Livia Ferri – A path made by walking (BUMI / M.i.l.k.)

Un percorso a tratto continuo dove il solitario essere raccontato si concede una musicalità perenne e dove il sapere far parte di un qualcosa più ampio, che si chiama mondo, ci pone, costantemente la possibilità di essere diversi dal precostituito.

Un disco fatto di ricordi e sostanza, vibrante attesa concessa e monopolizzata dalla bravura della cantautrice romana nel creare atmosfere da luna rosa, pensando all’introspezione commovente di quel Drake che tanto deve a questa musica e consolida le basi per un futuro fatto di percorsi esigenti, ma di sicuro impatto e valenza.

Dieci pezzi che meritano questo ascolto, dieci canzoni che si fanno portavoce di un tempo vissuto e completamente sentito, dove la nostra non si concede quasi più in attimi di solitaria bellezza, ma ingloba le forze in un’esplosiva miscela di cantautorato dal forte respiro internazionale; una canzone d’autore che vive più che mai e nel calare della sera si trasforma in fiore delicato a vedere le nuove luci, lassù in cielo.

Il branco – Il branco (Autoproduzione)

Il branco sono parole sviscerate come gelati al sole che comprendono il senso del tempo e rincarano la dose con testi poetici di una poesia crepuscolare, ma rigettata, assorbita dall’asfalto e vagamente circolare che si staglia all’orizzonte, quello dei ricordi, dimenticando gli anni di gioventù e facendo capolino nei nostri ricordi, vagamente come stelle che in un solo boccone divorano l’intera umanità.

Un vinile favoloso, un progetto grafico che lo è altrettanto, curato da Sofia Bucci e che richiama i dischi di Antony, un disco dal sapore moderno, con quel look vintage che non abusa, ma che si fa veicolo di introspezioni sonore dal forte impatto emotivo lasciando alle spalle i dubbi e guadagnando sicure certezze.

Quattro pezzi soltanto che garantiscono un posto d’onore al gruppo romano, per capacità di sperimentazione, oltre il Vasco Brondi conosciuto e quella voglia di firmare sui muri dei bagni il proprio credo morale, con un indelebile che resterà a vita, con un vinile bello, spesso e ingombrante a sancire l’importanza della fisicità in un’epoca di digitalismi imperanti.

 

Colonnelli – Verrà la morte e avrà i tuoi occhi (Resisto)

Grida di dolore laceranti materia grezza che scompongono lame ferrose e non lasciano traccia nemmeno questa volta, substrati di memoria che se ne vanno, componendo pezzi di abile fattura e intersecate dal mondo disilluso e vorace, capacità intrinseca di stabilire i confini nella medesima posizione e lasciar al tempo un domani migliore, pronto a stupirci ancora.

11 tracce di puro trash metal urlato, ma cantato in italiano, un gusto oscuro per una deliziosa pietanza che reprime gli istinti e lascia aperta la voragine della vita che risucchia l’anima e le nostre più recondite speranze.

Da Grosseto questi ragazzi spaccano di brutto, ne fanno sentire delle belle, sottolineando una prova dal sapore anni ’80, di forte impatto emotivo, emozionale, dove a raccontarsi sono queste canzoni fatte di morte, riscatto e vendetta.

Un trio spaziale che regala l’ultimo bacio prima di andarsene, regala quel copioso insieme di lacrime miste pioggia e fango, che non vogliamo nascondere, tra le grida di dolore e il buio che presto arriverà, ancora una volta, forse ora più che mai.

Armaud – How to erase a plot (Lady Sometimes Records)

Un mondo sott’acqua intriso di mistero, capacità onirica che si dissolve nella pioggia e crea un legame con il mondo in cui viviamo, scoprendo la parte più fragile di noi, introspezione sonora che è a capo di un concetto, il fotografare  il momento, quel momento che non tornerà.

Loro sono gli Armaud e il tutto ruota attorno alla voce leggera e sospesa di Paola Fecarotta, coadiuvata nell’impresa da Marco Bonini alla chitarra e drum machine e da Federico Leo alla batteria; una musica che proviene da lontano, che alle volte si scontra con gli scogli della vita e ci rende partecipi di un’immagine non precostituita, ma in continuo e perpetuo cambiamento.

