-LIBRI ILLUSTRATI- Massimo Ivaldo/Giorgia Atzeni – Luci (Edizioni Corsare)

Titolo: Luci

Autori: Massimo Ivaldo / Giorgia Atzeni

Casa Editrice: Edizioni Corsare

Caratteristiche: 17×24 cm., colori

Prezzo: 15,00 €

ISBN: 9788899136253

 

Poesie per il giorno, poesie per la sera, quando si spengono le luci e il mondo attorno, almeno per noi smette di girare, ma è pronto, dietro l’angolo a ripartire, ad illuminare a far sì che le esperienze di vita siano attimi da inglobare in un qualcosa di nascosto, ma ampiamente condiviso, carezza percettibile, sguardo che ammira lontano. Sono le luci ad essere le protagoniste, la percezione del giallo nel bambino e ogni cosa è illuminata, un calore rassicurante che abbraccia e non separa, ma piuttosto rende più dolce l’attesa, rende più chiara ogni sfumatura che portiamo con noi.

Luci è un libro splendente, raccoglie al proprio interno dodici poesie che parlano di tutto ciò che nell’età infantile cattura il vivido pensiero e rende luminoso un cammino fatto di cose, di avvenimenti, di punti fermi del nostro vivere. Filastrocche in rima che aprono al sole e chiudono alla notte passando per le stelle, la luna, le lucciole, il faro per poi non dimenticare la poeticità del momento che si fa sguardo negli occhi di mamma e papà o nella bellezza rassicurante di un fuoco acceso a rasserenare un abbaglio che si fa gioco, un odore di legno, un mondo tanto piccolo nella grandezza del vivere intero.

Le poesie di Massimo Ivaldo, attore teatrale di indiscusso valore, prendono forma colorando l’aria di magia e dolcezza mai banale e mai troppo edulcorata, una magia che prende vita tra le appese forme del cielo colorandole di un giallo che traspare, di un bianco candido, forme accese che si ripetono speculari nelle illustrazioni simboliche, esplicative e originali di Giorgia Atzeni, illustratrice capace, attraverso il colore, di dare un nome a ciò che viene descritto, così semplicemente in una trasposizione letterale-visiva che riempie e convince fin dalla bellissima immagine di copertina.

Edizioni Corsare produce un piccolo libro dal grande valore intrinseco, un modo diverso di raccontare ciò che ci sta attorno raccogliendo la semplicità del momento e trasmutandola in idea da vivere e da assaporare. Un libro destinato ai più piccoli e a tutti coloro che trovano nel ricordo della luce un punto di contatto con la propria attuale realtà, un testo destinato a ricoprire quel bisogno di calore che solo la lucentezza del momento sa raccontare per lasciarsi vivere ancora e per trasformare un’idea, questa idea, in un pensiero che ci illumina da vicino.

Per info e per acquistare il libro:

http://www.edizionicorsare.it/luci.html

Alberto Nemo – 6×0 (Volume 1) / (Dimora Records)

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Artista crepuscolare che raccoglie il tormento del mondo per rigettarlo al suolo attraverso una formula davvero inusuale, ma dal forte impatto emozionale per un disco sorprendente fatto da suite sonore che raccolgono una poesia introspettiva e malinconica ricordando per certi versi accenni e fraseggi di Antony Hegarty e dei Dead can dance racchiusi in scatole concentriche che donano spazio all’intensità emotiva del cantautore di Venezia qui raccolto in costruzioni da cattedrale solenne che si erge a fluttuante emblema di una forma canzone che non ricerca un seguito, ma piuttosto si fa perla intramontabile per i giorni che verranno. 6×0 Volume 1 esce per la neonata Dimora Records, etichetta fondata dallo stesso Nemo con il cantautore conterraneo Andrea Liuzza, un’etichetta che si prefigge di dare spazio ad artisti emergenti italiani e già con questo disco il percorso di fondo ha inizio prediligendo una sospensione da tutto ciò che è stato fatto fin’ora nel panorama indie italiano per donare passaggi di lucentezza attraverso il buio che avanza in una piccola composizione che è solo la prima parte di un qualcosa di più complesso, di stratificato. 6×0 è emozione allo stato puro fuori da ogni cliché, un disco che si prefigge di essere via di fuga da un quotidiano sentire comune.

Lost dogs laughter – Out of space (Autoproduzione)

Una potenza controllata di getto è l’esemplificazione portante del nuovo primo album dei Lost dogs laughter band romana che fa dell’alternative targato anni zero un cavallo di battaglia tra cavalcate poderose, distorsori eviscerati a dovere e una voce tuonante a catturare l’attimo e la minima sensazione di assoluto che si respira. Out of space è un viaggio fuori e dentro di noi, un camminare quasi metafisico anche se ben ancorato a terra che si destreggia lungo un percorso che vede il grunge e tutto il post come punto cardine di partenza per esprimere un concetto, una sensazione, un bisogno impellente di comunicare situazioni e stati emozionali tra Nirvana e i Porcupine Tree passando per i Muse e i QOTSA. Sono nove canzoni a far luce su di un palco polveroso, nove pezzi che si destreggiano e convincono già dalla prima traccia, Sweeter reaction, singolo d’apertura davvero interessante che lascia il posto a brani come Go away o am I? a ristabilire un rapporto terreno che si immola a punto di partenza per nuove scoperte. Out of space compie, attraverso sonorità variegate, un giro di sensazioni pronte a sbaragliare confini inventati, sensazioni capaci di dare un senso a tutto quello che ci circonda.

