Alberto Mancinelli – Lucine intermittenti (Autoproduzione)

Alberto Mancial03nelli è un cantautore blues con spiccato stile vintage tanto da entrare con la sua voce roca e impostata nel limbo dei tenebrosi;  il tutto è condito da situazioni semplici: un basso, una batteria, un’acustica e un’elettrica con sprazzi molto old-west.

Il siciliano trapiantato a Padova registra, dopo numerose situazioni con gruppi più o meno noti, queste 7 tracce in un ep più ricco rispetto all’originale “Lucine intermittenti” formato all’inizio soltanto da 4 canzoni.

In se l’album è una reprise, un aggiornare pezzi della memoria, dei suoi vissuti, un diario quasi intimo e bucolico dove all’interno vivono gli spettri di un passato che per Alberto sono mostri da esorcizzare contro il comune cliché.

Ecco allora che le canzoni da stuzzichini vengono disintegrate da bellissimi interventi in “Chiedi” o come nella luce colante di “Corsia d’emergenza” o nella dolce “Formalità” in cui occupare spazi differenti ti porta a proseguire su linee parallele.

Altro pezzo degno di nota “I furbi” che ricorda il Gaetano crotonese che rilascia divagazioni eteree mentre la chiusura è affidata alla kuntziana centrale elettrica “Dolce venere dell’etere”.

Un demo veramente ben fatto che apre le porte ad un cantautorato che riesce con egregia maestria a spazziare tra vari generi e con estrema facilità incanalare un pensiero non sempre chiaro e che affonda radici nel substrato culturale italiano.

Una prova matura questa,  conseguenza di un modo di intendere la vita fuori dagli schemi imposti quotidianamente.

Nastenka aspetta un altro – Preti pedofili ep (Autoproduzione)

nastenka-aspetta-un-altro-musica-streaming-split-epE’ il risultato di accorgimenti e prese di posizione così lontane dal mondo del mainstream e così gratificanti che altro di meglio non ci si poteva aspettare dalla collaborazione in questo minì split – ep di “Nastenka aspetta un altro” e dei già conosciuti precursori “Preti Pedofili”.

I colori si uniscono indivisibilmente cercando una tonalità comune che nella diversità e contrapposta scelta stilistica ricava una commistione unica e rara nel panorama underground italiano.

“I Nastenka aspetta un altro” aprono coverizzando la traccia “Impero” dei secondi preannunciando note acide e prolungamenti post rock per lasciare lo spazio a “Patto con la bimba bianca” in cui Clementi e Offlaga prendono un te sulla riva di un mare in tempesta chiacchierando con Gatto Ciliegia.

I secondi “Preti Pedofili” in traccia 3 prendono in prestito “C’est femme l’autre mon de dieu” pezzo dei Nastenka che suona molto più cupo e agghindato dalla voce cavernosa del sempre presente Strippoli, derive molto metalcore in “Cancro” animale dal cuore reciso e abbandonato.

Si sconfina in questo split, si parte con stile per raggiungere profondità cavernose e rumorose che fanno da ambient per un horror movie si serie A, la Puglia si rivela con questo cd lasciando presagire che tanto di buono si può incanalare con la volontà e la capacità; unire il bianco al nero, il vecchio e il nuovo per una più facile comprensione della vita circostante.

 

Bruno Bavota Ensemble – La casa sulla luna (Lizard Records)

Rara bellezza e genuina voglia di vivere si riscontrano in questo prezioso lavoro di Bruno Bavota, compositore napoletano e pianista d’eccellenza di nemmeno trent’anni.

Per l’occasione si aggh512vjivDcrL._SL500_AA280_inda a festa e con lui riunisce un ensemble di musicisti quali Marco Pescosolido al violoncello e Paolo Sasso al violino, donando ai brani quel gusto retrò e malinconico unico e inconfondibile.

