Zivago – Franco ep (I dischi del minollo)

zivago-ep2013Gli Zivago raccontano storie sussurate, tristi, allegre, bianche, scure piene di ricordi da poter decifrare in silenzio, un ascolto ricco di attenzioni verso ciò che è stato per perpetuare un moto infinito, silenzioso quasi perfetto.

Una chitarra elettrica pulitissima che trasforma il cantautorato in avanguardia concentrando suoni ed echi profondi lungo le sei tracce di questo Ep dai risvolti crudi, sinceri e immacolati.

Gli Zivago sono Lorenzo Parisini alla voce, chitarre, basso, tastiere e Andrea Zonescuti alla voce, batterie e tastiere che registrano in CasaMedusa grazie a Paolo Perego (Amor Fou) e Francesco Campanozzi (Le gros ballon, the pianomachine) il loro “Franco ep” mentre la masterizzazione viene curata da Cristian Alati (Gatto Ciliegia).

Canzoni sul tempo, sull’insegnamento, un quadro impressionista che regala emozioni suggestive quasi un’indicazione di come usare i colori nel corso del giorno che avanza.

Ecco allora che pezzi come “Adele o dell’attesa” e “Fragilità” si fanno spazio in modo preponderante lasciando alla bellissima “Considerazioni” il tempo per avanzare nella finale “Domeniche di Maggio”.

Un disco in cui gli accorgimenti stilistici sono un valore aggiunto per completare un’opera fatta di piccole storie e grandi parole.

Un incontro importante per chi vuol fare musica in Italia, quasi d’obbligo aggiungerei io.

NewDress – Legami di luce (Kandinsky Records )

Legàmi di luce cover artTrame elettroniche che si infittiscono fino a diventare un’unica cosa, un’unica sinfonia pronta a regalarti sempre il meglio per un inizio inaspettato.

I NewDress confezionano un album che è matrice fondamentale di elettronica legata in stato di grazia da una voce potente e comunicativa, chitarre che tessono tele su tele fino a coprire quei refrain che ammicano ad un sound extraitalico legato in primis a Editors di “In this light or in this evening” e ai Joy Divison.

Un disco costruito attorno ad atmosfere rarefatte, quasi cupo e oscuro dove vengono raccontati amori lontani, onirici, quasi inconsistenti dove ogni persona che ascolta può immedesimarsi nelle parole di Stefano Marzoli.

La batteria di Jordano Vianello si mescola perfettamente alle intromissioni puntuali di sintetizzatori e chitarre, quest’ultime suonate interamente da Andrea Mambretti.

Importante inoltre la presenza di Lele Battista ai sintetizzatori, al rodhes e ai cori mentre in “Bisogna passare il tempo” il sax di Andy ex “BlueVertigo” si staglia su tappeti elettronici di pregevole fattura.

Pezzi come al “Tatto nel buio”o il singolo “Dissolve” sono vere e proprio perle da nascondere e ascoltare solo quando i nostri pensieri lo chiederanno.

I tre bresciani hanno raggiunto un notevole livello di maturazione e questo album è il risultato più splendente.

La luce che ora li avvolge potrà farlo in eterno? Certamente si finche qualcuno avrà gli occhi per sentirla.

 

 

 

Virgo – L’appuntamento (Autoproduzione)

Una discesa nell’oscurità, un salto nel buio del rock più oscuro e concitato, acclamato solo da sospiri e fuochi che si accendono illuminando grotte e anfratti sperduti, dove l’uomo può perdersi per poi ritrovarsi ad un appuntamento tanto sperato quanto poco vissuto.

I “Virgo” band vicentina ex “Papataci” regala un disco che incanala atmosfere dark che si incontrano con il rock d’atmosfera, brillando per scelte stilistiche inusuali il tutto impreziosito da una voce unica, quella di Daniele Perrino, già presente nell’ultimo album “Due” di Mario biondi, dove è interprete, ma anche autore del pezzo “Lullaby”

Le dieci tracce scivolano via in modo rapido lasciando un groviglio allucinato di impressioni da imprimere su una tela a cornice di una cena illuminata da candele.

