Il terronista – Le ballate del terronista (Autoproduzione)

Tradizione meridionale che incrocia il folk per un disco che sa di terra, sole e fatica.

Musica pizzicata tra folk appunto e folclore, che vede come protagonista Diego Capece, ex Jake Moody alle prese con quattro canzoni che mescolano in modo essenziale un cantautorato incrociato al primo De Gregori fino a toccare Jannacci e la prosa cantata di Gaber, in un piccolo disco/ep composto da quattro canzoni colorate con i colori dell’estate che ammaliano e conquistano al primo ascolto.

Il disco apre con il terronista, inno generazionale che racconta di chi per fuggire da una terra che a malincuore deve lasciare, abbandona il passato, la gente, la casa e il proprio amore per scoprirsi in un’Italia nazionalista che lo rifiuta.

Si passa poi al Ballo del disoccupato, che ingloba un pensiero ormai sulle pagine di tutti i giornali, ogni giorno per passare con disinvoltura ad una sorta di omaggio Deandreiano con La ballata dell’ubriaco d’amore e finendo con l’arabeggiante La ballata di Franco che vede la partecipazione di Valeria Cimò alla voce e alle percussioni.

Un disco quindi che ha bisogno di poche presentazioni, un continuo temporale con il passato e il presente che rimescola le carte per creare un futuro, diverso e si spera migliore.

 

Telestar – Così vicini, così lontani (Labella)

A tre anni di distanza dall’auscita del primo album ritroviamo i Telestar che ci raccontano di come il vivere a volte non sia meramente un atto fisico, ma piuttosto una raccolta di istantanee virato seppia che si ammorbidiscono con il concetto di ricordo e di lontananza.

Dire che questo disco è quasi perfetto è dir poco e adesso vi spiego perchè.

Intanto i nostri cantano in italiano e questo di certo male non fa, soprattutto sul piano della comunicazione verbale che entra diretta in refrain e ballate solitarie che a fatica ti lasciano senza emozionarti.

I testi delle canzoni a loro volta hanno una forte capacità di commistione del pensiero con chi ascolta, creando un appeal di immedesimazione molto difficile da trovare in altre band.

Per ultimo, ma non meno importante, anzi, la musica, quel cadenzato in minore che ti prende e ti culla, quasi fosse un movimento del vento che non ti vuole più lasciare lungo tutte le 10 tracce del disco.

Si parla di amore in primis, quell’amore però che è ad un filo di voce dall’essere raccontato, ma che poi si lascia libero di andare lungo i flutti del mare; pensiamo alla bellezza insita nel singolo Ancora Noi o nella mirabolante Idra: racconti di vita sul filo del rasoio che parlano di come i rapporti stiano alla base del vivere.

Un disco che incontra le sonorità di Baustelle, incrociando Non Voglio che Clara e qualche ritmo ondoso dei Sigur ros più animati, ad infondere introspezione ed energia.

A mio avviso questo può rientrare tranquillamente tra i migliori dischi italiani dell’anno, un connubio ben riuscito tra semplicità, bellezza ed eleganza.

Sinezamia – Decadanza (Autoproduzione)

Il loro nome racchiude un concetto, l’essere senza anima in un mondo in decadenza e allora come fare a ritrovarla, dove cercare? Cosa pretendere da chi ogni giorno ci illude, da chi ci vive attorno?

La band mantovana in questa nuova prova non risparmia nessuno e evidenzia particolarmente in questo disco, lo stato di abbandono in cui imperversa un’Italia da cui è difficile sfuggire se non con il pensiero che vola lontano.

Il loro è un rock ben calibrato, una voce che si libra nell’aria regalando numerose sfumature di genere e si lascia alla ricerca dello sperato in una continua forma di lieve universo che implode ed esplode dentro di noi.

Un rock classico, dal sapore primordiale, reso ancora più oscuro dal concetto che i nostri vogliono a gran voce proclamare, dopo dieci anni di carriera vissuti con intensità e splendore.

Un live quindi che raccoglie ciò che di meglio la band riesce a donare più una finale Warsaw che Ian Curtis sarebbe felice di ascoltare, tra new wave oscuramente ammaliante e chitarre in distorsori looppati che scardinano ogni convinzione che possa essere tale.

Un ripercorrere quindi la carriera di questa band, in una formula sicuramente di forte impatto, per capire, in modo diretto, la forte connotazione che questi ragazzi possono avere e donare.

I Salici – Sowing Light (Linèria)

Un tuffo nel passato con occhi e orecchie protese al presente in una formula alquanto inusuale che incrocia cantautorato sopraffino a stili molteplici e diversi che si intersecano in modo del tutto meraviglioso ad una musica che trae linfa vitale direttamente da un’altra epoca.

