Miriam Mellerin – Il vizio (Arroyo/Metarock)

Secondo album granitico, corposo e pieno di rimandi alla scena stoner questo dei Miriam Mellerin, band pisana che al secondo lavoro si interseca in melodie legate al post grunge di metà novanta per sfociare inevitabilmente in un concentrato di parole-suono che si abissano fino a far della lingua italiana un veicolo per trasportare emozioni, impresa molto difficile di questi tempi, visto che quest’ultima, nelle produzioni odierne, è impiegata perlopiù in testi che parlano di malinconiche vicende non sense.

I nostri escono da questo mondo pre imbottito di consuetudine per creare un rock studiato meticolosamente con tanto di cori a coronare un approccio diretto, schietto e ingombrante.

Si perché si tratta di un disco registrato in presa diretta , che in qualche modo racchiude lo spirito della band, incapsulata in navicelle al fulmicotone che si librano in cielo lasciando scie di fuoco.

E’ un album raffinato, che parla di incertezza sul domani e sul male di vivere, un disco che abbraccia elementi del cantautorato per portarlo in una dimensione esplosiva, incerta e soffocante, specchio di una realtà che precipita nel buio giorno dopo giorno.

I pezzi sono argini per questi tempi, argini di una terra che ha bisogno di essere incanalata in un fiume di luce.

Punkillonis – Eclissi (Pick up Records/Bella Casa music/Punkillonis)

 

Non c’è nulla da dire, qui ci troviamo davanti ad una evoluzione del punk nostrano che riprende in gran parte temi già conosciuti e li trasforma all’interno di una realtà, quella italiana, che non da scampo, che non concede.

Ecco allora che la rabbia va gridata, quasi fosse una continuità cercata e voluta con gruppi come CCCP e i primi Skiantos, una prosecuzione naturale del turbinio politico e sociale che innescava canzoni e tremante si faceva portavoce di una generazione e di un male di vivere.

I cagliaritani Punkillonis sono molto conosciuti in terra d’origine e dopo due cd alle spalle e numerosi concerti, condividendo i palchi di numerosi artisti del calibro di Linea 77, Meganoidi e Derozer, si cimentano nella terza prova da studio confezionando il riuscitissimo Eclissi.

Disponibile anche in vinile, il disco parla di percezioni e decadenza, di luoghi del buio e di caparbietà, un’immane ricerca del giusto, del vero, di una libertà che non solo è propria di questa musica, ma deve essere costante ricerca all’interno di ognuno di noi.

Ecco allora che il singolo Dove gira il vento lo troviamo a chiudere il disco mentre in mezzo ci sono i Ramones, i Clash di Sandinista e tanto sapore amaro nel tempo che se ne va, un tempo che per i nostri non deve essere perso, anzi deve essere raccolto, vissuto e impreziosito da attimi di vita; per il resto lungo i 16 brani si ascolta tutta musica ben suonata e strutturata, non c’è altro da aggiungere.

Litio – Con la semplicità (Vollmer/Audioglobe)

Ironici, divertenti e prorompenti, intarsiati e uniti da mescolanze di stili e generi che li rendono inclassificabili seppur facendo parte di quell’indie pop nostrano piacevole e scanzonato.

I piemontesi Litio sono attivi dal 2004 e dopo numerosi cambi agli strumenti la formazione si stabilizza/destabilizza portando alla luce il loro primo disco (Flo)reale nel 2011 che li vede aprire, tra gli altri, per Nicolò Carnesi, Perturbazione e Zen Circus, poi la cosiddetta maturità/immaturità li fa avvicinare a Francesco Groppo (Wherever Recording Studio e Vollmer Industries) che consente loro di registrare Con la semplicità, il loro secondo lavoro.

Ed è proprio semplice l’approccio di questo disco, diretto, comprensibile, senza ricami o richiami a quant’altro, sola e pura semplicità.

I ritmi power pop si condensano con il punk e ci lasciano trasportare verso testi freschi, sbarazzini e in vicissitudine di cambiamento.

Tanto per fare un esempio ascoltando la traccia d’apertura 16 anni si respira una sferzata d’aria fresca racchiusa in pochi attimi di gioia adolescenziale , si passa poi a Mamacita che con echi latineggianti ci trasporta con il suo ritmo altalenante a Bugiardi la radiofonica del disco.

