso del disco si evince già in “Esche vive”: presagio di un mondo corrotto, avido e utile nella sua inutilità.

Si snocciolano bene poi gli altri brani, a rimarcare in modo ancora più netto le parti che siamo in qualche modo obbligati a recitare, fanno fede pezzi come “Tossico”, “Demoni” e “Inferno”.

Il tutto suona come una fotografia che cola colore, che si lascia sporcare attingendo dalla voracità dell’abisso una linfa nuova per emergere dai sobborghi industriali, un bianco candore a denunciare i pericoli del mondo moderno, una poesia in rima quindi che scalcia con gran classe gli stereotipi quotidiani.

 

Quindi – Esistenzialisti per gioco (Autoproduzione)

Uno specchio in frantumi che raccoglie facce, volti in consumazione che cercano un’ inesorabile vittoria all’interno di una scatola che perennemente è vuota, che in qualche modo è in cerca di trasformazioni sicure, ma non riesce a riempirsi, non riesce a trovare uno sfogo dentro a pomeriggi grigi di sole spento.

“I quindi”, band torinese, confezionano “Esistenzialisti per gioco” : un album immediato, che parla con parole semplici e disinvolte delle difficoltà quotidiane: piccoli attimi di storie racchiuse in un diario da far crescere e implementare con racconti di vita vissuta.

Le sonorità abbracciano un pop rock ricercato soprattutto negli spunti della batteria, che sa essere incisiva, precisa e puntuale nelle diverse ramificazioni che compongono la forma-canzone che in fatto di musicalità assomiglia molto alla formula “Verdena” del loro primo omonimo.

Si parte con il botto tribale di “Danza allo specchio” passando per l’ammiccante “Maschere” senza tralasciare l’acquarello dolce-amaro di “Inverno troppo freddo”, i toni poi si incupiscono toccando vertici di purezza con “l’adolescente” e finendo con l’autocritica ne “Il mio show”.

Un album che non si presenta in formato fisico, ma che è solo possibile downloddare e trasmettere in modo capillare; un disco che acquista nuove forme ad ogni ascolto, 9 brani che riescono a far proprio un pensiero e un concetto radicato in profondità e da cui bisognerebbe trarne sempre spunti per un domani diverso.

Bluoltremarte – Spomenik (VDM Sound)

Bluoltremarte - Spomenik - copertinaElettrici quanto basta per rendere teso il cavo più alto in cui far posare uccelli in volo; un riposo che sconvolge , un riposo che riporta in vita il suono agli albori, granitico e puro, raccolto da razzi che si stagliano nel cielo e coinvolgono con una forte esplosione di rock, anche il più lontano degli ascoltatori.

Perchè di rock stiamo parlando, e questi “Bluoltremarte” lo sanno fare con una certa grinta e caparbietà che l’associazione viene quasi spontanea a gruppi della scena come “Il teatro degli orrori”, ma anche “Elettrofandango”, passando per le chitarre di “Tesio” in Catartica.

I quattro vengono dalla provincia romana, carica di quel suono grezzo, ma allo stesso tempo puro che regala distorsioni prive di virtuosismi i quali servono solamente a confondere le idee creando un genere ricco di stereotipi collettivi.

Il suono deve essere incanalato e soprattutto controllato per esplodere con vigore in simbiosi con la voce che si insinua creando un tutt’uno: testa e cuore in un unico attimo di pace.

Ecco allora che possiamo ascoltare pezzi come la bellissima “Oltremarte” passando per atmosfere post grunge in “Tragica commedia” e lasciando spazio alla rarefatta “L’ora in cui”.

Dopo la strumentale “Spomenik” il disco riparte aggressivo con il crescendo di “Vortice” e “Folkloro” e chiudendo le danze con “Ossido” che ammicca al suono dei fratelli “Ferrari” di “Solo un grande sasso”.

9 tracce, niente di più, una conquista in crescendo di sonorità usate con buon gusto e capacità narrativa, una novità che mi auguro riesca ad allargare il loro cerchio d’azione trasformando in realtà la loro capacità di essere rock all’interno di un “territorio Italia” che poi tanto rock non è.