Gold miners night club – Gold miners night club (IndieBox)

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Riff geografici che si attestano negli States di un tempo passato, inglobano carne, sudore ed energia per prorompenti paesaggi che delineano le caratteristiche di una musica immediata che ben si sposa, attraverso un ponte orbitale, rotante con i suoni dei Led Zeppelin, Black Sabbath fino ai più recenti White Stripes e Arctic Monkeys in un susseguirsi di immagini prive di ogni fronzolo e assiepate in formule mai lineari e mai aggressive, ma piuttosto incanalando attenzione per bisogni che comprimono, bisogni che si fanno sentire oggi più che mai. I Gold Miners Night Club sono un duo esplosivo dalla provincia di Brescia che grazie a questa prova riesce a dare vita ad un piccolo sunto a suon di rock impattante di uno stato d’animo che forse ci coinvolge da vicino, un hard  rock sostanzioso che prende le distanze dalle impomatature moderne per concedere una vitalità che sa si di già sentito, ma anche e soprattutto di nuova e genuina freschezza. Ad attestare tutto ciò ci sono pezzi come l’apertura affidata a Gummy eyeballs per poi passare e scivolare in pezzi come I live my life o Rock’n’roll song fino al finale lasciato a Funeral Party. Ironia quindi, ribellione e contrasti rendono questa prova piacevole e ben strutturata, capace di rispolverare appieno un genere di qualche decade fa, senza strafare, con le dovute cautele.

Giovanni Peli – Gli altri mai (Ed. Mus. Ritmo&Blu)

Cantautorato per ambienti poco arredati dove la luce fioca di una Primavera che tarda ad arrivare si insinua lentamente tra la polvere dei libri più belli lasciati a vivere sopra ad un comodino di cose lasciate mai al caso, ma vissute appieno ricordando in qualche modo le proprie radici, ma nel contempo uscendo dal coro in maniera naturale, impercettibile, inondando le forme createsi dall’ascolto di queste canzoni con meraviglie acustiche pensate per coprire la distanza tra i giorni, la distanza tra il fare e l’amore, dove i sentimenti riescono ad imbrigliare l’anima per trasformarsi in canzoni che hanno il sapore del tempo passato e di un sottile legame con il presente. Tra Luigi Tenco e I Non voglio che Clara il nostro Giovanni Peli, autore e musicista bresciano, riesce a trasformare le canzoni in cassa di risonanza per le ore del giorno identificandone contenuti con pezzi simbolo di una creatura in divenire, attenta ai gesti, attenta alle parole, da poeta navigato a chansonnier fuori dal tempo il nostro intasca una prova che si muove tra le nebbie dei nostri mondi alla ricerca di un paesaggio da poter scrutare nitidamente.

Il diluvio – Il diluvio (Autoproduzione)

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Lande desolate dove il buio sembra vincere su tutto il resto, un tripudio di colori che abbracciano l’intensità del vuoto e ammaliano di luce grazie ad arpeggi che parlano e partono direttamente da altri mondi, si fanno veri in una ricerca testuale che comprende il nostro vivere dissimulato su spazi profondi, in attesa della pioggia che verrà, in attesa di quel salto nel vuoto da poter apprezzare, vivere e completamente abbandonare per lasciare spazio a nuovi slanci poetici, per un indie rock, questo della band bresciana Il diluvio  che sa apprendere da tutto il filone malinconico indie di band come Radiohead su tutti passando per la velata amarezza dei Fleet Foxes in un ep di cinque pezzi che racchiude la forza intrinseca dei viaggi nello spazio, il bisogno di fuggire per non vivere di rimpianti e quella rassicurata certezza che prima o poi l’acqua tornerà per lavare le nostre ferite, per farci dimenticare, anche solo per un momento la nostra finitudine.

