Psicantria – Neuropsicantria infantile (LaMeridiana)

Unire impegno e leggerezza non è sempre facile, unire un grande tema come quello dei disturbi e dei problemi legati al mondo infantile e dei bambini con la musica ha un che di anacronistico, fuori dal tempo, quando ancora la canzone era veicolo per messaggi importanti e dove la finalità culturale del tutto risiedeva in ciò che anche i nostri genitori ascoltavano per radio. I tempi sono cambiati, i vari De André, Gaber per citarne alcuni non esistono più e i ricordi di quegli anni si fanno vividi più che mai nella mente di chi ha imparato a lottare grazie alla musica, di chi ha sperato e forse spera che il messaggio musicale possa ancora smuovere masse e accarezzare il brivido dell’utilità non fine a se stessa. Da educatore ascoltare un disco come quello della Neuropsicantria infantile mi fa sgranare gli occhi e aprire bene le orecchie. In questo trattato ironico sono presenti in forma canzone avventure immagino in parte autobiografiche dove il tema principale riguarda i disturbi legati alla crescita dei più piccoli il tutto suonato con un folk sbarazzino alternato a parti più meditative in grado di colpire per profondità, coerenza e fedeltà ad un qualcosa che non tutti conoscono, ma che dovrebbe acquisire il giusto senso in questi giorni sempre più malati. Neuropsicantria infantile raccoglie diciassette pezzi che ci riguardano da vicino, molto da vicino, sottraendo tempo all’inutilità e dando finalmente e nuovamente una funzione salvifica e importante alla parola canzone.

Unoauno – Cronache Carsiche (Ribéss Records)

album Cronache Carsiche - unoauno

Ti trafiggono, ti pungono, entrano in simultaneità con le radici da dove provieni, si innestano nel territorio e attraverso depressioni scivolano per poi riaffiorare, esplodendo a dismisura proprio quando meno te lo aspetti. Giovani, giovanissimi poco più che ventenni registrano un disco scarno e viscerale, profondo nel suo insieme che rimanda inequivocabilmente ad una scena mistica e troppo presto dimenticata in nome del pop edulcorato del momento. La musica dei Unoauno estrae capacità dal cilindro pezzo dopo pezzo e le divagazioni non prendono di certo vita perché la forma e la sostanza sono sempre in bilico e comunque a braccetto con una musica di qualità, una musica intima come una liturgia, chiaro e nitido specchio di questi giorni che apre le mascelle e custodisce al proprio interno la saliva per queste e altre proteste, per queste e altre piccole gioie quotidiane. Unoauno è il distacco totale con l’esistenza piatta e uniformante dove spiriti affini come CCCP o Massimo Volume fanno da contraltare al post-punk di Gaznevada, ma i riferimenti non sono così importanti, agli Unoauno va di certo il merito di aver dato costruzioni mentali e strumentali al proprio vivere e nel contempo di aver abbandonato la realtà, andando oltre l’intrattenimento e sedimentando pensieri e speranze nel profondo della terra da dove tutto proviene.

Lingue sciolte – Neve (ALTI Records)

Parole legate all’attualità che imprimono un cantautorato acerbo pronto a divincolarsi lungo gli anfratti della società raccontando spaccati di vita vissuta, normalità sottintesa stonata e gridata, sussurrata e implicitamente convinta nel dare forma e sostanza alle occasioni perse, quelle dei rimpianti. Le Lingue sciolte non si preoccupano molto del patinato risultato finale anzi privilegiano l’immediatezza e la cura poetica che ricorda Rino Gaetano e Ivan Graziani e che si evince in testi grondanti sudore che riescono a parlare vicino all’occhio dell’ascoltatore, testi che si sciolgono da Beatrice fino a Mi piaci solo d’Estate passando per il citazionismo di Woody Allen e la bella e riuscita Solo di te. Neve è un disco che parla schiettamente e direttamente al nostro vivere quotidiano attraverso graffianti energie che partono sempre o quasi in solitaria e via via aprono ad incursioni elettriche che ne esemplificano disagio, sogni e avventure sperate. Un album pieno di realtà da annusare e sperimentare, dai palchi fino alle strade, dalla tempesta di ogni giorno fino a sfiorare la terra che è illusione e speranza, sapore per un tempo migliore.