Proprio questo è lo scopo dell’ “Appuntamento”: unire chitarre taglienti che ricordano il suono di “Estra” e “Mistonocivo” alla leggerezza di una voce soul che comprime un mondo in eterne figure oniriche.

Un disco in stato di grazia, un disco che segna una maturità inaspettata, un album da ascoltare più volte per capirne l’essenza nel cambio di stagione, dove tutto può sembrare diverso e migliore.

G-Fast – Go to M.A.R.S (La Fabbrica)

Parole semplici e dannate, gridate, a volte sussurrate da una voce roca che si proietta nello spazio in profonde ostilità di passaggi intercosmici dove il buio sembra la chiave per risolvere ed esplorare un infinito che vuole essere principio del tutto mentre provoca solo caos e dannazione.

Il rocker bluesman G-Fast con questo album “Go to M.A.R.S” vuole segnare un cammino fatto di pietre dure da spostare e ricordi che si fanno sempre presenti nella mente, quasi canzoni a ricordo di un tempo lontano, ma che vogliono essere portatrici di esperienze da applicare ogni giorno nel quotidiano.

Un album ricco di energia e passione dove i sogni sbattono addosso al vetro della realtà toccando vertici di phatos in pezzi come la title track o la fumante “Mystical Man”.

Tracce da bassifondi mentali dove chi occupa la nostra testa è solo un pensiero da far volare via come in”Like an angel” o nell’incedere tribale di “The crow i s back”.

Il finale è lasciato alla splendida “What I think of you” che abbandona i territori motorheadiani per entrare con peso leggero in atmosfere più ipnotiche e distensive.

Un uomo solo contro il mondo, un progetto anomalo, ma di certo riuscito che crea un connubio perfetto tra l’impresa solitaria e la forza di un’intera hard rock band. Da applausi.

Sara Velardo – Polvere e Gas (Autoproduzione)

Sara Velardo confeziona un ep ricco di atmosfere che racconta senza peli sulla lingua la situazione statale che facilmente corruttibile porta l’essere umano ad abusare di ciò che purtroppo risulta legale e legalizzato.

Il gioco d’azzardo, la prostituzione, i pagamenti a rate che subdolamente nascondono tassi d’interessi troppo alti per un mondo civilizzato.

Dentro alle sei canzoni che compongono “Polvere e gas” si parla dell’annientamento e della conformità a cui siamo abituati girando per le strade, una conformità che è raccontata in “Il mio amore immenso” con tanto di cori e ritmo tribale, una canzone da stadio che si allontana allo stesso tempo dagli eventi “ammazza gente” domenicali.

In “Solo seta” si possono ascoltare echi di Jeff Buckley che dialoga con Carmen Consoli in un anfiteatro romano abbandonato al tempo.

Nel pezzo“Ad occhi chiusi” la cantantessa sussurra “…il tuo stipendio non basterà a risanare la società…” mentre la successiva “Ospiti della tua testa” ammicca al rock blues in power chord più tradizionali.

Il finale è affidato ad “ ’Ndragheta ” pezzo presentato lo scorso 6 Giugno, giorno della nascita del presidio di Libera “Paolo Bagnato” e successivamente accolto con gran calore da riviste quali “Venerdì di Repubblica” e programmi come “Uno Mattina” che portano il brano a guadagnarsi la vincita del premio nazionale “Musica contro le mafie”.

Grazie a questo lavoro ci si presenta davanti una cantautrice che fa della protesta un’occasione sensata di crescita, un album privo di catene e ricco si spunti per riflettere e far riflettere.

Lontano dai fenomeni di massa quotidiani Sara Velardo ha tutte le carte in regola per trasportare la massa verso mete migliori.

Gambardellas – Ashes (BigWave Records)

Con i Gambardellas, in soli quattro pezzi , si ripercorre la storia dell’hard rock tardo ’70, prima dell’invasione “new wave” e prima di tutto ciò che possono simboleggiare gli anni ’90 con annessi e connessi.

Un suono granitico, preciso e tagliente, registrato con maestria e corposo quanto basta per definire attimi di ispirazioni post bellica, da granata deflagrante e pronta a distruggere le idee che uno si può fare guardando la cover del disco.

