Dan Solo – Classe A (DsRecords/Audioglobe)

Un dolce rock cantautorale che si rende oscuro pian piano fino a comprendere reale essenza e bisogno di nuovi spunti da cui partire per compiere il salto che può convincere ancora una volta dopo le innumerevoli prove della vita, vissuta e contemplata.

Dan Solo non ha bisogno di molte presentazioni, creatore dei Pornodrome, bassista per sei dischi nei Marlene Kuntz e poi fondatore dei Petrol, si cimenta in una prova solista dal sapore cantautorale che scava nelle profondità delle coscienze per scardinare concetti e ridare vitalità compressa e ricercata in piccole perle di rara bellezza sostenute da un cantato quasi innocente che canzone dopo canzone si confessa quasi fosse un viaggio dentro al proprio io da cui partire e attuare nuove scelte di vita.

La propensione a dipingere le canzoni, con strati di colori sottili, è molta e si denota soprattutto nell’apertura Avrei, passando per Elena e nel finale con la ballata elettrica Stella di luna.

Alla ricerca quindi di una propria aspirazione il nostro si cimenta in un alternative con sprazzi di elettronica non troppo gridata, ma essenziale per dare un senso maggiore, carico di sfumature, alla visione d’insieme che si fa bellezza caratteriale lungo le variopinte undici tracce.

Piccoli fiori rari da coltivare quindi, da cui imparare e da cui attingere acqua per vivere; un racconto di vita esistenziale che fa parte del nostro essere al mondo.

 

Barely Awake – S/T (DIYSCO)

Entrare prepotentemente e in modo assurdamente reale in un mondo fatto di geometrie esistenziali che si contorcono in un suono non apostrofabile e non incasellabile, che si dimena tra utopie e velate dolcezze in fulmini di tempesta e coraggio in un periodo di vacche magrissime per l’industria musicale.

Si parte in primis con il piacere di suonare e questo il gruppo di Pesaro lo sa benissimo, in quanto dimentica la forma canzone statica per lasciarsi andare a divagazioni sonore che prendono la migliore proposta della psichedelia degli anni ’70 per comporre e sottolineare attitudini e bisogni post rock che abbracciano il post metal per creare una commistione di math rock sperimentale allo stato puro in bilico tra gli acuti di Jeff Buckley e un Frenk Zappa dissacrante, strizzando l’occhio alla musica post grunge americana di fine anni ’90.

Un disco quindi imprevedibile, suonato quasi jazz in chiave rock, capacità tecnica elevatissima e una grande forza interiore che si  esprime prepotentemente lungo le 16 tracce dell’album tra pezzi gridati e atmosfere rarefatte che lasciano ai cambi di tempo l’onore di ricomporre la strada ancora un volta.

Un genere conosciuto a livello strumentale, ma che i nostri con concentrazione e con dosata ambizione si promettono di renderlo comunicabile ai più tra testi esistenziali e portatori di suoni cosmici ed efficaci.

Ricucire e creare, scomporre  e ricomporre in un’imprevedibilità che fa scuola ancora una volta, disorienta e ammalia, colpisce allo stomaco e non ti lascia aria, anzi ti fa accarezzare le vette degli alberi per vedere la luce.

The Straphon – The Straphon (Autoproduzione)

Incursioni seguendo le onde del mare che si portano appresso quella carica di energia che viene dosata e lentamente sovrapposta ai muri di chitarre continue amalgamate, ricercate e perse in un anelito di pioggia quasi fosse sospiro il colore che sentiamo.

The Straphon è il nome di una band abruzzese di Sulmona, che si caratterizza per una connotazione alquanto rock, ma direi io ricercata che non disdegna la contaminazione con un’alternative anni ’90 incrociato alle tastiere ’80  degnamente interpretato e che spicca per cantato femminile nelle mani di Ludovica.

Cranberries che si fondono a Skunk Anansie con un tocco della O’Connor a sancire un indefinito vissuto fatto di innovazione e lasciando da parte la cover band da stuzzichini per impadronirsi pienamente di un palco che si conquista grazie anche alla complicità unisona dei membri della band.

Un gruppo quindi non rassegnato alle cover, visto anche la tipologia di formazione, ma che va ben oltre tutto questo, si trasforma e fa si che la parte innovativa prenda il sopravvento in una fusione di stile e coraggio.

Importante l’apertura di Black Powder, snocciolando  e seminando in Thank You passando per l’ironica Attitude for Idiots, concludendo con Judge in the mirror.

Un disco che sa di freschezza, orecchiabilità che non guasta e facilità nella fruibilità della proposta, tutte caratteristiche che non fanno mai male alla nostra mente.

Neodimio – Urla Dentro (Autoproduzione)

Cantato italiano per un rock dal sapore d’oltreoceano che infrange le proprie onde su scogli impetuosi, granitici e stilisticamente vicini a suoni che rimandano a Foo Fighters in primis pur mantenendo una forte dose di personalità incendiaria che trasforma il tutto in un qualcosa di energico e positivamente inglobante.