HLFMN – YOU’RE SHIFTING NOW (Autoproduzione)

Spazi sovrapposti che imbrigliano la luce dell’attimo appena trascorso e si stagliano ad incanalare sovrastrutture di mondi diversi, lontani, realtà similari che accennano a ricoprire spazi di vita attraverso una musica pensata per catturare l’attimo simultaneo, il momento dilatato e in continua sospensione. HLFMN ovvero Half Man ci delizia con un disco davvero sorprendente che spazia dal minimal, alla musica d’atmosfera fino a subentrare all’interno di meraviglie post rock capaci di affacciarsi ad un’elettronica di genere mai conclamata, ma piuttosto lasciata lì a sedimentare rincorrendo una qualità di fondo davvero invidiabile e capace di nascondere significati sotterranei se non addirittura spaziali. In questo album fatto di diciassette tracce c’è l’amore per l’inspiegabile, amalgamando suoni in continua evoluzione; un disco che si apre ad emozioni nascoste, rarefatte, inglobando pensieri di plurime realtà e plurime scelte, le scelte che il nostro reale ci chiede di compiere, le scelte che il nostro Half Man è in grado di farci apprezzare attraverso brani eterogenei e simultanei al viaggiare neuronale del nostro cervello, tra un Moby della prima ora e i Sigur Ros di Kveikur You’re shifting now è prima di tutto un viaggio dentro di noi che ha la potenza cosmica di un qualcosa senza fine.

The Valium – Amazing Breakdowns (XXXV)

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Rock’n’roll sputato e incanalato al suolo grazie ad un’energia viscerale che si frappone alla quotidianità ed elargisce consigli su reattività e modi di interpretazione di una vita al limite, ma soprattutto sempre in cambiamento. I The Valium ci danno dentro con le parabole sonore e conoscono a menadito l’essenzialità nel comunicare con il proprio pubblico uno stato di disagio, ma nel contempo anche uno stato d’appartenenza con il mondo circostante, a suon di beat, a suon di rock, sciogliendo i desideri di band come The Hives fino a ricomporre le complessità di mostri sacri come Beatles o l’immediatezza purificante dei The Rolling Stones o di qualsiasi altra band che ha fatto la storia della musica mondiale. Amazing Breakdowns suona davvero internazionale, un’internazionalità davvero concentrata sui paradossi della vita moderna, da quell’intro che si fa già potenza in Too many dreams of rock’n’roll passando per l’inno I hate you per poi dare ancora spazi notevoli di elasticità incontrollata in canzoni come Supernatural o Tv per concludere a bocca aperta con la notevole Soul sister. I The Valium con Amazing breakdowns si garantiscono un posto tra le migliori promesse di questo quotidiano mondo musicale grazie a suoni freschi che non disdegnano di osservare da vicino la modernità.

The Ghibertins – The less I know the better (Autoproduzione)

album The Less I Know The Better - The Ghibertins

Sonorità d’oltreoceano che si stagliano come nuvole all’orizzonte e regalano una ventata di freschezza alle produzioni che ci circondano, incanalando un bisogno essenziale nel fare della canzone pop uno stimolo per un’evoluzione contagiosa ad ingabbiare un rock di facile appeal emozionale e sulle corde di una musica sospinta nello smuovere emozioni dentro di noi. Quando si ascoltano i The Ghibertins i riferimenti più immediati si possono trovare in band come Counting Crows, cantautori eclettici come Ryan Adams e Badly Drown Boy o tra i parallelismi con gli italiani Telestar. I nostri riescono a coniugare il folk con la canzone d’autore e i ritmi sostenuti, ma dilatati, permettendo ai pezzi di farsi riascoltare grazie ad una comunicabilità di fondo davvero invidiabile ai nostri giorni. The less I know the better è un disco davvero ben suonato e registrato; grazie anche gli arrangiamenti puntuali di Alberto Turra, arrangiamenti che permettono al suono di rimanere con i piedi ancorati nella sicurezza dell’istante, quell’istante che si muove nell’acquisire valore e personalità. Dopo il primo lavoro del 2015 i The Ghibertins confezionano un disco bellissimo sotto molti punti di vista, un album che ne sono certo, sarà un punto di fondamentale importanza per i risultati futuri della band.

