W.Victor – Che bella cacofonia (Ottokar)

Suono contaminato di terre lontane ad unirsi e creare un insieme di voci che va oltre il concetto musicale, ma si espande a conformare una musica di babele, un’immensa e regnante città dove la democrazia è il potere dei più deboli e dove la narrazione e il raccontare la vita è ingegno puro lasciato al tempo, tra ritmi danzerecci balcanici in bilico tra il cabaret e la farsa tragicomica in un vortice di emozioni che si trasforma in festa in qualsiasi ora del giorno e in qualsiasi posto vi troviate.

Testi che si raccontano e che portano dentro al nostro cuore un immaginario onirico che racchiude la vita nella strada e per la strada, un abbracciare culture diverse come fossero nostre e immancabilmente parte di noi stessi, vietando la parola confine, in un connubio di grandi capacità espresse in questa prova dal sapore mediterraneo.

Si parte con E carnevale, arrivando a Un giorno così passando per la calma prima della tempesta in Perché e raggiungendo apici di poesia in Azerty Uiop; un cantautore che si concede al mondo tentando di farsi domande e spiegando un perché non sempre facile da intuire.

Questo è il nuovo disco di W.Victor e qualunque possa essere il vostro stile musicale preferito non potrete mai e poi ma non uscirne dall’ascolto stupefatti.

River of Gennargentu – Taloro (TalkAbout Records)

Solitarie inquietudini giovanili dal piglio folk si immergono nelle acque del lago profondissimo, innescando un connubio tra sentimento e naturale che fuoriesce dalla corteccia come resina che si trasforma in linfa vitale e stratificazione arpeggiata, meditando solstizi eterni e passioni che non trovano una fine.

Corde di un’acustica in primo piano a stabilire la scena e a regalare emozioni di un poeta lo-fi che si scontra con le radici del folk moderno e disintossicando la consuetudine in un vortice di dolenza mistica e ribellione che si evince lungo le otto tracce del disco.

Dalla Sardegna il blues che a sprazzi incontriamo si fa malinconico e porta l’odore del tempo, di un Dylan d’annata che incontra l’introspezione di Richie Havens in un disco, questo Taloro, che si proietta in terre nordiche oltre gli spazi conosciuti.

Un album da assaporare d’inverno, sotto una calda coperta, otto tracce dal sapore retrò e misurate, per dare, a piccoli tratti, l’impressione di essere difronte ad un panorama infinito.

Terzo Piano – Super Super (LaFameDischi)

Vincitori del contest, Le canzoni migliori le aiuta la fame, il gruppo Terzo Piano stupisce per stratificazioni rock unite da un’elettronica originale e brillante di luce propria.

La band confeziona una prova legata al tempo andato, senza qualsivoglia forma di sostanza in cerca di appigli, ma esprimendo un genere proprio e un’attitudine del tutto originale nello scrivere pezzi e nel dare forma a quel qualcosa di celato, di nascosto, tra un’elettronica sempre presente, ma un’elettronica sempre arrangiata e studiata, incursioni alternative rock e folk, abbracciando i Radiohead di Hail to the Thief, sperimentatori si, ma con la presenza di chitarre roboanti sempre pronte a squarciare la scena e a creare un gusto della ricerca che non si ferma al primo approccio, ma che tende a manifestarsi dopo numerosi ascolti.

E’ un connubio di generi questo, che rende i quattro giovani salernitani, una realtà da seguire a fondo, si perché i testi non sono mai banali e ancorati a qualcosa, sono testi che affrontano in modo visionario e onirico il vivere quotidiano, affrontano l’essere presenti su questa terra domandandosi senza essere scontati; un’eterogeneità di fondo che esplode lungo i dieci brani che compongo un disco che ha tutto fuorché sembrare un disco italiano.

Geometrie funamboliche e sperimentazioni che rendono onore ad una realtà in piena evoluzione, carica di significati nascosti, di notevole savoir faire e di quell’impressione che si percepisce da lontano che siamo di fronte ad un qualcosa di grande.

 

(AllMyFriendzAre)DEAD – Wonders from the grave (Overdrive Records)

Innestare ritmi frenetici e corrosivi di un post grunge assoluto che strizza l’occhio all’hard rock fulminante del passato, in un’estasi mistica trasportante e fuori da ogni previsione che cancella il ricordo per rendere la realtà più vera che mai, più attenta all’inverosimile e tracciando un solco indissolubile.

Un punk rock sporcato dall’heavy, una road americana sotto il sole cocente a tutto volume e quel turbo compressore canalizzato in un rock and roll che si esprime lungo le 12 tracce che compongono l’ultima fatica dimostrabile della band calabrese, nata nella terra del fuoco, nata in quell’arsura che per luogo comune non crea, ma inghiotte e fagocita i pensieri di chi prova a dare un senso al mondo che lo circonda.