Un disco schietto e diretto per la band composta da Francesco Cremisini, Alberto Sempreboni e Simone Gerbasi che lascia intendere nuovi orizzonti capaci di confondere e infondere in modo del tutto naturale e senza cercare mezze misure, nuovi suoni e colori da distribuire e gridare al mondo.

I romani con questa prova si lasciano alle spalle le troppe influenze musicali per dare un senso al tutto e stupendo ancora una volta con l’oscura cover di Elisa: Luce.

Pretenziosi quindi, ma anche portatori di umiltà i nostri si lasciano andare creando canzoni simbolo come Impossibile e Il frammento, episodi di certo riusciti, con un buon appeal di base caratterizzato da un’immediata orecchiabilità.

Disco pieno quindi e carico di energia, che sa dosare e in certi momenti si lascia anche andare al giorno che verrà, tra post grunge e rock del nuovo millennio con aspirazioni future e gioie da raccogliere.

Yakamoto Kotzuga – Usually Nowhere (La Tempesta)

Intrecci sonori contagiosi privi di lirismo, ma che inesorabilmente si fondono a vissuti che lasciano in bocca ambizioni e concetti che vanno ben oltre la realtà che conosciamo, anzi si implementano in vuoti cosmici da riempire fino all’ultimo bicchiere, reso assurdità dal mondo e dal destino ineluttabile.

Giacomo Mazzucato è tutto questo, un’opera ansiogena in divenire che affonda e lotta, si consuma e crea, lasciando da parte l’usuale per comporre avventure soniche tra stranezze celebrative di un tempo che non è poi così lontano.

Questo disco può essere precursore di ciò che verrà, la lontananza non è mai stata così vicina e il sapore che ci lasciano queste 11 tracce non è un sapore legato soltanto alla sperimentazione, ma un qualcosa che va ben oltre il nostro udito, è materia da cui trarre spunto per pubblicazioni future: un suono extraterritoriale tra moti ondosi e calma piatta portatrice di nuove esigenze che esplicano in un bisogno essenziale di continua creazione.

Ecco allora un album da cui partire, su cui fondare il proseguo di genere, una lunga lotta indefinita, ma che pone le basi per ciò che verrà, tra contaminazioni e perfetto stile mai incasellato, ma sicuramente vissuto.

Fratelli Calafuria – Prove Complesse (Woodworm/Audioglobe)

Non ci sono confini e nemmeno regole per questo disco dei Fratelli Calafuria, un’espansione sonora di colori che portati all’ennesima potenza lasciano scorrere immagini sfocate direttamente alle radici del rock, trasformati poi con il tempo in susseguirsi di vicende che si nutrono di garage punk ‘d’annata inglobato a proprio piacimento in un caleidoscopio unico.

Mix inusuale per Prove Complesse, meritato approdo dopo i numerosi successi del tempo, pur restando band di nicchia, dal sapore terreno e coltivando un substrato di energia che basterebbe a metà dei gruppi presenti nella penisola per dire qualcosa.

Sono tredici canzoni che si spostano tra testi surreali in bilico tra poesia neorealista e verismo mai conclamato, dove i testi che abbracciano le poesie di Gaetano sono catapultati ai giorni nostri, nel vivere quotidiano, tra i problemi che affrontiamo ogni santo giorno.

Pensiamo ad House in affitto, passando per Meraviglia o E’ stata estate, parole che non hanno bisogno di classificazioni, ma sono un tutt’uno con il suono, testi a volte verbosi, ma essenziali per delineare un concetto che alla fine del tutto offre numerosi punti di vista.

A livello musicale scopriamo una maturità generosa, conseguita e sbocciata in linea con la scuola americana toccando At the drive in per passare alla sfrontatezza degli inglesi The Who.

Non siamo qui per definire però queste prodezze, possiamo a malapena delinearle, tra stupore e assoluta meraviglia, esplorando il nostro cervello che assume le fattezze di un labirinto da cui non vorremmo mai uscire.

 

Righini – Houdini (Ribess Records)

Giuseppe Righini è un’illusionista capace di prodezze che ben si adattano ai nostri tempi e alle magnifiche costruzioni sonore che si stagliano lungo paesaggi ricchi di sostanza da dove poter trarre linfa vitale per non sopperire.

Un incrocio ben riuscito e amalgamato tra nuove tendenze e un piccolo tuffo nel cantautorato dei primi 2000 in bilico tra Tiromancino e Benvegnù.

Il nostro si lascia andare negli anfratti della coscienza, tra le stanze di Motel desolati in cerca di un qualcosa che parli ancora di Lei, che parli ancora di ciò che non c’è più.

Un disco nato a Berlino, ma che si muove per le capitali d’Europa come Amsterdam, assaporando estasiati ricordi e limiti da cui poter uscire per poter vivere ancora una volta.

Atmosfere quasi rarefatte, un roco gridare al mondo che la strada da affrontare è ancora lunga ed è difficile rialzarsi dopo tanto star male, dopo aver combattuto tra i mulini a vento della nostra anima, cercando, vivendo e approdando verso e oltre i nostri confini.