La somiglianza con l’italianità di Einaudi è evidente anche se Bruno utilizza l’eredità del minimal piano passando da autori come Philip Glass, Jan Swerts o del greco Christos Kapenis e centrifugando il tutto aggiungendo tocchi di stile personali e lucenti, quali cavalcate infinite e refrain memorabili.

Non risulta facile recensire un album di questa levatura, quali siano poi i gusti musicali di chi lo fa e in secondo luogo di chi ascolta, ma questa è musica che parla alla natura in modo simbiotico toccando inevitabilmente i tasti degli affetti e delle passioni dell’anima.

E’ impossibile non lasciarsi trasportare da composizioni quali “Amour” o “Il dito si muove sul vetro appannato” o da titoli più evocativi quali “C’è un cinema laggiù” o “Il sole di domenica” ; certo è che questo ragazzo sta preparando la strada a un nuovo futuro italiano.

Chissà che cosa avranno pensato gli esperti di settore dopo averlo selezionato tra migliaia di artisti per suonare alla Royal Albert Hall di Londra in occasione dell’Accidental Festival; si saranno chiesti inevitabilmente il luogo di provenienza di questa musica non trovando risposta alcuna.

La reazione sembra invece alquanto naturale: un giovane uomo con i suoi 88 tasti che fanno sognare anche gli avvezzi agli incubi; una piccola casa, una città dormiente e una luna che le sta a guardare, questo è il luogo dove ognuno di noi vorrebbe riposare.

Yast – Yast (AdrianRecordings)

YAST-YAST-1500x1500-300x300Ennesimo album per la band emergente svedese, gli Yast, che già dal primo ascolto ammaliano e stupiscono, sia per la qualità sonora che per l’offerta di stile.

Di elettro – pop si tratta, come per i “cugini” This is head, anche se qui le canzoni suonano molto più semplici e dirette, contornate da melodie solari e tocchi di magnifica presenza elegante e orecchiabile che prendono spunto da passaggi Bluriani e dagli ultimi seguaci di Corgan e seguenti, come Zwan.

All’ascolto ti sembra di percepire una band navigata che riempie immensi prati e invece stiamo parlando di un gruppo emergente; possiamo quindi sottolineare  l’ampia prospettiva ariosa di sonorità internazionali e la capacità di mirare ad un unico punto di convergenza che vede l’incontro di voci in falsetto e chitarre leggermente distorte senza eccedere troppo in un’effettistica pesante e pacchiana.

Un’offerta molto gradevole, dunque, che scorre lungo le 11 tracce in una spiaggia ricca di vegetazione dove poter ogni tanto fare un tuffo in mare, un tuffo che gli Yast compiono, ripercorrendo e traendo spunto dalla scena rock internazionale targata anni 90, come nella Title Track o nella verdeggiante “I wanna be young” , per lasciare spazio a derive più folk in “Believes”.

Un plauso dunque anche a questi giovani svedesi che di numero da band emergente possiedono soltanto gli apprezzamenti in facebook, nella speranza che qualche band italiana legga questa recensione ascoltandosi il cd e approfittando dell’occasione per imparare qualcosa.

Allarghiamo i confini, affiniamo la tecnica, lasciamo da parte l’orgoglio.

This is head – The album ID (AdrianRecordings)

Ogni singola nota è stata ricomposta e creata per dare idea progressiva di una matrice mai stanca di innovarsi quando il rock indipendente sembrava morto e sepolto, logorato da tagli troppo profondi di giornalisti e critici della prima ora troppo avvezzi a stimolare parti neuronali lontane dal savoir fare e intrise di puro spirito dilettantistico.

I 4 rinascono da une sepa13702razione, la fatica di ricominciare, quando si è soli tutto in qualche modo sembra perduto; un lavoro fatto di cesello e perfezione questo “The album ID”.

Gli svedesi stupiscono con le loro sonorità, dal freddo sbarca un elettro-pop che scalda l’anima, ascolto dopo ascolto: provare per credere.