Un disco polveroso quindi, che alza nuvole e saette incrociando Turbo Negro ai Ramones, molto più evidenti, molto però più in primo piano, dove costrutti corporali si intensificano per dare al tutto un approccio fisico, diretto, quasi live a intensificare la scena, a sottolineare l’importanza di un connubio con l’ascoltatore.

Chitarre roboanti che si aprono con Alice in Wonderbra finendo con lo sporco riff di Whoopy groupie, dando un senso circolare all’intera prova, una prova che ha conosciuto la siccità, ma che ora è alla ricerca di un qualcosa di sempre nuovo che la possa alimentare.

 

Lebowski – Disadottati (Autoproduzione)

Autoproduzione per il terzo disco dei Lebowski, dopo le parentesi con Ragno Favero, che concentrano le proprie forze e capacità su di un lavoro che sa di ingegno e follia capace di scardinare gli schemi precostituiti e dare una sferzata di elettro rock contaminato dal funk che stupisce per uso sintetizzato di elettronica non precostituita, ma frutto di un intenso lavoro sia in studio che in sala prove.

Un disco abbondante condito da testi che nel sottobosco si fanno sentire, convergendo le idee verso qualcosa che piace e che si fa solo se il divertimento sta alla base di tutte le gesta musicali che si incontrano lungo gli otto brani, un divertimento scopritore, ironico e sbarazzino, pungente quanto serve per togliere la malinconia facendo però riflettere.

I pezzi che scorrono lungo l’ascolto del disco sono pura quotidianità non proprio visionaria, ma reale, i veristi della società in cui viviamo, il lavoro alla base di qualsivoglia forma di vita manca e a catena i problemi inondano i nostri pensieri e ci sommergono a tal punto da farci inghiottire, il pesce grande che mangia il piccolo, lo squalo della finanza che ci inghiotte, noi convinti pescatori in cerca di una nuova vita, ma costretti ad essere fagocitati dalla stessa, nostra preda.

Un album amaro nella sua interezza, un amaro andante con gioia però, lo sbatterti in faccia che il mondo non va bene con la capacità racchiusa da quella pop song elettronica di nicchia, tra Devo e Kraftwerk, che ammalia e convince.

L’introverso – Una primavera (RuggitoMusic)

Influenze di un oceano passato sdoganato tra navi e uccelli in volo capaci di tramutare la marea e condensare quel poco che avanza in pioggia sovrabbondante a ricoprire i campi, a sperare in un raccolto migliore e a disegnarci diversi almeno per una volta.

L’introverso è una band milanese che al secondo disco esplode, esplode di rabbia e malinconia per ciò che mai saremo e si trasforma in un qualcosa che prende forma lungo l’ascolto degli undici pezzi presenti, tra un rock d’oltremanica che abbraccia gli anni ’90 in modo appariscente, quasi copiato, ma che si appropria di uno stile unico quando parte la voce; il cantato convince raccontandoci di un mondo opulento visto dalla periferia, sottolineando le proprie radici e le proprie aspirazioni, ben lontane dai mondi patinati dei giornali e della Milano bene.

Un disco che racconta di come la vita sia accompagnata dalle distorsioni quotidiane abbondandoci di inutilità svelata che dobbiamo con forza, ogni giorno, cercare di lasciarci in disparte.

Prodotto artisticamente da Davide Autelitano dei Ministri, il disco apre con la bellezza sopraffina di Tutto il tempo per avanzare sempre più fino al gran finale di Una primavera, alla ricerca di tutte le cose perse, del tempo perduto e di quelle emozioni dell’indole umana che sono parti vitali di qualsiasi infinito.

Cesare Ferro – Diverso Splendo (Autoproduzione)

Cesare Ferro è un cantautore che parla direttamente all’introspezione più assoluta, si trasforma  sa raccontare storie che parlano di amori finiti, di speranze da raggiungere e fa che i sentimenti di un giovane uomo si trasformino in un qualcosa di veritiero dando un senso a quel qualcosa, definito dallo stesso autore misterioso, che si chiama musica.

Un disco di pura chitarra acustica e voce con arrangiamenti sparsi che fanno da telaio ad archi ben strutturati, che peccano un po’ di artificiosità, ma nel complesso rendono eleganti le composizioni e il messaggio che l’artista vuole trasmettere.

In bilico tra un Nick Drake solitario e un Micah P Hinson degli esordi, anche se a livello compositivo più solare, il nostro giovane autore trova lo spazio anche per una cover ben ragionata di People are strange del re lucertola.