A livello musicale la voce di Paola incrocia gli Amycanbe e i Portishead passando per musicalità nordiche che segnano i passi sulla neve, lasciano impronte indelebili e analizzano la possibilità di distendersi verso un dream pop d’oltreoceano che ricorda a tratti i Blonde Redhead.

11 canzoni di puro gusto malinconico ben riuscito, partendo con Him, passando per Spoiler e chiudendo il finale cosmico di May; un disco da assaporare nelle giornate torrenziali, dove i respiri condensano i vetri e dove gli attimi della nostra vita, possono fermarsi, ancora, per sempre.

The Hangovers – Different Plots (Unhip Records)

Hanno macinato la strada italiana, la conoscono a memoria o quasi e ora sono qui con questo disco accecante di luce, di sonorità grunge caraibiche, di rock trasformato per l’occasione in country folk e snocciolato in maniera immediata e spensierata, racchiudendo un marchio di fabbrica esemplare e non pre – costituito fatto di sogni e speranze, fatto di riflessi di sole e bagliori che spazzano via la notte, tra la disillusione e l’esigenza di formare, per divertimento, un gruppo esplosivo, oltre ogni previsione.

Questo disco racchiude i nostri anni migliori, musicalmente sembra di stare in riva al mare, in un anno solare dove non esiste l’inverno, tra inglesismi trasformati in italiano e viceversa, frutto di improvvisazioni altrettanto calibrate e ben celate da quella voglia, da quel bisogno di divertirsi, un’esigenza tutta italiana di racchiudere la bellezza in musica, con ritmi trascinanti e testi che non si chiedono mai troppo; l’essere multietnici non è mai stato così semplice.

Il disco assume le svariate forme della vita, assume il coraggio di creare, assume il desiderio di essere diversi, ancora per una volta, per scatenarsi disinibiti, abbagliati dalla diversità del mondo.

IO e la TIGRE – 10 e 9 (Garrincha Dischi)

Aurora Ricci e Barbara Suzzi in arte IO e la TIGRE dimostrano una capacità e un’attitudine punk da prime della classe, in modo disinibito e sciolto, cantano di amori non corrisposti e amori voluti, cantano della fragilità umana e della caparbietà nel costruire il proprio futuro, cantano di un’Italia da ricomporre, e dell’annosa ricerca nell’essere se stessi, indubbiamente catastrofiche, indubbiamente reali.

Ecco allora che questo affronto di inizio millennio, è un sasso che scuote la pancia, tra una Maria Antonietta e una Carmen Consoli tacco dodici che si dimenano tra pedaliere indistruttibili, tra Sick Tamburo e quell’esigenza quasi mistica di dare un senso eterno a quei numeri il 10 e il 9, un’aurea esigenza di provare ad essere diversi nel conformismo odierno.

Una cover alla Baronciani e i testi schietti che brillano per immediatezza ci fanno capire l’importanza dei rapporti, nella costante ricerca di una nuova via da seguire, un album che affronta a testa alta la vita e nelle cadute, la presenza sempre di qualcuno che è pronto a trascinarti verso una nuova vita.

 

Ono – Salsedine (Autoproduzione)

E’ la sperimentazione del cantautorato, è l’elettronica che si fonde con il rap di strada, è la vita inattesa che si proclama davanti dopo anni di distanza, è il primo disco di Ono, una creatura dalle mille facce, una creatura che riesce a ricordarci da dove veniamo, da quel mare che abbiamo impresso fin da bambini e che poi, inesorabilmente non abbiamo più visto con gli stessi occhi: le spiagge libere e gli amori ineluttabili, quasi vapori di un autunno alle porte.

L’immediatezza è il loro marchio di fabbrica una ricerca della felicità che viene racchiusa lungo le undici tracce quasi sbilenche che compongono il disco, undici canzoni che sono il frutto di un’attenta ricerca e soprattutto un attento uso dell’immaginazione, che ci rende, non più spettatori, ma veri protagonisti di queste composizioni che sbarcano nella nostra mente, regalandoci l’ultima ondata di calore, incursioni fanciullesche di una vita purtroppo lontana.