We are the bears – Tales from the ocean (Bulbart Label)

I sogni sono fatti di sostanze intangibili che possiamo solo immaginare ad occhi spenti in un continuo cercare destinazioni e conforto, visioni di un tempo lontano e paure che si dileguano alla vista delle nuvole di vapore. Ascoltare il disco dei We are the bears ci porta all’interno di mondi lontanissimi dove l’etere imprigiona e le atmosfere si fanno dilatate e convinte in un’estasi quasi mistica dove gli ascoltatori cercatori sono alle prese con considerazioni che vanno oltre la normalità della musica e non hanno paura di schierarsi convincendo  a dismisura grazie ad un approccio atmosferico in grado di rivelare parti nascoste, profonde, soprannaturali. Tales from the ocean è un grande racconto che porta con sé una propria armonia di fondo, parole sussurrate e ricche di fascino che assottigliano il confine con il mondo onirico e ci permettono di vedere un divenire sottosopra che ben si apre e convince già dal singolo Pompei, passando per pezzoni come Lights out, Feeling Blue o la finale Flamingo’s Lips. I We are the bears registrano una prova spiazzante e nel contempo piena di maturità artistica, una prova circolare e omogenea che fa della ricerca un punto di partenza imprescindibile per sempre nuove scoperte.

The heart and the void – The loneliest of wars (leOfficine)

The heart and the Void lo conosco bene, è passato di qui con le prime autoproduzioni, i primi EP e finalmente è arrivato al momento del grande salto con un disco completo, intenso, sincero e vissuto. L’artista sardo è un concentrato di parole e bellezza da ammirare affacciati al fiume della vita che ingloba e nel contempo sussurra parole d’amore e di speranza, un cantautore di certo talentuoso che dopo aver girato di gran lunga la penisola è riuscito ad imbastire un album completo ben ponderato e calibrato che raccoglie l’eredità del passato e centrifuga un desiderio innato nel mescolare il sempre citato The tallest man on earth, passando per Iron & Wine, An Harbor senza dimenticare i grandi che hanno fatto la storia della musica d’autore come Dylan o Nick Drake. Attraverso dieci pezzi il nostro raccoglie una pittura velata da una leggera tristezza e malinconia, un’introspezione profonda tipica dei poeti della terra d’Albione, un mix di emozioni struggenti che possiamo scegliere se far scivolare lungo l’ascolto dell’intera produzione oppure, come consiglio, prenderle e portarle nel posto che abbiamo più vicino al cuore, là dove tutto nasce e tutto muore. The heart and the void si conferma essere una delle voci più rappresentative del folk italico, un cantautore da seguire negli anfratti della nostra penisola, dalla pianura alla città, dai mari fino alle montagne imponenti e lontane.

Han – The Children (Freecom/Factory Flaws)

L'immagine può contenere: 1 persona, primo piano

Stanze dentro a stanze pieni di rimandi enciclopedici ad un alternative elettronico e sospeso, affilato nel dream pop e nel trip hop in un sostenere una voce sublime nell’ entrare nelle viscere del nostro essere persone quanto tali affermandosi in un bisogno di raccontarsi attraverso pezzi che narrano e si fanno svolta. Han ci regala un esordio importante, quattro canzoni che possono essere anche quattro singoli con le corrispettive versioni riadattate da artisti come i padovani Klune o dal progetto elettronico Safe Shelter, senza tralasciare The Children rivisitata da Daykoda e 1986 da dj Kharfi con il fiorentino Greg Haway. La nostra giovanissima autrice ingabbia le inquietudini di un’età attraverso un’eterea visione d’insieme che ricorda le peripezie di Francesca Amati con gli Amycanbe o gli internazionali Lali Puna dipingendo stanze e affreschi che si fanno narrazione preponderante nel frastuono di ogni giorno, incasellando singolarmente i suoni distinti nitidi e necessari alla costruzione di queste architetture in divenire, quasi mistiche e di certo eleganti nella loro complessità. Bellezze che escono e si consegnano quindi, perle in quantità ridotta da riascoltare in modo ipnotico più volte attentamente.