Suoni puntuali alternati da un cadenzare elettrico, raccontato e mai banale, da disinvolto cantastorie di notti insonni, che ci permettono di dare un senso al quadro della nostra memoria, un sogno ad occhi aperti fatto anche di elettronica mai gridata per un disco carico e pieno di introspezione sonora.

Arcane of souls – Cenerè (Macramè)

Era la chitarra e la voce dei Torquemada, era nei live anche il chitarrista dei SakeeSed, Alfonso Surace nel 2012 è rinato con lo pseudonimo di Arcane of souls producendo Vivo e Vegeto, quasi a sottolineare una condizione di forza del tutto esistenziale, agli albori del 2015 invece si concede di creare un disco, il nuovo disco, Cenerè, in un flusso continuo di distensioni sonore e psichedelia cantautorale pura che imbraccia le ballate degli anni ’60 per ritrasformarle, concedendosi il tempo e il lusso di fare un disco inusuale, che suona freschissimo e carico di un’ironia contagiosa, essenziale, ma soprattutto viva.

Sembra il Rino Gaetano dei nostri tempi, tanto quella voce roca e gridata assomiglia al conterraneo, spruzzato però qua e la da incursioni beat che male non fanno soprattutto nell’approccio carico di acclamato mistero e sicuramente pieno di fascino per stile e composizione che non scade nel già sentito, ma che si focalizza sugli attimi di vita spensierata e vissuta, quegli attimi che si trasformano in canzone, quell’esigenza nascosta di creare ed estinguere a proprio piacimento.

Un mago lo definirei il nostro Alfonso, un mago capace di quelle magie che da bambino avremmo voluto durassero per l’eternità, un mago che però sa benissimo come tenere nascosti i propri trucchi e di volta in volta, carta dopo carta riesce a svelare qualcosa in più di quell’arcano che lo caratterizza.

Suoni vintage e colorati, impressi e limpidi con canzoni che si lasciano andare nei ricordi e restano appese con facilità, pensiamo a L’oro in bocca o Gennaro passando per Respirare e la finale Opera.

Un disco completo, direzionato al futuro con gli occhi al passato, carico di nostalgia per quegli anni, ma carico anche di attese radiose.

Siren – The Row (Red Cat Records)

Rock band dal sapore ’90 che include una passione per il ritmo ad altre introspezioni sonore dove lasciarsi andare, inglobati dal suono di riferimento e portati a raggiungere il benessere attraverso sferzate di post grunge e incursioni dosate al punto da essere caratterizzanti in un  equilibrio esistenziale.

Questi sono i Siren, rock band di Pesaro, con il loro nuovo e primo album The Row capace di amalgamare melodia e buon gusto ad un alternative non spiccato, ma pronto a sfociare quando meno te lo aspetti.

Il tutto si evince ascoltando la commistione con strumenti inusuali per il genere come violini e violoncelli, trombe e fisarmoniche a creare e a sancire dico io, un’unione emblematica che vede l’inusuale appunto con il voler creare qualcosa che va ben oltre il già sentito, spiccando per coraggio e originalità.

Un disco che parla dei paradossi della vita a cui ognuno può dare la propria interpretazione e dove ognuno di noi è la chiave, a sua volta, per comprendere il mistero, incasellarlo e rigettarlo al suolo con nuovi significati tra ombre oscure e spirito di rassegnazione.

Un disco ben composto che si avvale, per la registrazione, dello studio Waves di Paolo Rossi a Pesaro, un album intenso e ricco di suggestioni, capace di raccontarsi e vivere.

Clamidia – Al mattino torni sempre indietro (Cup of tea)

Post rock apocalittico che analizza svicerando gli anfratti delle nostre coscienze raccontando con una voce disturbata il forte andirivieni commosso e sommesso, privato esempio di compostezza e beatitudine per lasciare spazio ad una voce sofferta che si consuma.

Un cantato declamato quello dei Clamidia, che si sono assicurati un viaggio senza ritorno verso i pianeti più nascosti dietro ai nostri occhi, dietro alle nostre orbite turchesi che sembrano chiedere quanta aria manca per il nuovo giorno che deve ancora arrivare.

Ecco allora che il verismo si fa canzone e poi arte in un continuo ricercare  di modelli di stili a cui approdare anche se i nostri ricalcano alla perfezione quella tipologia di band che cerca una propria strada lungo territori ostili e inospitali.

Bellissima l’apertura affidata a La croce, che si immola come essere ultratterreno tra Noi nella commovente Fondazione nuovo pensiero, per abbandonarsi ai flutti di Ulisse e poi via via a raccontare fino all’ultima nota di Redenzione e Grazia un post rock contaminato dalla new wave più oscura e fibrillante.

Un disco ricco di contenuti e sonorità, intriso di quella capacità sopraffina di rendere reale un concetto che solo al pensiero era data l’autorizzazione di esserne il re.