Si passa poi velocemente a Non capisco, canzone blues sull’assenza di punti stabili e proprio prendendo spunto da queste parole Per me e Bus si affaccia su territori ulteriormente nuovi, quelli del soul e del battito in levare; La ballerina ricorda i vicentini Casa, Sergio invece è radicalità punk che si fa intendere anche nella chiusura con Dice.

Un disco pieno di spunti di osservazione ed energia vitale capace di conglobare pensieri che si alzano per creare quel vortice innovativo di cui la canzone italiana ha bisogno.

Feel in the Void – Steps to nowhere (Autoproduzione)

Un duo anomalo che si inerpica lungo i sentieri della costa americana dove strade lunghissime tagliano territori esplorati solo da pochi e grandi intraprendenti viaggiatori.

Questo disco dei Feel in the Void potrebbe essere la colonna sonora di un viaggio fatto a fine ’60 con la propria cabrio e la musica che ti invade a tutto volume, senza cercare tante spiegazioni e lasciandoti appresso giorni andati male, un misto di chitarre acustiche e assoli old style con tanto di richiami alla Eric Clapton, sentire la cover presente nel disco di Tears in Heaven, tanto per farsi un’idea.

Un disco questo ben suonato e ben costruito che il duo foggiano, trapiantato a Bologna, ci regala marchiando a fuoco un proprio stile che raccoglie le proprie basi su di un rock Hendrixiano che parla la lingua dei Creedence ed entra nelle radici profonde di quella musica che diede inizio al tutto.

L’ep composto da sette canzoni inizia con l’alt prog di All my thoughts, lasciando spazio a Lonely Groove che potrebbe essere tranquillamente una canzone dei Pearl Jam, passando per gli assoli di The evildoers e lasciandoci incantare dai cori di More like a diamond, il disco poi acquista atmosfera con Brave, lasciandosi trasportare dalle sfocature Claptoniane per finire con Aprirò le danze canzone interamente cantata in italiano che strizza l’occhio a Marta su Tubi e a Med in Itali.

Michele Nardella e Giuseppe Vinelli ci sanno fare e lo dimostrano in questo disco che ha tutte le carte in regola per aprire più di qualche porta ancora chiusa, un soffio di vento riconoscibile da lontano, ma che porta dentro di sé sottili attimi di cambiamento, un bel percorso questo intrapreso dal duo che porterà sicuramente verso strade infinite.

Andrea Carri – Chronos (Psychonavigation Records)

Tempi dilatati, clessidre fermate dal tempo e dalla natura che fa germogliare anche il più piccolo strato di sementi lasciati riposare al sole di un nuovo giorno, quasi fosse una contemplazione mistica che riempie il cuore di silenzi che uccidono le parole.

Musica suonata con il pianoforte, l’armonia di Andrea Carri, il giovane pianista già passato nelle pagine di IndiePerCui, che con questa nuova prova, maggiormente orchestrata si lascia trasportare dalla costante ricerca di una via amalgamata da strumenti classici rivisitati in chiave moderna.

Andrea è un tipo da colonne sonore e si sente, simili ad altri per scelte stilistiche, lontano da altri per scelte di vita, un ragazzo che sa osare esprimendo concetti senza utilizzare parole, esprimendo speranze in un domani incerto.

In Present compare anche Perry Frank, compare e stupisce perché qui l’avanguardia incontra il classicismo, la continua osservazione di un tutto da punti di vista differenti, un’immagine che sfocata ricalca i colori dell’arcobaleno in vibrate armonie.

Si respira in tutto il disco le orchestrazioni di Kid A in Motion Picture Soundtrack, quella silenziosa armonia che ti pervade e ti rilascia lentamente un sapore da estasi continua.

Musica filiforme che si intreccia in modo esemplare in pezzi come Le parole che non ti ho mai detto, nella islandese Future  o in Music is eternity passando per il commovente finale di Dopo un raccolto ne viene un altro.

Il pianista ha fatto centro per l’ennesima volta confezionando un naturale proseguimento del cammino iniziato, un ragazzo da tenere d’occhio e da ascoltare raccolti nell’ultimo sole d’estate.

 

Borrkia Big Band – Squattrinato (La fattoria maldestra)

Borrkia big band è il progetto solista del mitico batterista del Maniscalco Maldestro che nella nuova proposta si cimenta con la chitarra e la voce, strumenti essenziali che fanno da apripista a tutta una serie di altri componenti preparati all’occasione, rispolverando sax e trombe in gran lustro.

Ascoltare questo album è come fare un grande tuffo nel passato in un mondo color pastello dove il rock and roll si mescola in maniera sopraffina al blues e le semiacustiche acquisiscono un valore essenziale rendendo il tutto molto swingato, un continuo vortice di canzoni che fa ballare ininterrottamente fino a tarda notte.

