Karenina – Via Crucis (Autoproduzione)

Suonano sott’acqua questi Karenina, inglobando bolle d’aria per esplodere con strazianti parole e raccontando un’Italia che non gira.

Il suono convince fin dalle prime battute di questo loro secondo disco, Via Crucis, nato sotto buoni auspici e con una certa raffinatezza che non passa inosservata, anzi l’album stesso è portatore di quella capacità intrinseca che contribuisce a dare al tutto un tono caricamente emotivo e principalmente costruito per stratificare al meglio racconti, stati d’animo ed emozioni.

I 5 bergamaschi ricordano sotto l’aspetto grintoso i conterranei Verdena, anche se qui la musica accompagna testi di gran spessore, meno criptici e che toccano con mano le vicende di ogni giorno.

Un pop rock pensato per ammaliare, una musica che non è latente, ma si esprime con capacità sbalorditiva già dalle battute iniziali quando il viaggio ha inizio il 26 Novembre 2010, passando per la partenza softcore di Ovest e generando emozioni a non finire nell’inno generazionale Nel centro del Paese.

Il disco poi si apre a territori di vera e propria sperimentazione sonora, arrivando all’ipnotico riff che non si scorda tanto facilmente in Per vederti ancora.

Notevole poi risulta la metrica e la struttura della chisura del cerchio 26 Febbraio 2011.

Un disco maturo, energico, che contrappone con efficacia momenti di calma apparente a momenti che non fanno rimpiangere di certo anche la rock band più naviagata; un album dalle tinte scure che solo grazie alla chiave magica nascosta nella nostra mente riesce ad aprirsi in colori sempre più reali.

 

Sugar Kandinsky – Canadian Pieces (Autoprduzione)

Questi quattro ragazzi vengono da Parma fanno musica post rock e si sente benissimo.

Uno strumentale molto gradevole, io lo chiamerei anche strumentale emozionale che si divincola in maniera perentoria tra fragori e code infinite, creando nell’ascoltatore una sorta di trance continua, inesauribile, vitale, di un’essenza capace, pura e solitaria.

Sembra di essere perennemente all’interno di una colonna da film, melodie malinconiche e vibranti tra terre islandesi e geyser in vapore perpetuo.

In questo breve, ma intenso primo EP, le tracce si contorcono quasi a sembrare una sola, ricordando per certi versi affetti dimenticati e sorprese intensamente custodite che sono pronte ad uscire dallo scrigno dei desideri di ognuno di Noi.

Un piccolo EP composto da tre pezzi: Interferenze, Gocce invisibili e Ladybugs era, un disco che ha bisogno di una naturale prosecuzione per esplodere in tutto il suo splendore.

Aspettiamo fiduciosi il full length.

Two Moons – Elements (Irma Records)

Con i Two moons si fa un salto indietro di 30 anni e più, tra batterie sincopate e suoni che sembrano provenire da territori sconfinati e lontani.

Una voce che convince fin dalle prime battute, che ingloba Joy Division e Bauhaus quasi a chiudere un cerchio magico che si esprime nell’arcana oscurità di queste 10 tracce , scivolando perentorie quasi fossero nuvole di vapore che costantemente si alzano per far vedere l’orizzonte come non si era mai visto prima.

Una lenta trasformazione che sfumatura dopo sfumataura si concentra in interminate melodie, una profondità toccata e rivelata da sonar acquatici che creano mondi su mondi, strade su strade per arrivare all’insospettabile bisogno di vita e rinascita dalle macerie del tempo.

Si inizia con Welcome to my Joy per vibrate sterzanti in Snow, bellissima ballad di puro romanticismo celato, poi come in un soffio si passa ad Autumn altro gioiello stagionale minimale e dirompente.

Le canzoni poi scivolano mantenendo lo stesso stile della prima parte del disco e fra tutte spicca nel finale la strumentale in contorsione mistica Leaves.

Un disco che riporta in auge uno stile quasi dimenticato, ma che ha posto le basi per tutto l’indie rock moderno, i Two Moons sanno bene che cosa vogliono e questo disco è l’emblema di una trasformazione che sembra quasi non finire mai.

Davide Tosches – Luci della città distante (Contro Records)

E’ la pace che cercavo in tutto questo tempo, dove arrivano costantemente dischi ricchi di suoni e rumori, quasi fosse una gara a chi riempie di più le canzoni con cose e trovate tante volte inutili e poco edificanti.

Poi apri un cartonato, semplice, puro, bianco sporco, parafrasando gli altri piemontesi MK, con disegni delicati che ritraggono animali della natura intenti nell’essere al centro di un qualcosa di meraviglioso, delicato, composto.

Illustrazioni di pennarello su carta create dallo stesso autore che vanno a completare un’opera ricca di suggestioni e mirata a conglomerare il tracollo che la nostra società si sta meritando in nome del progresso che assorbe la nostra essenza, creando solo nuvole di polvere e contraddizioni.

