EUA – Tanto valeva viver come bruti (Autoproduzione)

Questo è un album che non dimenticherò facilmente.

Questo è un album coraggioso a dismisura.

Questo è un insieme di strutture che intensificano fraseggi di canzoni divertenti, sarcastiche e memorabili.

Questo sono gli EUA band emiliana che a sei anni dall’esordio, regala agli ascoltatori un album decisamente fuori dal coro e ricco di quella genuina allegria che a dire il vero un po’ mancava nel panorama nazionale.

Stanchi, immagino anche loro, dei cantautori che cavalcano la scia e fatti con gli stampini del didò, gli EUA mettono insieme un concept album sulla libertà, l’amore e il disincanto, ma allo stesso tempo percepiscono la protesta come forma indispensabile per poter progredire.

Un album quindi ricco di canzoni tormentone che sembra quasi un doppio, anche se non lo è, infatti è suddiviso in due parti principali “Disomogeneizzati” che potrebbe benissimo essere il Lato A, mentre “Poemi Euico-cavallereschi” il Lato B o meglio la parte più riflessiva e introspettiva del tutto.

Sei ragazzi per quattordici pezzi che volontariamente, direi io, hanno cambiato il modo di fare musica, dimenticando l’oscuro come territorio di sperimentazione e facendo intravedere la luce ad ogni singolo secondo di musica.

Debitori di un suono alla “Elio e le storie tese” con cambi vertiginosi di stile alla “Frank Zappa” gli emiliani ci lasciano pezzi memorabili come “Extrasistole” o “Cooperativa sociale”, per calarsi poi in territori extraterrestri con “Cinematica dei manipolatori” o in sublime malinconia con “Stella d’inverno dell’ovest”.

Un disco da ascoltare più volte, che in qualche modo rispecchia uno stile di vita a denuncia di un popolo, il nostro, che è ancora troppo legato ai cliché.

Un passo avanti quindi, reso possibile abbattendo stereotipi e raccogliendo il meglio per il futuro.

Acid Muffin – Nameless (Autoproduzione)

Energia allo stato puro dove pietre targate ’90 sono scagliate per frantumarsi in numerose e sempre nuove parti che riescono a ricondurre il tutto ad un qualcosa di nuovo, ad un qualcosa di autentico.

Questo Ep trasuda dolore, quel dolore vero che porta alla continua ricerca di noi stessi e all’ineguagliabile strada che conduce verso l’infinito.

Musica di alto spessore dove i muri di chitarra grunge si intensificano con fraseggi più rock suonato e oscuro, a riempire vuoti incolmabili e attenti al colore più vero e reale.

I tre romani regalano un esordio con il botto che parte con sonorità alla Soundgarden nell’apertura “Around the Hole” per toccare nelle successive ibridi di follia eccellente con echi di Stone Temple Pilots e Alice in chains.

“Bones” ricorda il Vedder di Yield mentre il finale affidato a “Notthing inside” non delude, creando atmosfere rarefatte complici di un ottimo appeal vocale e strumentale che porta ad una fusione unica i vari strumenti.

Un disco convincente e quasi inaspettato, maturo e coinvolgente, che ci fa tornare indietro di un paio di decenni facendoci sognare sui palchi della Seattle romana.

BluNepal – Follow the sherpa (GreenFogRecords)

blunepalE’ sempre difficile recensire un gruppo che fa musica strumentale.

Tralasciando i generi o le scelte stilistiche di qualcuno, l’immedesimazione soggettiva è vitamina essenziale per completare l’ascolto a tavolino di un disco privo di cantato e privo di quella, passatemi il termine, semplicità, con cui l’ascoltatore può entrare nella canzone.

Nonostante questo questi BluNepal sanno quello che fanno e lo sanno fare molto bene.

Il trio Genovese/Milanese si lascia trasportare da correnti che legano in maniera indissolubile il post rock con il prog rock.

Mescolare generi e suoni non è facile, e questo “Follow the sherpa” è un lavoro di cesello composto da cura maniacale per la scelta stilistica di suoni vintage ben inseriti in un contesto che guarda al futuro.

I tre: Agostino Macor ai vari sintetizzatori, Federico Branca alla batteria e percussioni e Paolo Furio Marasso al basso, riescono a ricreare un’atmosfera cupa e decadente quasi da film poliziesco che si esalta in brani come “Still Follow the sherpa” che riprende la dirompente title track, mentre  sensazioni di immersioni in un mondo lontano si hanno con “Fake” o con l’ipnotica “Morricone”.

Un disco per  puristi certamente, ma anche un disco quasi perfetto dove diverse strade si possono incontrare in un finale aperto, quasi inaspettato: chiudiamo gli occhi pensiamo alle alte vette che sfiorano il cielo chiedendoci se possiamo fare a meno di seguire lo sherpa. La risposta è no.