Questo disco non è però un semplice contenitore di note al solo scopo di intrattenere con piglio deciso l’ascoltatore, questo album è un diario di pensieri e di vita dove lettere si incrociano con vissuti, esperienze, ecco allora che pezzi come Avevo un angelo ci introducono in un mondo di sogni infranti “Hai corso già abbastanza da farmi perdere…Ed io non posso cancellare storie vissute” oppure in Fila diritto al lavoro si raccontano giorni e speranze “Ma voglio scrivere, studiare, voglio vivere…non voglio stare qui da solo a lavorare, è una storia che non posso perdere”.

Ci sono contenuti in questi pezzi, c’è un po’ di morte e tanto ritorno, un piccolo sprazzo di felicità dolente che si inerpica giorno dopo giorno, attimo dopo attimo.

Stefano Toncelli ha il pregio di aver trasformato un genere che poteva essere considerato quasi velleitario, in un qualcosa di più importante, un viaggio che è un passaggio obbligatorio, un viaggio che incorpora energia e vita, piccole chiacchiere di paese che sono radici per il nostro domani.

Rudy Rotta – The Beatles vs The Rolling Stones (SlangRecords)

rudy rotta

Rudy Rotta non ha bisogno di presentazioni e sicuramente il disco che abbiamo sotto mano è il risultato di uno studio coraggioso e di una passione che non pone freno agli anni che passano.

Per fare cover non basta riprodurre fedelmente timbrica, stile e metrica delle canzoni, ma soprattutto personificare uno stato, un modo di essere, quel tempo che più non ti appartiene costringendoti a lanciarti verso l’indefinito, aspettando che il trascorrere dei giorni dia i suoi frutti.

Rotta, il bluesman italiano per eccellenza, è riuscito, dopo anni di carriera ad affrontare uno scoglio sul cui versante si contrappongono due gruppi le cui vite e le cui strade molto diverse si intersecano in un botta e risposta frenetico: i Beatles e i Rolling Stones.

Il tutto si identifica in una visione molto chitarristica, che a tratti sembra alquanto esuberante soprattutto dal lato fab four; si prediligono arpeggi e assoli in primo piano, dimenticando, per certi versi, il vero senso della canzone.

Mi ripeto è molto difficile fare delle cover incanalando uno spirito di una generazione e a mio avviso Rudy esprime al meglio le sue capacità in numerose canzoni dando quel tocco di personale e di differenziazione che si fa scopo principale lungo le 23 tracce dell’album.

I successi sono sicuri e conclamati, per le pietre rotolanti si parte, tra le altre, con Simpathy for the Devil passando per la ballata Ruby Tuesday, la fiammeggiante Satisfaction e l’incredibile Lady Jane con presenza Quintorigo palpabile, dal lato degli scarafaggi invece si trovano delle piccole perle come Things we said today, While my guitar gently weeps e la meraviglia di Strawberry fields forever suonata per l’occasione assieme ai Gnu Quartet.

Nonostante qualche sperimentazione di troppo il nostro ne esce vittorioso, le doti si esprimono al meglio e il talento nel già sentito fuoriesce in tutto il suo splendore, e poi citando Holiday “Tutti dobbiamo essere differenti. Non si può copiare un altro, e nello stesso tempo pretendere di arrivare a qualcosa”, quasi fosse un monito di un vecchio saggio, la differenza è vittoria e non omologazione.

 

The Rust and the Fury – See the colors through the rain (WoodWorm)

 

I perugini non scherzano e non sono frasi da relegare ai bigliettini dei famosi cioccolatini, anzi, questi ragazzi sono uno spaccato di cultura che dimostra sempre più la ricerca e il contatto con le generazioni e le persone che li circondano.

I cinque uniscono e stupiscono bene, facendo un bel pop, dalle venature britanniche, sfatando i luoghi comuni e facendosi innestare in modo preponderante da suoni ’90 contornati da incroci Baustelliani, che si fanno ecco in tutte e undici le tracce.

Canzoni scanzonate e scanzonate canzoni si ritrovano in modo semplice a stupire con un mood e con ritornelli che si fanno presto ricordare, quasi fossero una piccola colonna sonora da custodire all’interno delle nostre orecchie e da accendere quando abbiamo freddo.

Ricchi di atmosfere corali, grazie anche alla complicità della voce femminile di Francesca Lisetto, i nostri aggrovigliano suoni in arpeggi e presenze degne di una grande pop-rock band.