Tu puoi percepire ogni singola canzone e non ricordarti, alla fine, il motivo portante; io lo definirei pop-intellettuale in quanto non scade mai nella banalità e neppure nelle divagazioni tipiche di un suono tanto italico che ricorda la regola: se fai parti strumentali con cambi di tempo sei figo altrimenti caro sei fuori.

Legno e pietra sommersi da acqua che porta tutto con se, canzoni come”Staring Lenses” sono riempi-stadi, poi troviamo i cori e  le eccheggianti sillabe ripetute e sostenute da tappeti di riff semplici, ma efficaci in  “Illumination”, “A B – Version” è elettrizzante quanto basta per gridare al miracolo, tutto il disco è concentrato di Arcade Fire, MGMT coadiuvati dalla migliore scena indie-rock del momento.

La favola continua con “Time’s an Ocean” dal sapore marittimo e ricca di riverberi solari che preannuncia la sperimentale “Summertime”, degna di nota la finale “If I” che prenda spunto da film di Felliniana memoria per varcare la porta dell’infinito.

Henric, Tom, Adam e Bjorn raccolgono tutto ciò che di meglio si può trovare ora per riprodurlo in un unico disco dal sapore elettrico con sferzate pop curate al dettaglio, possono tranquillamente spedire una cartolina al migliore produttore di questa terra e dire: ti sei dimenticato di Noi vienici a trovare, ma vestiti leggero, qui in Svezia fa molto caldo.

Guarda il video della loro traccia:

A B – Version video

Shed of Noiz – Re: Son (Autoproduzione)

Entrata trionfale per i Shed of Noiz che con questo album mettono una firma tangibile sulla lastra di granito della musica stoner/hard rock/progressive in Italia.

I 4 completano 592179_149987108493172_1238098065_nun ricco quadro che lungo le 8 tracce meraviglia i palati più raffinati con parti strumentali risultanti mai ovvie, richiamando costantemente la  linea guida dell’intero lavoro,  fatta di terreni aridi dove far crescere piccoli fiori .

Dopo 2 ep e numerose attività dal vivo, con apparizione nel live livornese dei Ministri, Luca Bicchielli alla voce, Dario Sardi alla chitarra, Giulio Panieri al basso e Mattia Salvadori batteria maturano una coscienza che si fa strada,  rispetto ai precedenti esordi, con un cantato italiano  e con una vena poetica marcata dal sapore leggermente retrò.

Nel  loro bellissimo lavoro possiamo ascoltare  A Perfect Circle che osservano da lontano QOTSA e Tool dietro nuvole di vapore sulfureo.

Grandine, dico io, penetrante che scalfisce, come le chitarre distorte in power chord, affilate da una sezione ritmica da brividi, capace di consegnare la giusta emozione nel giusto momento.

I 4 livornesi in questo lavoro abbracciano la coralità, l’uso di più voci a sottolineare e a dare un senso alla loro idea di musica.

“Re: Son” è degna delle migliori entrate da film, poliedrica poi la sensuale “Innoqui”, pezzo da “Requiem” di Verdeniana memoria lo ascoltiamo in “Immutevole” capitanato dalla seguace e dolce “Corri Dora”.

Martellante “Psico Area” contorniata da impulsi beat che fraseggia con “Aurora” scritta da Luca Bicchielli che ci concede attimi di follia per annunciare la canzone più riuscita del disco “Senza peso” un cantato sussurrato dove le voci si amalgamano  in un’unica poesia.

Nel finale chiude bene l’iraconda “Infetto”.

Crescendo si matura e in questo caso il suono si fa energia e melodia, un connubio perfetto per questi giovani cha hanno saputo miscelare il cantato in italiano e cristallino con il gusto stoner-oltreoceanico, creando un piccolo gioiello di rara intensità.

Droning Maud – Our Secret Code (Seahorse recordings)

E’ un album completo,  ricco di divagazioni post-rock di puro stampo arioso con interventi elettronici da far aizzare anche il più distratto degli ascoltatori.

