Maudit – Maudit (Autoproduzione)

Cupi ed energici rapiti dagli anfratti di una caverna nascosta sotto le profondità marine che solo i più astuti e coraggiosi esploratori possono trovare e apprezzare fino in fondo, fino all’energia che si fa viva e incontrollabile, tra citazioni e echi primordiali di un rock ruvido e ben suonato.

Questo sono i Maudit, vengono da Milano e nella loro prima prova da studio concentrano sofisticate parabole ascendenti che incantano e stupiscono per il modo diretto d’approccio che mai stona con il contorno, ma si fa portatore e portavoce di un suono che esce direttamente dallo stomaco e che come un pugno in faccia ci assicura che la realtà in cui stiamo vivendo non è sempre portatrice di libere scelte, anzi è amaro grigiore.

Sette tracce vorticose per meno di 30 minuti di musica suonata e sudata direi io a colpire al centro di un bersaglio fatto di sogni e paure, maledettamente rock, maledettamente nostre.

L’apertura è affidata alla folgorante Tempi migliori, inno generazionale per chi si è bruciato il tempo davanti alla televisione, constatando che poi Milano è citta di denuncia e degrado suburbano, passando per Colpevole e ammettendo che in fondo ognuno è anche Schiavo di ciò che lo circonda, il finale è affidato a Cattivo per ribadire un concetto, per evidenziare un bisogno.

Disco senza mezzi termini e mezze misure, un piccolo concept per una bella realtà che incrocia tutto ciò che di meglio ha da offrirci il panorama rock italiano degli ultimi anni, un album che vuole essere sopra le righe e possiede tutte le carte per esserlo.

Mambo Melon – Metro Jungle (Factum Est)

10979414_10205752561111464_894890779_n

Entrare nella giungla e disperdersi nel suono fatto di voci lontane e uccelli che cantano e danzano grazie al ritmo tribale, al ritmo che di sottofondo si insinua dentro di Noi e ci rende partecipi di un qualcosa che a malapena riusciamo a comprendere.

Questi sono gli sperimentatori Mambo Melon, sono di Cuneo e soprattutto sono solo in tre, capaci di rotazioni stellari e tripudi di battiti sovracorporei che si insinuano lentamente e non ti lasciano andare via, sono capaci di quella spontaneità racchiusa nelle colonne sonore dei film italiani targati ’70 come del resto sono capaci di improvvisazioni sonore che vanno ben oltre il contagio.

Sono tre uomini questi che amano divertirsi con la propria musica, lo fanno in maniera originale e si contorcono in assetati campionamenti sbarellati da sintetizzatori in prima linea e convincente ironia di proclamazione, atta a trascinare in modo si aggressivo, ma del tutto naturale, un mood essenzialmente fatto di colori sgargianti.

Un disco strampalato e carico di vigore, leggero e allo stesso tempo metafisico, dove l’insorgere del sole tra le robuste mangrovie non è altro che un nuovo modo per gridare alla vita.

LaBase – Antropoparco (LaNoia)

Grida laceranti di dolore, un disco che parla dell’essenzialità di vivere in questo mondo che è nostro ancora per poco.

Silenziatori spenti e chitarre fragorose di gioventù sonica che si intrecciano ad un cantato Godanesco di memoria quasi ancestrale, i tempi di Catartica e di quella band che aveva commosso per immediatezza e rancore, portato alla esasperazione distorta di continui sali e scendi sonori che gridavano al miracolo, finalmente.

Quasi 25 anni dopo LaBase raccoglie l’eredità di tutto questo e si concentra sull’essenziale tra blues rock accennato e un alternative grunge che affonda le proprie radici proprio negli anni in cui la ribellione aveva preso un’altra forma, si incarnava nello spirito di introspezione sonora e a tratti malinconica che sfociava in rabbia: gli anni X.

Anni di polvere questi che si trasportano fino ai giorni nostri, incuranti del dolore trasmesso e pronti a far riaffiorare i ricordi, i nostri lasciano ai posteri nove tracce mai contorte, anzi essenziali, si ascolti l’apertura ComePietreDiCalcare o Primavera, passando velocemente e con un gran balzo a Il Rettile, finendo con la suite sonora ALPRAZOLAM.

Un disco di collisioni cosmiche che quasi per magia incontra e si scontra con il passato per dare un senso vero e reale ad un pensiero ormai dimenticato, una rabbia oltraggiosa che è pronta a sfociare per farci ricordare da dove veniamo e soprattutto che cosa faremo.

Perry Frank – Soundscape box I (Tranquillo Records)

Discostante e di una bellezza quasi irraggiungibile che si perde negli anfratti della coscienza per colpire un’altra volta al centro del pensiero, al centro di ciò che siamo dentro, per renderci migliori forse, per riflettere ancora una volta, per segnare nella propria agenda persona il tentativo non facile di rendere emozione ciò che si ascolta, regalando vissuti e abbracci solitari, sempre raccolti dalla malinconia di un pomeriggio assolato, ma leggermente velato, dove il terso del cielo viene sovrastato qua e la da nuvole minacciose.

Perry Frank in questa nuova prova regala chitarre ancora più morbide e meditative dove il sovrapporsi continuo di suoni sintetizzati e manipolati ci porta alla conoscenza di nuovi mondi da scoprire: finzione o realtà? Questo sta a noi scoprirlo lungo i sette brani che compongono Soundscape box I, un disco di melodie sonore in divenire calde quanto una coperta invernale, ma taglienti quanto basta per dimostrare all’intera penisola che la capacità espressiva può svilupparsi, in un tutt’uno narrativo, anche in un ambient post rock che trae direttamente linfa guardando il futuro.

Non scomodiamo paragoni, potrebbero essere tanti, fra tutti GCCIGF, anche se il nostro riesce a conquistare per novità della proposta e continui cambi di scena, quasi fosse un film da cui non vorremmo mai staccarci e noi con la punta del naso incollato allo schermo seguiremo il viaggio a Barcelona landscape, tra Le vent et les Nuages e poi torneremo a casa tra rimpianti forse, Regrets, in compagnia però di una dolce musica che non ha mai fine.