Clamidia – Al mattino torni sempre indietro (Cup of tea)

Post rock apocalittico che analizza svicerando gli anfratti delle nostre coscienze raccontando con una voce disturbata il forte andirivieni commosso e sommesso, privato esempio di compostezza e beatitudine per lasciare spazio ad una voce sofferta che si consuma.

Un cantato declamato quello dei Clamidia, che si sono assicurati un viaggio senza ritorno verso i pianeti più nascosti dietro ai nostri occhi, dietro alle nostre orbite turchesi che sembrano chiedere quanta aria manca per il nuovo giorno che deve ancora arrivare.

Ecco allora che il verismo si fa canzone e poi arte in un continuo ricercare  di modelli di stili a cui approdare anche se i nostri ricalcano alla perfezione quella tipologia di band che cerca una propria strada lungo territori ostili e inospitali.

Bellissima l’apertura affidata a La croce, che si immola come essere ultratterreno tra Noi nella commovente Fondazione nuovo pensiero, per abbandonarsi ai flutti di Ulisse e poi via via a raccontare fino all’ultima nota di Redenzione e Grazia un post rock contaminato dalla new wave più oscura e fibrillante.

Un disco ricco di contenuti e sonorità, intriso di quella capacità sopraffina di rendere reale un concetto che solo al pensiero era data l’autorizzazione di esserne il re.

Il terronista – Le ballate del terronista (Autoproduzione)

Tradizione meridionale che incrocia il folk per un disco che sa di terra, sole e fatica.

Musica pizzicata tra folk appunto e folclore, che vede come protagonista Diego Capece, ex Jake Moody alle prese con quattro canzoni che mescolano in modo essenziale un cantautorato incrociato al primo De Gregori fino a toccare Jannacci e la prosa cantata di Gaber, in un piccolo disco/ep composto da quattro canzoni colorate con i colori dell’estate che ammaliano e conquistano al primo ascolto.

Il disco apre con il terronista, inno generazionale che racconta di chi per fuggire da una terra che a malincuore deve lasciare, abbandona il passato, la gente, la casa e il proprio amore per scoprirsi in un’Italia nazionalista che lo rifiuta.

Si passa poi al Ballo del disoccupato, che ingloba un pensiero ormai sulle pagine di tutti i giornali, ogni giorno per passare con disinvoltura ad una sorta di omaggio Deandreiano con La ballata dell’ubriaco d’amore e finendo con l’arabeggiante La ballata di Franco che vede la partecipazione di Valeria Cimò alla voce e alle percussioni.

Un disco quindi che ha bisogno di poche presentazioni, un continuo temporale con il passato e il presente che rimescola le carte per creare un futuro, diverso e si spera migliore.

 

Telestar – Così vicini, così lontani (Labella)

A tre anni di distanza dall’auscita del primo album ritroviamo i Telestar che ci raccontano di come il vivere a volte non sia meramente un atto fisico, ma piuttosto una raccolta di istantanee virato seppia che si ammorbidiscono con il concetto di ricordo e di lontananza.

Dire che questo disco è quasi perfetto è dir poco e adesso vi spiego perchè.

Intanto i nostri cantano in italiano e questo di certo male non fa, soprattutto sul piano della comunicazione verbale che entra diretta in refrain e ballate solitarie che a fatica ti lasciano senza emozionarti.

I testi delle canzoni a loro volta hanno una forte capacità di commistione del pensiero con chi ascolta, creando un appeal di immedesimazione molto difficile da trovare in altre band.

Per ultimo, ma non meno importante, anzi, la musica, quel cadenzato in minore che ti prende e ti culla, quasi fosse un movimento del vento che non ti vuole più lasciare lungo tutte le 10 tracce del disco.

Si parla di amore in primis, quell’amore però che è ad un filo di voce dall’essere raccontato, ma che poi si lascia libero di andare lungo i flutti del mare; pensiamo alla bellezza insita nel singolo Ancora Noi o nella mirabolante Idra: racconti di vita sul filo del rasoio che parlano di come i rapporti stiano alla base del vivere.

Un disco che incontra le sonorità di Baustelle, incrociando Non Voglio che Clara e qualche ritmo ondoso dei Sigur ros più animati, ad infondere introspezione ed energia.

A mio avviso questo può rientrare tranquillamente tra i migliori dischi italiani dell’anno, un connubio ben riuscito tra semplicità, bellezza ed eleganza.

Sinezamia – Decadanza (Autoproduzione)

Il loro nome racchiude un concetto, l’essere senza anima in un mondo in decadenza e allora come fare a ritrovarla, dove cercare? Cosa pretendere da chi ogni giorno ci illude, da chi ci vive attorno?

La band mantovana in questa nuova prova non risparmia nessuno e evidenzia particolarmente in questo disco, lo stato di abbandono in cui imperversa un’Italia da cui è difficile sfuggire se non con il pensiero che vola lontano.

Il loro è un rock ben calibrato, una voce che si libra nell’aria regalando numerose sfumature di genere e si lascia alla ricerca dello sperato in una continua forma di lieve universo che implode ed esplode dentro di noi.

Un rock classico, dal sapore primordiale, reso ancora più oscuro dal concetto che i nostri vogliono a gran voce proclamare, dopo dieci anni di carriera vissuti con intensità e splendore.

Un live quindi che raccoglie ciò che di meglio la band riesce a donare più una finale Warsaw che Ian Curtis sarebbe felice di ascoltare, tra new wave oscuramente ammaliante e chitarre in distorsori looppati che scardinano ogni convinzione che possa essere tale.

Un ripercorrere quindi la carriera di questa band, in una formula sicuramente di forte impatto, per capire, in modo diretto, la forte connotazione che questi ragazzi possono avere e donare.

I Salici – Sowing Light (Linèria)

Un tuffo nel passato con occhi e orecchie protese al presente in una formula alquanto inusuale che incrocia cantautorato sopraffino a stili molteplici e diversi che si intersecano in modo del tutto meraviglioso ad una musica che trae linfa vitale direttamente da un’altra epoca.

Questi sono I Salici, un gruppo che non ha bisogno di molte presentazioni, nati nel 2009 hanno potuto, con il tempo, commistionare psichedelia sonica, al cantautorato più profondo, fino a convergere nel prog epic di stampo medioevale.

Sowing light, che letteralmente significa, seminando luce, racchiude al suo interno il sapore di luce e di colori visti da un pendente di lampadario di un’altro tempo, un unificarsi e poi disgregarsi in molte concezioni musicali che prendono spunto direttamente dalla materia prima, la natura, che affonda a sua volta le proprie radici in cantati di folk rock targato ’70 in bilico tra America, Neyl Young e Creedence.

Seminare luce quindi, una ricerca continua di geometrie esistenziali che incorporano passato, presente e futuro, mente tutto muore e poi rinasce nuovamente, in un ciclo vitale che si conclude quando il nostro pensiero  è già rivolto ad una nuova vita.

10 canzoni che chiudono il cerchio, tra testi visionari e introspettivi, un disco che non deluderà di certo gli appassionati di genere.