Un disco che accomuna il senso dell’isolamento con quello della ragione del cuore come unico fine ultimo di un cammino all’insegna della maturazione artistica; siamo sulla buona strada il percorso è ottimamente segnato e la voracità e la fame con cui si inventano canzoni sempre nuove non manca, indi per cui: promosso.

Teo Manzo – Le Piromani (Libellula/Audioglobe)

Disco stralunato o veritiero quello di Teo Manzo, milanese, che nel suo album d’esordio affronta un concept alquanto connesso con la vita reale rappresentando in musica una Legge di Murphy dichiarata e capace di entrarti in profondità sancendo e dando senso tangibile al motto che tutto ciò che può accadere accadrà.

Noi viviamo in un secolo racchiuso da legami e fissazioni, dove l’imporre certi paradigmi che non amiamo e che non voliamo ci portano a compiere azioni e a vivere come formiche in preda ad un delirio esistenziale che non esiste, un delirio di massa e anche di messa che ci costringe ad essere uguali e omologati al pensiero dominante, dimenticando la nostra capacità cognitiva di far fronte a esigenze, seppur nella loro difficoltà, del tutto normali.

Un disco cantautorale che si domanda se la convinzione che la luna stia per cadere può essere reale o frutto di un qualcosa di imposto a cui il popolo è chiamato a obbedire, una storia d’amore che si consuma senza respirare, quasi in mancanza di ossigeno e solo gli occhi, quegli occhi possono ricordare di che cosa siamo fatti, anche se un’allucinazione, un bruciare davanti ad un corpo privo di vita, non è sempre garanzia che ciò che stiamo vivendo sia reale o immaginato, un vivere quindi di un’illusione vitale per un amore che non esiste più.

Disco conturbante e visionario, prova eccelsa come prima prova, ricca di contenuti e sostanza in cerca di nuove galassie da poter esplorare.

 

 

Joseph Martone and the travelling souls – Glowing in the dark (Autoproduzione)

Paesaggi di un tempo lontano calati nel buio e accerchiati da alberi solitari, immensi, inquietanti; case diroccate che si stagliano al far della sera e piccoli fili d’erba sottili si scuotono al rumore del vento, toccando l’aria, toccando i piedi che si muovono senza trovare la giusta direzione.

E poi una luce che trasporta e convince, una luce che fa da veicolo al nostro pensiero e quasi quasi lo trasforma in ciò che ancora non possiamo comprendere, attraverso l’universo: una ricerca costante della luce dove luce non c’è, una carezza e poi la fuga, il partire, l’esigenza di scoprire e riscoprirsi, iniziando da note di chitarra acustica che abbracciano il folk solitario e arrangiandolo  per l’occasione con le persone presenti fin dagli esordi come Tom Aiezza alle chitarre e banjo già collaboratore di Dylan e Young, in un vortice emozionale e ben studiato che fa risaltare la polvere delle strade e il substrato culturale a cui siamo abituati per produzioni di questo livello.

Un disco , un ep di cinque pezzi, affidati all’apertura del singolo che convince Across The universe, per cercare quella pace lontana, quella luce da incanalare che aiuta a non cadere, aiuta a restare.

Gianluca De Rubertis – L’universo elegante (MarteLabel)

Entrare in questo universo elegante è fare un tuffo nel passato quando i cantautori riuscivano ad entrarti dentro come non mai esprimendo una costante ricerca di immagini che riguardano il presente, i nostri vissuti, le nostre aspirazioni e quella tiepida figura, quel tiepido bisogno di casa che portiamo dentro.

Gianluca De Rubertis è abile in tutto questo perché riesce con qualsivoglia disinvoltura a intascare una prova dal sapore d’altri tempi contornati però da tanta classe ed eleganza, cesellando con maestria le parti inutili scomponendole  e ricreandole a proprio piacimento in un continuo dar voce ai ricordi e alle speranze per un domani.

Una voce maschile che tocca le corde di un universo femminile, delicato e introspettivo che nel suo lasciare da parte le fantasie pop porno, anche se solo per un istante, regala tanta sostanza, dimostrandosi un cantautore dallo spiccato senso verista e qualsivoglia capace di creare un universo fatto di metafore, di amori andati a male e di un pop sopraffino che potrebbe essere la musica di un domani migliore.

A duettare in un paio di pezzi appaiono le voci, entrambe conturbanti, ma efficaci, di Amanda Lear e di Mauro Ermanno Giovanardi, rispettivamente in Mai più e Magnifica notte, lasciando il posto poi alla riuscita, di Fantiana memoria, Chiedi alla polvere fino a concludere il viaggio con Quello che resta.

Disco egregio che sa di storia, inutili altre parole, i testi di Gianluca sanno raccontare tutto ciò che gli occhi non riescono a vedere.