Una voce fuori dal coro quindi quella di Davide, che in questo terzo disco Luci della città distante, si fa portavoce di un genere essenziale che ricorda le solitudini campestri del primo Nick Drake, raccogliendo poesie di vita che solo i grandi cantautori riescono a fotografare anche solo per un istante.

Strumenti inusuali, una vena poetica-jazz, che abbandona lo strumming chitarristico per lasciare spazio a poche venature folk per incontrare flicorno, viola e violino a definire un primo indefinito spiazzante, ascoltare il singolo Il primo giorno d’estate per credere.

E’ un immergersi costante nella natura, il viaggio del cantautore piemontese, che riflette di per sè un animo che sa di antico, quasi fosse un giovane Rousseau con il proprio Emilio da educare, lontano dalla città, preservando la purezza del bambino dalla corruzione a cui la società che lo circonda lo farebbe altrimenti andare incontro.

Un album non per tutti di certo, ma che ai giorni nostri dovrebbe essere perlomeno sfiorato dolcemente da tutti, se non altro nella sua essenza primordiale, quasi fosse un morbido abbraccio che ci rende vivi.

Héloise et Abélard – Lettere d’amore musicate da Paolo Bernardi (Sifare Edizioni Musicali)

Una passione per la letteratura che si mescola con il jazz sopraffino che lascia il segno ad ogni passaggio di ottava, meravigliando una voce narrante e sicura nel proprio incedere a raccontare una delle storie d’amore più tragiche che si siano mai ascoltate.

Paolo Bernardi dopo il successo suonando Aznavour, si cimenta creando un vero e proprio audiolibro dove il musichiere romano interseca in modo efficace suonate per piano accompagnato da Piercarlo Salvia al clarinetto e al sax tenore, da Francesco De Palma, Marco Contessi e Flavia Ostini al basso, da Pietro Fumagalli, Stefano Cicconetti e Dario Panza alla batteria e dalla voce di Abelardo interpretata da Fabrizio Picconi e da Rosanna Fedele nelle vesti di Eloisa.

11 tracce di questo amore che si inerpica nella religione, attraversando eventi storici  e fermandosi davani al dovere morale: coscienziosa scelta di una prondità succube dei giorni e del tempo.

Suonato in modo superbo grazie a contrappunti conturbanti, il classico della letteratura si fa vivo più che mai, dentro ad un mondo che è scontro tra ragione e sentimento, dovere e istinto; quasi a chiudere un circolo magico doloroso, intenso, vero.

Med Free Orkestra – Background (CNIMusic)

Multietnici e colorati che inglobano colori da ogni luogo del mondo mescolando con una certa eleganza canzoni che si divincolano in modo deciso e predominante lasciando a bocca aperta per la varietà di suoni generati che decollano pian piano verso una meta non sempre prefissata, ma che fa del viaggio un punto di partenza per scoprire, imparare, ed esportare cultura.

Una cultura che si fa ricca di sfumature e impressioni, carica di quel movimento folk etnico che impreziosice momenti di calma e phatos a danze e ritmi del mondo quasi fosse una world music in continuo divenire, sotto le stelle in una spiaggia affollata.

Ascoltare i Med Free Orkestra, nel loro nuovo album, è come ritrovarsi nel Gran Bazar di Istanbul tra stoffe impregnate di colori accesi e spezie profumate: un crocevia non solo per gli occhi, ma anche per l’anima.

Ecco allora che le canzoni si impreziosiscono grazie a sempre nuova e costante linfa partendo da African Move passando per l’introspettiva Ballata di San Lo’, lasciando posto alla corale Dondolo il mondo e concludendo il disco nell’incedere di Pizzica dello scafista.

12 componenti per 10 canzoni, un concentrato di viaggi e parole di altri tempi, di altri mondi, quasi fosse un messaggio universale di speranza.

Cardosanto – Pneuma (Wallace Records, DGRecords, Rude Records Savona)

Sempre acceso lo spirito indipendente da anni a questa parta in terra di Liguria e limitrofi, quasi fosse un contatto  da mantenere con le origini e di più un qualcosa legato a radici che affondano in un costrutto sviscerale e di per sè poetico.

I Cardiosanto hanno pubblicato questo album ben 14 anni fa, il loro primo e ultimo album, che in qualche modo rivive grazie a questa ristampa affidata alla miglior scena indipendente ligure, capace di sfidare le regole di mercato per uscire dagli schemi e dall’imposto che imprigiona.

Un disco fatto di suoni sporchi, ruvidi, una musica che incrocia lo Zappa migliore amalgamandosi in uno strumentale d’annata, molto analogico e vintage che si interseca perfettamente con il racconto di vita di una generazione.

Math rock e jazz core si fanno velocità toccando il post rock suonato con il sudore e l’aggrovigliamento di parole in trance si percepiscono quasi fossero un sussurro, una radio lontana che si fa presente, un profondo respiro che non ha mai fine.