La linea del pane – Utopia di un’autopsia (QB Music)

http://www.rockit.it/copertina/24303/la-linea-del-pane-musica-utopia-di-unautopsia.jpgCosa può arrivare dopo una giornata cupa fatta di nuvole scure e tetre dove un dipinto non può essere che contorno a un cementificio a cielo aperto?

“La linea del pane”, band milanese, è un concentrato ben studiato di cantautorato che si porta con sè il peso degli anni dove la musica d’autore regalava emozioni a non finire, ad ogni ascolto.

Perlustrando nei meandri l’intensità di questa band, si possono sentire echi di “Non voglio che Clara” più elettrifcati, toccando apici Kuntziani dove il Cristiano di turno si esalta scrivendo testi di immacolata bellezza e simbiosi con chi ascolta.

Un disco che suona perfetto stilisticamente, alcune canzoni mi ricordano il miglior Graziani; quelle canzoni da canzoniere che vorresti trovarti a cantare ogni giorno tanto efficaci quanto durevoli.

Allo stesso tempo gli 11 brani sono un viaggio interiore difficile da comprendere fino in fondo, ma così deve continuare ad esserlo; ciò che non è svelato nell’immediatezza sa regalare sempre delle piccole positive sorprese.

Ed ecco quindi un disco che inizia con i toni soft e velatamente pop di “Apologia della fine” per concludersi nella dolcezza di “Solstizo d’inverno” dove Teo canta l’anticipo è in ritardo e il Natale è già in Novembre, a sancire l’abitudine di anticipare i tempi senza vivere realmente il presente.

Un album che racconta con stile la decadenza inconscia del mondo.

Se solo potessimo avere maggiori sorprese di questo livello, se…

 

 

Madaus – La macchina del tempo (Autoproduzione)

Parlare di capolavoro succede poche volte qui su IndiePerCui, anche perchè altrimenti vivremo in una bellezza accecante dalla quale non potremmo uscirne.

I Madaus rientrano in uno di quei gruppi che solo attraverso poche note iniziali fanno comprendere le loro capacità e la loro poliedricità nello spaziare con facilità da un genere ad un altro senza la minima fatica o pesantezza.

“La macchina del tempo” è un disco carico di fascino vintage, nonostante questo termine sia super abusato in questi anni, è un disco che brilla di luce propria, semplice, ma allo stesso tempo bellissimo.

Un concentrato di blues, bossanova e cantautorato in primis in cui le tenebre sono spazzate via da una voce elegante e mai gridata, che entra in punta di piedi e ci copre fino a renderci partecipi di un calore nuovo e inusuale.

Un’insieme di ballate introspettive che guardano agli ultimi con la speranza che il dovere non sia solo parola al vento, ma punto di partenza per costruire un diverso futuro.

Canzone emblema sicuramente la title track, ispirata dai graffiti che Oreste Nannetti, degente del manicomio di Volterra, incise sulle mura del padiglione dove viveva.

Un disco che sicuramente li renderà protagonisti di questa annata, dopo aver vinto il Premio Ciampi e gli inviti al Tenco e al premio De Andrè, i Madaus si ritirano con eleganza nelle loro storie, storie di tutti i giorni dove i protagonisti sono persone comuni, che cercano con umiltà il loro spazio di vita.

Yumma Re – Sing Sing (Monochrome Records)

Sing SingIl Sing Sing è un palazzone costruito intorno agli anni ’30 che, essendo senza balconi, ricordava forse vagamente il carcere di New York chiamato appunto ‘Sing Sing’. Un palazzo aperto, dove la vita si svolgeva sui pianerottoli, dove i problemi e le gioie dei singoli erano dell’intera comunità che lo abitava”.

Una partenza dai ricordi della band che racconta le contraddizioni di un’Italia da cambiare partendo dai momenti più sentiti e vissuti del gruppo campano, che alla nuova uscita discografica regala emozioni sonore che si divincolano con velocità straordinaria nel traffico metropolitano.

Dieci pezzi di ricercatezza elettronica in cui l’indie più sfrontato si sposa con eleganza al cantautorato e al rock d’oltreoceano, i testi anche se in lingua inglese denotano una maturità da preservare e che colpisce bene il segno.

A tratti sembra di ascoltare echi di Bjork, mentre altri momenti si collassano in ballate Radio Testa dei primi album senza dimenticare Air e i nostrani Joy Cut.

Un album che regala gioie inesprimibili nella trattazione di argomenti non sempre facili da digerire, un continuo crescendo che esplode in frammenti stupendi con “I have a gun” e “You let me down”.

Questa band meriterebbe di essere ascoltata solo per ciò che viene raccontato nelle loro storie-canzoni, un volto storico, ma al contempo nuovo dell’underground italiano, dove poesia si mescola all’oscurità e sinceramente di questa formula non posso che rimanere stupito.