Quello dei Droning Maud è un droning-maud-musica-streaming-our-secret-codedisco che lascia il segno sotto numerosi punti di vista.

Il concetto dominante, l’idea di fondo, è una cavalcata continua di sapori rock contaminati dalla musica che prende iniziativa di un suono carico di riverberi e atmosfere.

Già dal nome del produttore del disco, Amaury Cambuzat, il lavoro non può che prendere determinate vie legate alla sperimentazione e alla sorpresa sonora.

In “Our Secret Code” si ascoltano Mars Volta, Radiohead, gli italiani Giardini di Mirò tanto per citarne alcuni; trovano spazio, inoltre, interventi vocali degni del miglior Aaron Lewis creando  quel concentrarsi di suoni, difficile da concepire, tanto la trama si rende fitta ad ogni ascolto.

“Sun Jar” apre le fila con cadenzato battere delicato, poi “Ghost” fantasma svanito nel mare che raccorda la meravigliosa “Nimbus” fatta di stelle e arpeggi.

L’altro spunto degno di nota si trova nella corale “Now it fades now it’s gone” e cosa possiamo dire della retrograda “Led lights” che guarda al passato con una mano aperta al futuro?

“The great divide” apre alla finale di contrappunto stilistico “Oh Lord!” dove la scelta è definizione di resa e perdono.

Questi 4 laziali sanno che cosa vogliono dimostrandolo con questo album, che si discosta dai precedenti ep, sia nel campo estetico e di suono che in quello dei contenuti; una prova dal sapore onirico capace di creare quel giusto appeal in tutte e 10 le tracce, portando noi umani a carpire divagazioni mentali con un occhio teso al passato e una linea d’attacco diretta al futuro. Notevoli.

 

Fusch! – MONT CC 9.0 FIRST ACT (Jestrai)

Se con il precedente “Corinto” ci si chiedeva il pianeta di provenienza di questa band stellare ora con “Mont Cc 9.0 FIRST ACT” il dubbio è riposto in un angolo per lasciare spazio a sonorità di sicuro impatto e a vie segnate e continue.

I 4 bergamaschi rispolverano le  tute spaziali e ci consegnano 5 lunghe strade quasi del tutto strumentali per raggiungere galassie nascoste e inesplorate.

Il suono è una commistimont-cc-90-first-act-fuschone di generi soffocato da interventi atmosferici di deflagrazioni chitarristiche e sintetizzatori calibrati e sinceri che non scadono nell’ovvietà, ma che esaltano un cerchio in via di definizione  che si apre e si chiude nel migliore dei modi grazie anche al supporto di una solida base ritmica.

L’imprevedibile “Broken T-shirt” ci annienta con voci dall’oltretomba, mentre “Sbando alle Mancerie” è un gioco di parole da film di Tarantino dove la sonorità si sposa benissimo con la sequenza della pellicola.

“Sintesi” è eruzione vulcanica e orgasmica in progressione mentre “Cosmogenesi 9.0” è atterraggio senza fine; chiude l’ipnotica “Catherine Deneuve” a donare sprazzi di trombettistica follia.

E’ un progetto particolare il loro, composto da 3 atti, questo è il primo, che spero ci riserverà numerose sorprese come del resto lo è stato il disco d’esordio.

Un progetto diviso in tre che ci consegna le prime 5 strade per raggiungere lo spazio abissale, un rincorrere meno cupo il buio che avanza, un sodalizio tra sperimentazione e motori d’avviamento, per raggiungere, ancora, il pianeta “Fusch!”.

Chiara Jerì, Andrea Barsali – Mezzanota (Autoproduzione)

Con “Mezzanota” il cantautorato è uno sciogliere di antica poesia e parole che si scagliano vibrando aria di stagioni dimenticate, dove il bel canto la faceva da padrone e la poesia toccava intime corde regalando all’ascoltatore un altro pianeta dove porre le proprie radici e riposare allo spuntare del sole.

