E’ la pace che cercavo in tutto questo tempo, dove arrivano costantemente dischi ricchi di suoni e rumori, quasi fosse una gara a chi riempie di più le canzoni con cose e trovate tante volte inutili e poco edificanti.
Poi apri un cartonato, semplice, puro, bianco sporco, parafrasando gli altri piemontesi MK, con disegni delicati che ritraggono animali della natura intenti nell’essere al centro di un qualcosa di meraviglioso, delicato, composto.
Illustrazioni di pennarello su carta create dallo stesso autore che vanno a completare un’opera ricca di suggestioni e mirata a conglomerare il tracollo che la nostra società si sta meritando in nome del progresso che assorbe la nostra essenza, creando solo nuvole di polvere e contraddizioni.
Una voce fuori dal coro quindi quella di Davide, che in questo terzo disco Luci della città distante, si fa portavoce di un genere essenziale che ricorda le solitudini campestri del primo Nick Drake, raccogliendo poesie di vita che solo i grandi cantautori riescono a fotografare anche solo per un istante.
Strumenti inusuali, una vena poetica-jazz, che abbandona lo strumming chitarristico per lasciare spazio a poche venature folk per incontrare flicorno, viola e violino a definire un primo indefinito spiazzante, ascoltare il singolo Il primo giorno d’estate per credere.
E’ un immergersi costante nella natura, il viaggio del cantautore piemontese, che riflette di per sè un animo che sa di antico, quasi fosse un giovane Rousseau con il proprio Emilio da educare, lontano dalla città, preservando la purezza del bambino dalla corruzione a cui la società che lo circonda lo farebbe altrimenti andare incontro.
Un album non per tutti di certo, ma che ai giorni nostri dovrebbe essere perlomeno sfiorato dolcemente da tutti, se non altro nella sua essenza primordiale, quasi fosse un morbido abbraccio che ci rende vivi.