Peccato, perchè questo album poteva essere un segno di cambiamento, una nuova via da seguire affidata a strumentisti validi e ricercati; un disco che spero non sia soltanto un cimelio da tenere custodito lontano da occhi indiscreti, ma anzi, un monito per le fatiche di intere schiere di musicisti che confezionano un prodotto di qualità senza avere, tante volte, il meritato riscontro.

Vandemars – Secret of gravitiy (Ultraviolet Blossom, Cave Canem D.I.Y. Records)

Profonde lance in divenire che affondano le punte in carni deboli e ricche di trasparenze quanto fantasmi di una terra lontana che si risvegliano per dare vita a una manciata di pensieri cupi e oscuri raccolti in prati neri di fiori leggiadri leggeri.

“Vandemars” è tutto questo, un racconto segreto, lasciato in una bottiglia di vetro a origine del tutto, dove l’amarezza viene rigettata verso forme nuove di contemplazione, grazie alla presenza di tre musicisti che sanno esaltare una voce che si identifica facilmente con la canadese “Morisette”, ma che guarda con un occhio anche alla musica dei “The Gathering”.

14 tracce che si dipanano tra forme sonore in grado di creare un circolo di poesia per l’ascoltatore costretto ad immedesimarsi in un mondo generato per l’occasione e cucito su misura come un abito per un bel giorno di cambiamento.

Sonorità esistenziali in testi che vorrebbero esplodere e lo fanno nell’utilizzo di “parole colorate” che si incanalano trasportate dal vento.

Una prova che dimostra grande grazia e forte capacità estetica, imprigionata da una buona dose di autodeterminazione che a mio avviso è dimostrata già nelle prime tracce del disco.

Un album pieno di tutto ciò di cui uno ha bisogno, un album che non scompare come fantasma, ma muta verso un posto migliore dove vivere.

Il Bric – Nuovo ordine mondiale (Piccola Bottega Popolare)

Bellissima idea, bellissimo disco.

Si parte dal presupposto che nazioni come Brasile, Russia, India e Cina compongono più del 40 % della popolazione mondiale e di conseguenza hanno diritto di entrare a loro modo in un contesto globale più ampio tralasciando ciò che era l’economia fin ora tra galleggiante saliscendi europeo e americanismo=capitalismo imperante.

Provate solo a pensare perchè si è costruita l’Europa e perchè si vuole sempre più rafforzarla.

I nostri mattoncini hanno una visone della terra molto più ampia e la loro idea sta in un incrocio di culture che deve inevitabilmente avvenire senza pensare che dimenticando certe problematiche la situazione venga risolta.

Sotto l’aspetto musicale questo Nuovo Ordine Mondiale stupisce.

Non è un disco di Taranta e nemmeno di etno-sound o quelle cose li che semplicemente trovo inutili se non in un contesto territoriale ben definito.

Quella che hanno inventato i nostri è un nuovo tipo di musica che abbraccia il pop elettronico di Max Gazzè e i pianoforti di Francesco Magnelli, un grido da far ascoltare a generazioni di persone che cercano di uscire dalla conformità con stile ed efficacia.

I synth sono imperanti, ma non sono invasivi, mantengono una loro struttura dimenticando l’abuso smodato degli anni ’80 per dare più spazio ad un cantautorato espressivo e concentrato a contenuti e a forma-canzone congegnata.

Le dieci tracce si divincolano in velocità lasciando lo stereo di casa in loop continuo.

Veramente una bella e briosa novità, sia sotto l’aspetto concettuale che sotto l’aspetto sonoro, un gruppo che mi auguro possa esportare la propria musica fuori dal contesto Italia, costruendo un’unità più viva e colorata, più leale e sincera; dimenticando il futile della vita e convergendo all’essenziale.

John Strada – Meticcio (NewModelLabel)

Classico rock meticcio e incanalato con aerei di prima linea che partono dagli States per finire diretti diretti in un turbine italiano che trasforma il cantato in un blues maledetto, preistorico copricapo sonoro che raccoglie tutto ciò che creò le origini di miti musicali, partendo da Bob Dylan e arrivando pian piano allo Springsteen d’annata, portatore quest’ultimo di quella bandiera a stelle e striscie consunta dal tempo e dal capitalismo smodato.

In John Strada pulsa l’Emilia, il caldo assolato che crea un continuo disorientamento sonoro con l’ambiente circostante, calcando la mano su chitarre ben impostate, dal suono graffiante e da una cura per così dire strutturale nella creazione di pezzi che a tratti risultano già sentiti, a tratti invece riacquistano un vigore nuovo, uno spirito di giovinezza che deve e vuole mantenersi tale come lucertola al sole che acquisisce forze e splendore.

Le canzoni scivolano via lasciando profondità inusuali per il genere con pezzi quali Torno a casa o nella bellissima Sangue e polvere dedicata alle vittime del terremoto emiliano.

Un disco dalle tinte bluseggianti, con tanto di cori che richiamano al soul e indiscutibilmente si inerpicano verso vette in continuo divenire, un’artista con tanta strada alle proprie spalle e soprattutto con tante esperienze di vita che, grazie anche a questo album, risultano essere punto di partenza per nuovi cammini.