Mollati gli ormeggi ecco allora che l’album si amplia, si completa e si deforma in un arcobaleno di colori che parte blando con May the sun hit your eyes, passando velocemente ai ritmi sostenuti di Amanda e incalzando l’acustica nel folk di The seconds in between; in un attimo poi si fa strada la riuscita Lived e la sincopata finale Tomorrow’s rains.

11 tracce a completare un personale cammino, un piccolo, grande anticipo per il nostro compleanno, perché si IndiePerCui festeggia 2 anni di vita e quale regalo migliore di questo per passare l’Agosto in attesa del 19 settembre data di uscita di questo essenziale disco?

 

Micromouse – Animal (Autoproduzione)

Una donna seduta dietro alla batteria per questa band che ha molto da dire e raccontare.
La sopracitata è anche cantante e si chiama Michelle Cristofori.
Assieme a elementi di validità provata come Riccardo Mariani alla chitarra, Gloria Annovi alle tastiere e Gabriele Riccioni al basso; confeziona un nome e un progetto: i Micromouse che si presentano al pubblico con il loro primo album Animal.
Il tutto è sapientemente accompagnato da una cover onirica e per certi versi spiazzante.
Opera dell’artista spagnolo Fernando Ramos: un corpo nudo, di donna, con la testa di rapace, quasi una simbiosi tra uomo e natura: la vita che si aggrappa con caparbietà alle situazioni disastrose che la accompagnano.
Ma veniamo alla musica, completamento necessario ad un’opera, che pur sempre ha valore in primis per chi l’ha creata e che poi sta a noi darne il giusto senso e incanalarla nella giusta direzione.
Il disco in questione sorprende per vivacità e incuriosisce soprattutto per la strana formula drums – woman  in chiave live anche se sul disco le sfumature si fanno meno accentuate con sferzate di cembalo suonato come fosse un richiamo al brit rock degli anni ’60.
In questo album c’è molto gusto e la presenza di chitarre in arpeggio continuo a tessere trame è sinonimo di essenzialità comprovata, tesa alla ricerca della meraviglia nella semplicità.
Ritmi dilatati che si aprono nella sciolta 90, per comprimersi appositamente in pezzi come Stalker e Animal, singolo per foreste ammalate, distrutte dall’uomo, una canzone per gruppi rari in via di estinzione.
I toni poi si fanno più accesi in pezzi come Tsunami o Last night regalando continue emozioni da stereo al massimo volume.
Il disco si conclude con la ballata Pierced Box, dove il protagonista è ancora il cembalo che
accompagna una voce minuta e delicata, una via da seguire lontana e in dissolvenza.
Un disco vario, che abbraccia stili in un’unica concatenzaione, una nuvola di vapore leggera che vale la pena di sfiorare anche per un solo istante.

The dust in god we trust – Remembrance (Autoproduzione)

Travagliata storia per il gruppo di Vittorio Veneto che a quasi 20 anni dall’esordio e quattro album autoprodotti alle spalle, si presenta in forma più che mai confezionando un album ricercato, che stupisce, ricco di influenze e che sottolinea la preparazione dei tre strumentisti che si avvalgono per le registrazioni in studio anche di altri componenti, quasi fosse una grande famiglia pronta a cogliere le più disparate sfumature, riversandole tra le piste di un mixer d’altri tempi che strizza l’occhio al futuro.

Risulta difficile incanalare il gruppo in un genere predefinito e noi di certo non lo vogliamo, sta di fatto che le tracce scorrono in velocità lasciando stupito anche l’ascoltatore più incredulo.

Ottime performance vocali sono da contorno all’uso di strumenti diversi e il circolo si chiude proprio quando abbiamo bisogno ancora e ancora di questa musica avvolgente sin dalle prime battute.

Ascoltare l’arabeggiante Remembrance che sembra uscita direttamente da un disco di Bucley per capire la varietà della proposta, fino alla suite Inside Out che si compone di una forma metrica alquanto inconsueta, passiamo poi a A little bit of savoir faire che riporta ai Beatles del White Album fino a saltare con un balzo al funk di Are you gonna get it.

Nel finale si ascolta la bellissima e speranzosa Tears in her eyes e si toccano i vertici dell’album nell’omnia Lord of the flies.

Tracce mature, sofisticate ed eleganti, un gruppo che a mio avviso meriterebbe di più; una band che ingloba generazioni in un solo unico disco.