Una cover quasi esoterica, che abbraccia il senso di certe copertine di quegli anni, con la capacità di intravedere lo spazio per un attuale innovativo, presentando agli ascoltatori un proprio stile: se non del tutto originale sicuramente in evoluzione.

Solo quattro canzoni che si ascoltano d’un fiato e ti fanno capire quanto di buono ancora c’è in Italia, tanto criticata a volte e persa nei dibattiti sull’importanza di cantare in italiano in un’era, cazzo, dove tutto ciò che ci circonda fa parte di un mondo più grande, internazionale, cosmopolita.

I tre si prendono il lusso di rifare “I got mine” dei “Black Keys”, ancora più dura e in tiro dell’originale.

Un gruppo, ne sono certo, bravo quanto basta da riuscire a trasmettere in pochi attimi un concetto ed un’energia non comuni tra le giovani band.

I Gambardellas sono Mauro Gambardella, Glenda Frassi e Grethel Frassi: pronti un’altra volta a farvi vibrare la terra sotto ai piedi.

Monica P. – TuttoBrucia (TFrecords)

TUTTOBRUCIA COVERIl secondo disco della cantante torinese Monica Postiglione è un ruggito tagliente alle incertezze del domani.

Nel suo ennesimo lavoro la cantantessa si svela davanti ad uno specchio mostrando interiormente la parte migliore di se stessa raccogliendo testi maturi di introspezione malinconica e leggiadro savoir faire tipico di chi, con umiltà, vede nascere pian piano il frutto del proprio raccolto.

10 canzoni, un album non troppo lungo, che si fa pienamente ascoltare grazie ad una scelta stilistica azzeccata di chitarre in distorsione calibrate dall’elettronica di passaggio che regala piccoli sprazzi di genialità come nel pezzo “Io sono qui”.

Altro punto a favore la melodia,  che non risulta mai banale: atmosfere noir e leggermente gotiche sono da matrice esistenziale per un disco ricco di canzoni che si fanno ricordare e al meglio si mettono a nudo con la voce quasi straziante che lacera anche il cuore più gelido, da ascoltare in questo caso la bellezza autobiografica di “Nuda al buio”.

Nel primo singolo estratto “Come un cane” c’è e si sente lo zampino di Hugo Race, fondatore assieme a Nick Cave dei Bad Seeds che confeziona una canzone d’altri tempi dove gli intrecci di voce si fanno unici nell’incedere dei violini.

Una cantautrice sicuramente di un certo spessore che si fa senitre anche nelle poche parole del finale “Lasciami entrare”.

Tuttobrucia è un disco sulla disillusione, il disincanto,  ma anche, allo stesso tempo, un disco di speranza per una donna che lotta, per occupare degnamente un posto nella scena “reale” della musica italiana.

 

SiVa – Argomenti che non vi interessano scritti con i piedi

Uno spazzolino e un piccolo dentifricio è tutto quello che serve per ascoltare della buona musica da dare sui denti a chi spesso accusa senza pensare, critica senza fare nulla, vive lasciandosi vivere.

Il caso di SiVa è alquanto particolare, cantautore laziale, all’anagrafe Simone Vacatello,  confeziona un disco stranissimo dalle influenze più disparate, si sentono echi di Lucio Dalla, Elio e le Storie Tese e in qualche modo si può ascoltare un Giorgio Gaber che si incontra con Jannacci dentro ad un piccolo teatro raccolto e custodito dalle intemperie del tempo.

Si passa facilmente dal blues alla jam jazz fino ad ascoltare canzoni prettamente pop che rapiscono per il ritmo incalzante tra chitarre acustiche e suoni looppati che fanno da sfondo ad un parlato che, con ironia, narra di piccoli avvenimenti di tutti i giorni raccontando apertamente la tristezza che subiamo dal mondo commerciale che ci circonda.

Un disco che abbatte la barriera fisica del cd e si presenta attraverso un piccolo astuccio di cartone in cui all’interno è custodito uno spazzolino, il codice per scaricare l’album e un piccolo dentifricio.