Ecco allora che il disco, pur contenendo una matrice di forte tiro e sudore, nasconde l’altra faccia della luna, nasconde la malinconia, nasconde i chiaro scuri esistenziali, quel voler essere fotografia sbiadita piuttosto che orpello da instagram dipendente; una musica che si fa ricordo pur appartenendo ai nostri giorni.

Eniac – I, Mother Earth (Edison Box)

Il pianeta terra non è mai stato così capito, non è mai stato così sviscerato per essere compreso, una sostanza mutevole egregiamente manipolata dal nostro Fabio Battistetti, in arte Eniac, che attraverso le suggestioni elettroniche ambient ci regala un concept sul costrutto e sul paradigma essenziale che ci lega indissolubilmente alla madre di tutte le nature e approfondisce con un solo gesto un mistero filosofico dal grande impatto emotivo.

Già conosciuto per le sue prove di installazioni emozionali e strutturali il nostro si affaccia perennemente con questo suo progetto ad una prova fatta di minimalismo, che sa raccontare, captando segnali dal futuro vicino a noi, quasi i Nova sui prati notturni con le loro rilevazioni ambientali, quasi un’esigenza incompleta di proferire eleganza raccontando di radici che sono alla base di ognuno di noi.

Ecco allora che i dieci pezzi si dipanano tra le ombre sonore di una meccanica mai edulcorata, racchiudono l’essenza della vita stessa, un viaggio in orbita per vederci più da vicino e per farci capire che siamo parte di una realtà tante volte sottovalutata; un disco per farci tornare sui nostri passi, tra gli elementi della natura, tra noi piccole formiche tante volte così insignificanti.

Pluvian – Notes from the reptile’s mouth (Autoproduzione)

Chitarre acustiche che si fermano negli anni ’90 facendo un balzo all’indietro e sperimentando a tratti i primi Simon e Garfunkel e gli odierni Kings of Convenience senza tralasciare il grunge da MTV unplugged di Alice in Chains e Nirvana.

Un prodotto confezionato a dovere da parte dei padovani Pluvian che intersecano le ballate del fiume al colore nero della notte, inoltrando fra se e se l’idea dominante di un preludio prettamente acustico in tutti i brani con piccoli interventi di tastiera, senza esagerare, ma infondendo quel tocco in più alla produzione nostrana.

Un disco che sa di tempo passato, incorporando storie di vita che non possono essere dimenticate, racconti che ci riguardano o che parlano di persone realmente esistite e che contribuiscono a creare i nostri ricordi.

Saldi al presente quindi, i nostri, non disdegnano  di passare da un decennio ad un altro per completare il corso delle cose, creando un continuo tra ciò che siamo e ciò che eravamo, tra Bluemoon passando per Marriage Zone e l’incombenza sul finale di We’ll never arise.

Un album che sa intrattenere con eleganza, trasformando i pub veneti di cover band designate, in qualcosa di più concreto e più reale.

NREC – Signals (Musicacruda/TunaRecords)

Questo è il disco del millennio che deve arrivare, è un disco di grattacieli in fiamme e di anime dannate e corrotte che cercano un modo per rinascere nuovamente, un disco di elettronica che non è solo elettronica, ma è colonna sonora meravigliosa suonata da Enrico Tiberi, che si tuffa in modo perentorio e classicheggiante tra passato e futuro, gli anni ’80 e i sintetizzatori per arrivare con le basi snocciolate di Apparat e le sospensioni sonore a creare substrati intelligibili di finezza amalgamata, di composita meraviglia che si fa arte, che manda segnali da una fotografia sbiadita di un tempo, una Lomo che racchiude la nostra esistenza e allo stesso tempo una musica che è impossibile non amare: estrazione di cinema, estrazione di film, estrazione di vita eterna.

Dieci tracce dove nulla è lasciato al caso, tutto è curato fin nel minimo particolare e dove le incursioni millimetricamente pensate sono l’esigenza di chi possiede una forte capacità di inventiva.

Un album quindi che è stato ragionato e voluto, la dicotomia uomo animale che si espande fino agli abissi più profondi, alla ricerca di espansioni cosmiche sul divano di casa, alla ricerca di un punto d’entrata in altri e più oscuri universi paralleli.