Il silenzio delle vergini – Su rami di diamante (Resisto)

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Evocativo nome per evocativo disco intessuto di trame chitarristiche e di basso a sciogliere voci che si immolano su testi che lacerano la carne cercando un punto di svolta laggiù dove l’amore sembra essersi fermato, laggiù dove tutto tace e quel bagliore di umanità sembra essersi dimenticato di noi. Su rami di diamante non è un disco di facile appeal, piuttosto è un viaggio in bilico tra incubo e sogno, dentro di noi, un viaggio fatto di sapori e profumi oscuri, un vagare nell’eternità della notte dove a farci compagnia troviamo i fantasmi del nostro passato impressi in pezzi che sono metamorfosi del nostro essere e scoprendo l’apice di questi parallelismi in canzoni come Londra  o nel singolo Amore. Il duo composito formato da Armando Greco e da Cristina Tirella e che per l’occasione vede la presenza di Michele Guberti ad aumentare la caratura artistica, ricerca nelle profondità mancate un punto d’appoggio per scrivere ancora di questa ed altre storie con la lucidità di chi cerca la particolarità nell’ovvietà, scardinando preconcetti e guadagnando respiri ad ogni passo. 


Mamuthones – Fear on the corner (RocketRecordings)

Mamuthones - Fear On The Corner

Pazzia psichedelica che instaura parallelismi con una natura sconvolgente e implosa per la band dell’ex Jennifer Gentle Alessio Gastaldello, un substrato ricco di rimandi ad una scena tribale concisa e quasi ermetica che si apre poi a viscerali lamenti lisergici proprio quando meno te lo aspetti in un condensato d’amore per tutto ciò che può essere rivoluzionario o perlomeno sorprendente e sbalorditivo. Il nuovo Fear on the corner ovviamente è un disco complesso, possiamo solo carpirne una visione d’insieme che a tratti sembra sfuggire, a tratti però ci consegna una prova d’alto livello sia dal punto tecnico-compositivo, sia dal punto di vista emozionale instaurando con l’ascoltatore un senso di straniamento portando l’album stesso a paragoni capaci di sfiorare le architetture sghembe dei nostri, dal jazz fusion di Hancock passando per Miles Davis e incrociando un funk che si sposa con i ritmi africani. Fear on the corner è un disco davvero grande, sia per caratura dal sapore internazionale sia per potenza espressiva che dona alla sperimentazione una grandiosa sensazione di bellezza.

Cult of Magic – :O (Autoproduzione)

Percorsi di ricerca, scissione, ambiti immaginifici che prendono spazio, guadagnano tempo, si instaurano e si insidiano all’interno di pensieri in dissoluzione e mantengono sempre costante quel bisogno innato di creare, sperimentare, stupire. Il collettivo Cult of Magic costruisce una prova davvero insolita dove la presenza di più menti permette di aggiungere il giusto apporto per costruzioni sempre diverse, in fase di esposizione attiva e architettonicamente in evoluzione dove le sfumature presenti sono sempre un punto di contatto con qualcosa di indefinito, con qualcosa che non ha una fissa origine, ma piuttosto capace di entrare direttamente nel buio che avanza e dove solo magie di alto livello possono riconsegnarci il mondo che vogliamo. :O è un insieme ben ideato di psichedelia cosmica di difficile decriptazione, ci sono i versi e ci sono le musiche, c’è la sperimentazione del linguaggio-suono e di tutto quel concentrato di rumori che prende vita poco a poco per dare un significato al caos innaturale dell’attualità. I Cult of Magic hanno ideato un labirinto dove la via d’uscita è un fascio di luce accecante bellezza e sostanza da maturare nel tempo.