Tutto questo perchè allora? Per segnare i tempi.

Questa musica, nella sua amara crudeltà, deve essere presa con il sorriso, quindi un buon motivo per avere sempre i denti in perfetto stato è avere a disposizione un disco da ascoltare, magari davanti ad uno specchio che riflette il più delle volte, nel nostro lento incedere, un’immagine distorta che ci appartiene solo a metà.

Il cantautore SiVa  grida all’Italia che ormai è venuto il momento di tirar su le maniche e imboccare la luce perchè solo Noi ne conosciamo la strada.

 

The delay in the universal loop – Disarmonica (Jestrai, Factum Est)

Image of Disarmonia [LIMITED]Secondo episodio per la Factum Est, mini etichetta della Jestrai che infila una dietro l’altra delle novità che si contraddistinguono soprattutto per l’originalità della proposta e per l’esportabilità di questa anche in territori oltre confine.

Questa volta ci troviamo davanti ad un album composto interamente da un giovane che si ricava un posto nell’universo musicale lontano anni luce dal mainstream e dalla pagina internet patinata.

 

Qui c’è solo pura improvvisazione e il risultato è un miracolo.

Accolti da atmosfere alla Aphex Twin, Radiohead e Verdena l’album è un mescolare eterogeneo di cambi ritmici, sonori e di ambientazioni creando un qualcosa di similare, anche se più complesso, al percorso intrapreso dal cantautore pugliese Trivo.

Ciò che stupisce maggiormente è che Dylan Iuliano, fautore di questa opera, è un giovane di soli 17 anni capace di creare abilmente architetture imprevedibili e leggiadre nella loro disarmonia.

Sembra di ascoltare un post “Amnesiac” tanto le trovate risultano geniali quanto le regressioni ipnotiche si fanno presenti senza mai abbandonarti.

Inoltre notevole la scelta del cantato in italiano, così lontana dalle scelte stilistiche a cui uno è abituato ascoltando questo tipo di musica.

Un album alieno di una bellezza confortante che si lancia in spazi cosmici con “Eternauta” per poi sprofondare in “Memorie dal sottosuolo” verso atmosfere da guerre stellari, “I miei nervi scoperti” è un continuo brivido, mentre “Spasmodica” si compone e si decompone per essere ascoltata più e più volte.

Il finale è assegnato allo splendore strumentale di “Nei nostri eterni giorni” che racchiude lo spirito del disco attraverso sintetizzatori e continui loop di batteria.

Tanto stupore quando si spegne lo stereo e un plauso per aver saputo osare con stile riuscendo in un’impresa che sicuramente non era facile già in partenza.

A Febbraio Dylan sarà impegnato in un tour americano che toccherà New York e Dallas, con l’augurio che faccia brillare qualche stella d’italianità anche oltre oceano, ne abbiamo bisogno.

Rubbish Factory – The sun (Modern Life)

Canzoni che si ascoltano tutte d’un fiato.

Energia viscerale che ti prende la pancia e regala continui riempimenti d’amore verso la musica targata ’70 incrociata con il miglior garage rock da extrasistole ultraterrene, cadenzato da una batteria ben impostata e una chitarra altrettanto energica quanto fuzzeggiante che ricorda QOTSA e a tratti i Verdena di “Solo un grande sasso”.

Una prova che ha del particolare in questo duo cupo e amalgamato che regala spunti di oscurità dove poter affogare dolcemente.

Un ritorno quindi all’essenzialità virata dalla capacità di snocciolare pezzi orecchiabili seppur mantenendo un certo ordine e una certa linearità.

11 pezzi gridati che non risparmiano virate di colore toccando ambienti grunge con una facilità disarmante “Wires” ne è l’esempio, si può ancora sentire la voce di Laney Staley in tutto questo.

Un duo che va dritto al punto, che si divincola con una proposta non di certo innovativa, ma ricca di fascino e facilmente  esportabile.

Un merito quindi per aver donato una nuova interpretazione di genere cavalcando sentieri già battuti si, ma allo stesso tempo lontani dalla spazzatura musicale di tutti i giorni.