Kamera Kubica – Kamera Kubica (R)esisto

Kamera Kubica copertina

Linguaggio diretto, semplice e senza fronzoli che si apre a incursioni indie rock per sottolineare l’importanza di testi che parlano di abbandono e di totale menefreghismo verso una società che non ci appartiene e priva di qualsivoglia aspetto che ci mantiene in vita.

Vengono dalla provincia di Vicenza e sono i Kamera Kubica, band che rincorre il sogno di apostrofare il genere in innovazione sonora, concentrandosi su melodie pop dal piglio rock distorto, dove appunto quest’ultime la fanno da padrone passando per echi di sospirato suono che avanza e colpisce.

Peccano un po’ di ovvietà questo è vero, ma nel complesso il suono che ne esce è un incrocio tra i primi Afterhours e le lisergiche dicotomie dei Marlene abbracciati per l’occasione da un’ubriacatura contorta in simil Muleta, dove il bicchiere mezzo pieno porta il gruppo a sali scendi emozionali.

Si parte con l’esistenziale Sono solo per finire con l’altrettanto esistenziale Io sono qui, passando per i viaggi Se Salperai e Budapest.

Suono distorto e contemporaneamente melodico, dieci pezzi che si concentrano sul ciò che abbiamo avuto dalla vita  e su ciò che ancora possiamo spendere, una direzione sonora ben precisa che, senza fronzoli, mette al tappeto per vivacità della proposta, con l’augurio che questo sia solo l’inizio.

DuValier – III (Autoproduzione)

imageQuesti giovani thienesi, provinciali di Vicenza, ci sanno davvero fare.

Solo 3 canzoni sporche, piene, dense di blues maledetto e rasserenamenti post aurora boreale in cui le sostanze si complicano per avvicinarsi ad un mondo in putrefazione e alterazione continua, un mondo di risorse da cui attingere i vuoti di una memoria senza tempo, un suono che è il racchiudersi di un’orchidea maledetta e rappresa al suolo dalla nera pece.

Un ep che parla di strade, donne, maturità e senso della vita che sprofonda in canzoni dalla matrice rock ’70 e perle in disillusione pronte a colpire, pronte a far sperare ancora.

Ecco allora che i toni post punk di M.A.D. si fanno distese infinite in Texas per finire con le chitarre di pura improvvisazione in Dallas ’63.

Una bella piccola, prova, matura ed eterogenea che si lascia alle spalle le ingenuità da prima band per approdare in territori più incisivi e completi in attesa di un vero e proprio full lenght.