Taprobana – Tabrobana (Autoproduzione)

Anfratti psichedelici profondi abissi lisergici puri che si apprezzano soltanto nella confusione del parlato e accecano occhi in due pezzi conturbanti a contenere questa piccola, mini prova, dal sapore d’altri tempi, un sapore di una musica carica di sostanza che deve cercare di uscire, deve cercare di esplodere, limando le imperfezioni e facendosi trascinare dal flusso costante del momento in una comunione d’intenti che in queste canzoni sa cercare anche un’originalità di fondo che deve continuare ad essere ricerca per un album completo che aspettiamo, in nome di una musica targata ’70 che nella dimensione  di movenza costante trova in questo mini disco il bisogno di uscire maggiormente.

Push Button Gently – ‘CAUSE (Moquette records)

Approccio libero e divincolato che si avvale dell’esperienza del tempo, in quello scantinato a suonare l’inverosimile e soprattutto a divertirsi, fino al 2013 anno del primo disco, un EP nel 2014 e ora l’uscita di questo arcobaleno cromatico che riesce nell’intento di amalgamare i suoni in una psichedelia moderna e lontana, a mio avviso, dalla classicheggiante degli anni ’70, qui ci troviamo di fronte ad un momento esperienziale condiviso, mescolato al rock e alle rarefazioni elettroniche in grado di imbrigliare una ricchezza di suoni cosmici capace di incastrarsi a meraviglia con pezzi maturi e ricercati, la cura di ogni particolare si sente e la band proveniente da Como omaggia ciò che verrà con un album che non è un concept, anzi, è un disco che si interroga sulle estremizzazioni della vita, su ciò che è più giusto fare, fino al morire del giorno, oltre l’universo a cui  apparteniamo, perché noi stessi ci troviamo ad essere parte integrante di un tutto che non ha confini.

Circolo Lehmann – Dove nascono le balene (Libellula/Audioglobe)

Sanno parlare di posti lontani, di territori che fanno parte però del nostro vivere quotidiano, quei territori dell’anima da esplorare attraverso elucubrazioni prog che si spingono ben oltre le maree e ci lasciano con il fiato sospeso ad immortalare il momento, a segnare in modo indelebile una contaminazione che si innesta dentro al sogno psichedelico e attraverso una folata di vento, riesce a ristabilire equilibri scavando nelle passioni dei giorni perduti.

Ascoltare il Circolo Lehmann è prima di tutto fare un passo indietro, negli anni ’70 italiani, tra suite sonore che meritano più ascolti per essere interpretate, una musica che poi si proietta nei giorni nostri toccando le corde di un cantautorato alla Niccolò Fabi in divagazioni alla Paolo Beraldo con suoi Public, per passare prepotentemente ad una quiete acustica che ammalia e sincera commuove, in una ricerca stilistica dei pezzi che incontra la letteratura e il conflitto eterno tra il criptico e l’evidente in una dicotomia sogno e realtà che si respira in apnea lungo tutte le undici tracce che compongono questa piccola opera seducente, dalla bellissima e incontrastata Marlene fino a Cosa ci siamo persi a rincorrere un vuoto che ci vede protagonisti per passare ad osservare l’oceano in Dove nascono le balene, pezzo di pregevole fattura che da il nome al disco e che in qualche modo è il sunto di un pensiero a tratti oscuro e di denuncia, che si contorce nel suo abbaglio e ritorna nelle profondità degli abissi, a ristabilire una comunione d’intenti con le nostre aspirazioni future.

Arianna Antinori – ariannAntinori (K1REC)

Arianna Antinori è il blues maledetto della coscienza che riempie gli spazi grigi e trasforma ondate di fuoco in un qualcosa che ci attraversa con sostanza e digressione sonora, portandoci ai tempi di Woodstock, ai palchi impolverati, dove piedi nudi grondavano sudore, tesi verso qualcosa di indefinito, ma sentito, un concentrato di energia che da forza e vigore alle interpretazioni che verranno negli anni a venire verso sodalizi musicali che hanno fatto la storia del rock.