Questi sono I Salici, un gruppo che non ha bisogno di molte presentazioni, nati nel 2009 hanno potuto, con il tempo, commistionare psichedelia sonica, al cantautorato più profondo, fino a convergere nel prog epic di stampo medioevale.

Sowing light, che letteralmente significa, seminando luce, racchiude al suo interno il sapore di luce e di colori visti da un pendente di lampadario di un’altro tempo, un unificarsi e poi disgregarsi in molte concezioni musicali che prendono spunto direttamente dalla materia prima, la natura, che affonda a sua volta le proprie radici in cantati di folk rock targato ’70 in bilico tra America, Neyl Young e Creedence.

Seminare luce quindi, una ricerca continua di geometrie esistenziali che incorporano passato, presente e futuro, mente tutto muore e poi rinasce nuovamente, in un ciclo vitale che si conclude quando il nostro pensiero  è già rivolto ad una nuova vita.

10 canzoni che chiudono il cerchio, tra testi visionari e introspettivi, un disco che non deluderà di certo gli appassionati di genere.

 

 

I Nemici – Canzoni sbagliate (Autoproduzione)

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Canzoni pop gridate e sussurrate che si fanno incursione sonora, racconti di vita vissuta che si stagliano tra alti e bassi chitarristici accompagnati da fisarmoniche lucenti e pronte per iniziare la festa.

Parliamo di un duo I Nemici, piccola band di Torino, nata dalle balere improvvisate nelle feste di amici e non, per deliziare il pubblico con pezzi stile primo Jannacci che narrano di indipendenza e bisogno di libertà, incappando però nell’inesorabilità della vita che non sempre sa essere gentile, ma come natura madre e matrigna ci lascia sognare ad occhi aperti per poi sbatterci addosso la vera realtà.

Sono 15 canzoni, tante direte Voi, essenziali però per ricondurre il tutto ad un filo conduttore intenso e compiuto, quasi fosse un concert house di poco più di un’ora dove distendersi e lasciare la mente altrove per trovare nella convivialità un rapporto sincero e reciproco.

Un disco intenso quindi, ma soprattutto ironico, che incrocia Gaber a Gaetano in un vortice di cantautorato sghembo, ma ben riuscito.

Ottima prova quindi, che allieterà di certo qualsiasi tipo di palato, dal festaiolo al sopraffino, in una accurata di ricerca che non si esemplifica nella forma, ma va diretta alla sostanza.

Numa – Il Periodo (Audioglobe)

Un tuffo all’inferno possiamo definire questo disco, un singolo apripista che non potrebbe essere più azzeccato di così, tra fuochi che divampano e contaminazioni sonore che sono incrociatori tra l’hard rock più viscerale e un certo metal incalzante che possiamo definire classico senza mezze misure.

Il rocker fiorentino, incontrato nella versione italiana del Rocky horror picture show, si lascia andare a lamenti che sono in cerca di consolazione, a cullarsi negli anfratti più nascosti dentro di noi alla ricerca di quel qualcosa di sperato, di vivo, di immaginifico ed eloquente, che parli una lingua nuova, universale.

E’ molto interessante e sicuramente coraggioso sentire questo puzzle emotivo in salsa hard rock cantato in italiano, solitamente questo genere di musica è accompagnato da acuti che sovrastano un cantato in inglese, il nostro, invece, sceglie una propria via, un proprio cammino, un totale lascia passare per l’inferno.

Ecco allora che si snocciolano trame sonore del tutto originali o che almeno in parte cercano di creare un tutt’uno con un concetto, con una digressione sonora che va ben oltre il sentito, si ascolti semplicemente la traccia finale Illusion Prog. per capire dove sta la capacità del nostro nel contaminare vari stili in una ricerca continua.

Un disco ben suonato e calibrato, sospeso e inquieto, carico di quella luce oscura che di certo non farà Primavera, ma ci farà uscire in modo naturale da questo Inverno.

Nrec: Spaghettironica EP (Bananophono Records/Tuna Records)

Spasmi, contrazioni muscolari e ambient declamato fin dalle prime note che si contorce però contro l’albero della nostra coscienza, inerpicarsi elettronico di campionamenti prodotti egregiamente che si discostano da qualsivoglia schema mediatico e nel ripetersi ossessivo si fa forma e sostanza per l’attesa che va ben oltre il sperato.