Chiara Jerì e Andrea Barsal1363961894Mezzanotacopertinawebi sono due che conoscono molto bene la canzone d’autore italiana e si ritagliano un posto importante sia nell’interpretazione di pezzi storici come “La donna cannone” di De Gregori, “Canzone II” di Pippo Pollina e “Fino all’ultimo minuto” di Piero Ciampi, sia nell’approccio di canzoni originali che il duo chitarra e voce propone senza scadere nella retorica e nella semplicità.

Le influenze stagionali si sentono eccome, primo fra tutti Fabrizio De Andrè che gioca a loro favore dopo la vittoria con il brano “Notturno dalle parole scomposte” del concorso nazionale “Un notturno per Faber”; tra i principali richiami italiani alla scomparsa del grande anarchico cantastorie.

Una poesia quindi che si fa struttura essenziale in una chitarra e una voce calda e accogliente, ma velata di raffinata aggressività in canzoni che prendono il sopravvento lasciando spazi a ricordi sospesi e disincantati.

Palpiti di attesa riecheggiano in “La ballata della ginestra”, mentre pace all’imbrunire si respira in “Notturno  dalle parole scomposte” che fraseggia perfettamente con gli arpeggi di “Innesco e sparo”.

Compito superato a pieni voti con la chiusura di “Vorrei”, nostalgico grido carico di rimpianti.

Ai due musicisti il merito di aver abbandonato le cover band da stuzzichini in fase aperitivo per andare alla ricerca continua di una strada d’autore personale e originale, con un tocco di classe raro e meritevole di nuovi traguardi.

 

Gli Altri – Fondamenta, Strutture, Argini (DreaminGorillaRecords – Taxi Driver)

Rabbia, questo è il concetto di distribuzione-vita de “Gli altri”, che fanno dei suoni pesanti il loro marchio indelebile di fabbrica quasi a dimostrare una maestosità capace di bruciare idee di punti fermi, che se in un primo momento risultavano statiche ora rinvigoriscono per conglobare macerie e per ricostruire il distrutto.

Un bellissimo disco di stonefondamenta-strutture-argini-gli-altrir rock, mai banale e mai prevedibile; l’ascoltatore è risucchiato da un vortice continuo di suoni-emozioni che a lungo andare stabiliscono un contatto con la realtà di tutti i giorni, quasi ad essere un affresco marchiato con il sangue di un’ ingiustizia che ci accomuna e ci divora.

Si perchè “Fondamenta, Strutture, Argini” oltre ad essere un nome altamente chiarificatore è anche un inno per i 5 savonesi che gridano la loro protesta ,capitanata da uno sputo in faccia al vivere corrotto, dove la lotta si fa portavoce di parole; rivolta questa battaglia ad un male endemico da debellare.

“Non sento più cosa sono “ si canta in “Oltre il rumore” mentre la consapevolezza-disincanto fa eco in “Il mio spazio possibile”.

Quando si pensa di aver trovato una via di fuga ci si piega “All’orizzonte” al silenzio dei cantieri costruiti nella notte.

La strumentale perlacea e kuntziana “06:33” accompagna l’entrata roboante di “Le difficoltà del volo” altro elogio al liberarsi dai soprusi quotidiani, mentre “Instanbul” narra senza parlare vicende di guerra e riprese cadenzate da riverberi echeggianti.

“Cera” è amore al vetriolo, la canzone più riuscita, un post rock dal sapore arabeggiante, che si apre a magnificenze sonore di notevole livello lasciando spazio alla fiaba ingravescente de “La falena”.

Se De Andrè fosse ancora vivo griderebbe al miracolo: nella “Buona Novella” il canto-disincanto era origine di un male interiore che doveva essere combattuto in nome di una rivoluzione pacifica e dimostrabile attraverso una morale unica, in “Fondamenta, Strutture, Argini” si analizza un periodo privo di certezze e modelli da seguire, fatto di egoismo e noncuranza in attesa che la direzione da seguire non parta solo ed esclusivamente da “Noi”, ma anche da “Gli Altri”

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