Cumino – Godspeed (Autoproduzione)

L'immagine può contenere: nuvola, montagna, cielo e spazio all'aperto

Viaggi essenziali in ambienti solitari dove l’occasione per ritornare e incontrare un mondo in decomposizione si perde con l’onirico vagare elettronico di un duo composito per eccellenza capace di scrutare l’animo umano, integrare sogni, ambientazioni, emozioni che scatenano e si dipanano lungo l’intero ascolto di questo trattato atmosferico. La musica dei Cumino sembra immediata, ma così non è. I suoni prodotti da Luca Vicenzi e Davide Cappelletti si rifanno alla folktronica di Fout Tet e amplificano le vedute con imprese che dondolano attraverso una coperta calda e ammaliante, un qualcosa che scalda e che ti rapisce fino alla successiva canzone, fino all’ennesimo pezzo d’atmosfera. Godspeed è un album multistrato ingigantito a dismisura dalla bravura dei due musicisti, un disco che racchiude al proprio interno undici tracce tra divagazioni ed elucubrazioni easy listening ed un qualcosa che si conficca nella carne e non riesce più a svanire, almeno per ora.

da Black Jezus – They can’t cage the light (Weapons of love Records)

Impressionante album d’esordio per un duo composito che mescola black music e folk in una formula stravagante intrisa di chitarre e voci profonde e graffianti, particolari, strane nella loro omogeneità in complessi assolutamente luccicanti e nel contempo oscuri e introspettivi. I da Black Jezus compiono una specie di miracolo attraverso nove canzoni che profumano di internazionalità e bellezza, pezzi stratificati pieni di chitarre e leggera elettronica a fare da contraltare ad una voce maschile spettacolare e originale per una freschezza che si respira sin dalle prime note riuscendo a dare un senso alle melodie e alle architetture create inesorabilmente. Le canzoni proposte non passano di certo inosservate e la dicotomia buio e luce è una chiave di lettura per comprendere appieno questo accecante concentrato di saperi ed emozioni installate a dovere per sorprendere in una dimensione intima quanto essenziale. I da Black Jezus danno vita a qualcosa di difficilmente replicabile, ma che ora possiamo goderci appieno.

Audyaroad – What is the price? (VREC)

Potenza sonora incontrollata per un classic rock di sicuro impatto scenico che unisce elementi dei ’70 con qualcosa di più moderno che sfiora band come Bon Jovi pur mantenendo una connotazione alquanto personale che fa della band di Milano una sorta di camaleontico quadro in divenire che raccoglie le sfumature di questo e altri tempi per creare architetture sonore che eccentricamente misurano un insieme e si fanno gradazione sopra di un palco luccicante e nello stesso tempo polveroso e disincantato. Gli Audyaroad ci danno dentro e si sente, lo fanno con uno spirito da primi della classe, incorporando visioni e aspirazioni che ben sono rappresentate in questo What is the price? uscito in edizione fisica limitata a cento copie e che trova in pezzi come i singoli Mr. Dynamite e Hey Man dei punti chiari e di contatto con il proprio credo. Il disco in questione è un concentrato di avventure sonore a cui non sappiamo rinunciare e che trova il proprio spiraglio d’apertura passando per la porta principale, quella dell’amore e del sudore per un certo tipo di musica che sembra non trovare fine.

The allophones – Muscle Memory (VREC)

Un disco davvero sorprendente quello dei The allophones, un album impreziosito e contorto, scintillante e oscuro, in grado di ispirare e attingere da rimandi musicali di puro interesse concettuale, dai The National passando per Editors, Elbow e Interpol con quella chitarra orientale spaventosamente importante che rende il tutto portatore di una connotazione alquanto sincera e nel contempo potente nella propria originalità. La band di Firenze, alla sua prova d’esordio, inspira prodezze d’oltreoceano intessendo dieci pezzi che si portano appresso una propria vita, una propria connotazione chiara e precisa, un sapore internazionale che possiamo percepire già nella traccia d’apertura Somebody’s fault, passando per i singoli The owner e Better Days fino al gran finale macerato e lasciato a sedimentare di My league per un album che dalla sua struttura interna lascia presagire un potenziale notevole per questa band e che disintegra una concezione passata per rafforzarsi in chiave moderna oltre il futuro.