Enrico Tiberi in arte Nrec è un asso in tutto questo, è un manipolatore di suoni continuo che coadiuvato da Daniele Strappato alla voce si lascia andare al vortice della follia musicale campionando suoni e inventandone altri in un’era in cui il già sentito risulta la prassi quotidiana.

Il nostro Nrec va ben oltre a tutto questo, si consuma creando incroci sonori tra Aphex Twin, Apparat e i Lali Puna intensificando costrutti che in sole quattro tracce ci permettono di regalare un quadro generale ben definito e sudato, mai banale e sicuramente di forte impatto.

Un disco per un lounge che va ben oltre l’idea di aperitivo, un’elettronica alternativa di classe che salpa verso altri lidi o almeno si spera.

The chairs – Stanze Vuote (Alka Record Label)

Stanze vuote nel tempo, sono i ricordi, quelli che ci restano dentro, ma che non sono più tangibili, appaiono nella mente come un fugace bagliore e poi inesorabili se ne vanno lasciando indietro magari qualche lacrima di nostalgia.

La rock band marchigiana The Chairs racconta momenti di vuoto nel loro nuovo disco Stanze vuote per l’appunto, approdando ad una forma canzone che si divide tra cantato italiano e inglese, quasi fosse un’esigenza, che vede l’essenzialità del testo rispetto alla musica in alcune parti del disco, viceversa la lingua straniera si insinua lasciando spazio alle incursioni sonore dimenticando tutto il resto, in altre.

Questo album parla di come cambiamo nel corso degli anni, di come ci facciamo grandi belli e forti e allo stesso di tempo di quanto facile è cadere inaspettatamente, un disco che parla di cammini in salita e strade da percorrere non sempre facili.

Il tutto suona rock si, ma non troppo alternativo, diciamo un classic rock da classifica con cantato al femminile che ammicca, facilitando l’ascolto e abbordando il tutto con riff sonori di imminente impatto.

Elisa che si scontra con Shirley Manson lasciando al vento tutto ciò che ancora non è concesso di conoscere e di respirare.

Si parte con Effe per finire con la title track Stanze vuote, in un continuo perdersi e ritrovarsi, assaporando i momenti, viaggiando con la mente.

Basements – Brucio Spento (Alka Record Label)

Il crollo delle certezze partendo dal fondo, partendo da quegli attimi che non sono più nostri e si ritrovano a combattere per raggiungere un traguardo sospirato, ma non sempre garantito; il crollo della ragione da cui ripartire, rinascere e ogni volta, sempre più, convincere.

La fenice che dal fuoco riparte, si ricrea e da un senso diverso alle nostre vite, trasformando il tutto e dando un senso di pienezza che al solo pensiero mi vien voglia di ammirare e ammirare ancora.

Quello dei Basements è un percorso, prima con il cantato in inglese, poi il passaggio convinto all’italiano, che di per sé convince, facendo assaporare costrutti di rock impastati a dovere con un futuro di chitarre distorte.

Il loro è un viaggio che si apre con il fuoco che esalta, ma è anche un fuoco che brucia, che lascia in mano solo la polvere e quindi il restare soli con se stessi a raccogliere i cocci di un giorno che verrà.

Un album che suona internazionale ma non lo è, 4 tracce di originalità mai gridata, ma sostenuta, una buona continuazione nella strada del tempo.

Eridana – It Decay (Autoproduzione)

Ribellarsi ribellarsi e ribellarsi, questo è il significato del nuovo disco degli Eridana, che ti snocciolano li senza problemi cascate di turbini gridati e cantati per far nascere in un solo momento un gusto per l’hard rock che si comprime per raggiungere quell’internazionalità necessaria e ambita da tutti i gruppi che fanno questo genere di musica.

I nostri però ci mettono del loro, si autoproclamano alla ricerca di qualcosa di più profondo, di nascosto e pronto a scoppiare per rendere tutti migliori e per tentare di uscire da una schematica vita preimpostata da altri, nell’attesa che qualcosa si compia, nell’attesa che siamo noi a prendere in mano le redini del nostro cammino per entrare prepotentemente a piè pari nella nostra vita.

In questo disco c’è molto rock targato ’70, ma nello stesso tempo c’è un passaggio obbligatorio al grunge degli anni ’90 e quel malessere cantato e vissuto, pronto a esplodere in cosmiche chitarre distorte che guardano altrove, verso un nuovo orizzonte.

Un’intimità svelata quindi e la scelta di comprimere i suoni fino a farli uscire rinnovati e vissuti, calcolati e come bagliori quasi accecanti.

Un disco che merita approfondimento e anche una lacrima di nostalgia verso, purtroppo, quei suoni che non esistono più.