When_due – Pendolo (Pistacho)

Secondo album per il duo proveniente dalla Sicilia che si cimenta con suoni ultraterreni da dance floor contemporanea in loop continuo a disegnare geometrie standardizzate e nel contempo eleganti che implodono ed esplodono ad attutire i colpi della materia per far rivivere armonie sotto forma di figure, colori e decostruzioni elettroniche. Pendolo dà proprio l’idea oscillatoria del moto, in un’esigenza a temporale nel consegnare risultati apparenti di sicuro impatto che si muovono attraverso cinque tracce che fanno parte della stessa matrice, hanno le stesse radici e portano con sé l’esigenza di intrappolare il momento fino a necessario bisogno di consegnarci una suite sonora divisa ad arte, un Pendolo musicale che parte e torna con la stessa forza, in un moto perpetuo studiato e necessario che ricopre le distanze e fa si che il mondo attorno diventi trottola consequenziale di un viaggio che sembra non avere mai fine.

Il reparto psichiatrico – Qualcosa più di niente (Autoproduzione)

Disco d’esordio per una band strampalata che fa del citazionismo un’insegna da espandere come bandiera all’interno delle nostre menti, incamerando un rock che si affaccia alla canzone d’autore decostruita a dovere e mossa dall’intento di dare da vita e voce forse, a chi tutto questo non ha. Già dal nome della band si può evincere la particolarità della proposta, sostenuta da un rimando quasi sempre esplicito, nei titoli e nei testi delle canzoni, a personaggi di un mondo onirico, fantastico, da Laputa di Miyazaki, fino a Moby Dick, passando per il Mago di Oz, senza dimenticare gli Humpty Dumpty di Alice attraverso lo specchio e in un certo qual modo un mondo infantile che si affaccia all’età adulta in modo improvviso, ma allo stesso tempo luccicante. Il reparto psichiatrico con quel Qualcosa più di niente si dimostra essere una band dal forte carattere e connotata da un impattante desiderio di raccontare e raccontarsi attraverso parabole che ci riguardano da vicino e osano fino a comprendere ciò che è nascosto dietro alle apparenze di ogni giorno. Un mondo strutturato e variopinto mosso dalla psichedelia dell’attimo appena fuggito.

Unreal city – Frammenti Notturni (AMS Records)

Città che non esistono, città contornanti la notte velata di nero contendendosi le ultime luci del giorno per bagnare il tramonto con il fuoco della sera. La città dorme e sotto c’è nascosto qualcosa, qualcosa che non conosciamo e a cui non sappiamo dare un nome, ma rappresenta la parte più oscura di noi, la parte che da tempo sentiamo il bisogno di abbandonare, ma allo stesso modo quella parte ci attira, ci ammalia, si ciba di noi. Frammenti notturni è un concept calibrato a dovere che ripercorre senza se e senza ma il grande periodo del prog italiano, un disco quasi anacronistico ai giorni nostri, ma sicuramente così ben strutturato da apparire moderno e mai stancante, anzi si prefigge, senza sosta e ripensamenti di far da tramite e veicolo per il buio che risiede dentro di noi. Gli Unreal City intascano una prova davvero miracolosa, una prova cupa e oscura, fatta di pezzi strumentali come le due parti d’apertura che lasciano il posto ad un cantato in cui l’urbanizzazione e la potenza devastante del cemento e della sua conseguenza naturale e cioè l’alienazione, sono riferimenti e temi essenziali per comprendere la poetica intrisa di significati di questa band. Al terzo disco i nostri si proiettano lungo una circolare esemplificazione del tutto, stratificando a dovere i contenuti e imbrigliando di luce le ultime ore della notte.

C’esco e i musicanti di Brahma – Mutazione/Profondità in superficie (Autoproduzione)

Parallelismi utopici che segnano il confine già dalla copertina trasfigurata e in mutazione, un passaggio essenziale per comprendere all’unisono una musica quasi orchestrale e fatta di entità sospinte a ricreare quel bisogno di trasformazione che non si sofferma ad un genere preciso, ma piuttosto è comprovata eleganza pronta a misurarsi con la canzone d’autore italiana. Mutazione/Profondità in superficie è un disco che vuole raccontare e raccontarsi attraverso un uso sapiente delle parole, brani che si trasformano in poesie e rendono gli arrangiamenti punto prezioso da cui partire per dare una maggiore scorrevolezza al tutto, grazie all’utilizzo degli strumenti più disparati, soprattutto di origine folk come il violino, l’ukulele e il banjo e grazie anche a parole che parlano di una velata quotidianità a volte sottintesa, quasi criptica, ma sempre pronta ad esplodere nei momenti più opportuni. Nove pezzi che lasciano all’apertura Macchia di rosa l’incipit potente che affonda poi in pezzi più leggeri, ma strutturati, come Timore d’amore e Orbitante passando per Credo nell’uomo e il finale lasciato a Un discorso sospeso quasi a ricordare che il messaggio lanciato dal gruppo è importante, profondo, ma comprensibile da tutti, per questo superficiale: in una banalità dilagante i nostri parlano, in modo poetico, di ciò che ci circonda ogni giorno.