Arianna è tutto questo, nella sua musica c’è Janis Joplin, ma nel contempo anche tanta voglia di sperimentare, non a caso in questo album troviamo lo zampino del folle genteliano Fasolo che per l’occasione si cimenta in un polistrumentismo alquanto accurato e immedesimato nel tempo, tralasciando le componenti leziose e connotando le canzoni con fare apertamente blues psichedelico e concentrato a rendere attimi di ’70 proiettati ai giorni nostri.

Un disco ricco di citazioni e rimandi, con testi schietti e diretti, una piccola opera che resterà nel tempo, tanto coinvolgente quanto inusuale, in un mix che fa propria un’eredità dei tempi passati e si conferma come inclusione per i tempi che verranno.

Fusch – Chemical Light (Jestrai Records)

Bombarde chimiche circoncise e allucinate che lasciano code di se e sprazzi di umore cosmico a rinfrancare una scena priva di costante tensione, ma capace di evaporare i sudori di un nuovo giorno tra fasci di luci perenni e capacità nascoste, celate, ma in continuo movimento; abbattere substrati altissimi per riportare a galla una psichedelia tutta italiana, tutta forma e sostanza, con una cantato che per scelta è piuma d’uccello che si alza in volo.

I Fusch sono tornati e lo fanno alla grande, costola della Jestrai in tutto e per tutto, in questo nuovo disco, dopo la ricerca sonora in 3 atti dei precedenti, i nostri si affacciano su di un baratro apocalittico dove le energie convogliano lasciando piccole particelle di noi stessi, piccoli e minuti ricordi di un tempo lontano, di quell’affacciarsi alla vita fatto di istantanee lisergiche quando la poesia non era rovinata dall’ultimo apparecchio elettronico in circolazione, ma il tempo e la costanza permettevano di intessere legami con gli altri e soprattutto con noi stessi.

Si perché questo è un disco interiore, di un’interiorità mai raccontata, che indaga sulla voracità della vita, che indaga sui nostri malesseri e ci conduce verso mondi lontanissimi e abbracciati come amanti sulle rive del mare, guardiamo la marea che si alza, sospinti dalle onde, dall’acqua, sostanza vitale del nostro essere umani primordiali; affacciati alla vita e pronti a tenerla per mano.

Barely Awake – S/T (DIYSCO)

Entrare prepotentemente e in modo assurdamente reale in un mondo fatto di geometrie esistenziali che si contorcono in un suono non apostrofabile e non incasellabile, che si dimena tra utopie e velate dolcezze in fulmini di tempesta e coraggio in un periodo di vacche magrissime per l’industria musicale.

Si parte in primis con il piacere di suonare e questo il gruppo di Pesaro lo sa benissimo, in quanto dimentica la forma canzone statica per lasciarsi andare a divagazioni sonore che prendono la migliore proposta della psichedelia degli anni ’70 per comporre e sottolineare attitudini e bisogni post rock che abbracciano il post metal per creare una commistione di math rock sperimentale allo stato puro in bilico tra gli acuti di Jeff Buckley e un Frenk Zappa dissacrante, strizzando l’occhio alla musica post grunge americana di fine anni ’90.

Un disco quindi imprevedibile, suonato quasi jazz in chiave rock, capacità tecnica elevatissima e una grande forza interiore che si  esprime prepotentemente lungo le 16 tracce dell’album tra pezzi gridati e atmosfere rarefatte che lasciano ai cambi di tempo l’onore di ricomporre la strada ancora un volta.

Un genere conosciuto a livello strumentale, ma che i nostri con concentrazione e con dosata ambizione si promettono di renderlo comunicabile ai più tra testi esistenziali e portatori di suoni cosmici ed efficaci.

Ricucire e creare, scomporre  e ricomporre in un’imprevedibilità che fa scuola ancora una volta, disorienta e ammalia, colpisce allo stomaco e non ti lascia aria, anzi ti fa accarezzare le vette degli alberi per vedere la luce.