Marydolls – Tutto bene (Autoproduzione)

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Deriva utopistica che intasca la lezione del tempo e ingloba ad arte i pensieri dei giovani di adesso, parlando con la voce di chi vive nella quotidianità e per la quotidianità annienta qualsivoglia forma di menefreghismo e si lancia a capofitto nelle costante ricerca di valori da far comprendere, da poter capire per instaurare, attraverso un tessuto sociale disteso, un rapporto, un legame capace di creare continuità con lo spazio in cui ci troviamo parlando una lingua comprensibile, schietta, diretta e senza mezze misure in una sostanziale ammirazione per il rock sintetizzato e una ricerca contestuale che si fa soggettiva proprio nei pezzi che compongono questo nuovo lavoro dei Marydolls, ban bresciana capace di comporre un album che ha grinta da vendere e sogni e speranze da mantenere, intrecciando musicalmente la lezione di band simbolo come Ministri e Verdena e facendo assaporare miscugli di tempeste in musiche ben studiate che si aprono con il tormentone Voglio essere giovane fino a lasciarci con La parolina giusta, passando per pezzi importanti come il singolone Berlino in una continua destrutturazione di forme e parole in grado di dare senso tangibile ad una proposta che non ha nulla da invidiare a produzioni odierne più blasonate.

Bad Dinosaur – Bites (Autoproduzione)

Risultati immagini per bad dinosaur bites bresciaQuattro ragazzi provenienti da un’altra epoca che si inerpicano su di un palco poderoso a suon di rock e belle speranze tra attese e rimpianti, ma soprattutto con tanta energia che si respira nell’aria, che si capta nella condizione esistenziale del momento e nelle bellezza della genuinità della proposta caratterizzata per schiettezza nelle stesura dei testi e nelle capacità diretta di dare un senso ad un filone di ribellione che coinvolge abbracciando il bisogno del sound post ’70, Clash su tutti, con qualcosa di più moderno e accattivante per un piccolo disco, un Ep, cinque tracce che vedono il gruppo bresciano sperimentare perfezioni analizzate dalla ruvidità, dall’alchimia necessaria nel ricreare di getto pezzi come Nothing to tell o la riuscitissima Napoleon is the cat, quest’ultima episodio più importante del disco, per un lavoro smussato a dovere, un suono primitivo, agli albori, quel suono preponderante e unico che fa muovere il corpo, senza domandarsi troppo, un suono intriso di sane vibrazioni continue.

-LIVE REPORT- Ermal Meta – Latteria Molloy – Brescia 04/11/16

Latteria Molloy, Brescia, 2016, posto stupefacente, un club molto ben congegnato che nel suo piccolo ha tutte le carte in regola per far da punto di riferimento, al nord, come spazio per eventi di una certa caratura, due piani, dove di sopra si mangia e strutturalmente è presente una grande apertura, che permette di vedere il palco direttamente dall’alto, con una vista per così dire aerea suggestiva e quasi essenziale per gustarsi del buon cibo e per i più fortunati, con il tavolo vicino al parapetto, di potersi guardare il concerto mangiando; ora direte voi, ma da quando in qua si guarda un concerto seduti mangiando se non stiamo parlando di un lounge bar da stuzzichini? Ecco qui c’è anche questa possibilità.

Dopo un momento, direi alquanto interessante, dedicato da Musica da bere, nell’intervistare i protagonisti della serata, sale sul palco la spalla di Ermal Meta, Andrea Amati, cantautore e soprattutto autore di testi per Nek, Annalisa, Irene Fornaciari, Marco Carta, il live set parte subito con un po’ di imbarazzo, visto che la chitarra sembra priva di segnale, ma il nostro emozionato si accorge di non aver alzato il volume dello strumento stesso; passata l’impasse generale, Andrea, accompagnato da un chitarrista, snocciola cinque pezzi puramente pop con testi non troppo incisivi, ma probabilmente apprezzati dalla stragrande maggioranza dei presenti in sala, il suono che ne esce tuttavia non risente di grandi imperfezioni e l’acustica del compagno è un’arma vincente a favore del risultato finale; riti di congedo e dopo il quarto d’ora canonico di cambio palco arriva l’ospite principale della serata.

Ermal è cresciuto e si vede, non solo in età, lo avevo lasciato ad un concerto con La fame di Camilla nel lontano 2011 all’Home Festival di Treviso, dimesso, introspettivo, una creatura che doveva ancora maturare, ma nel contempo con una forte capacità estrinseca di rendere il suo personaggio, già a Sanremo, al tempo, con Buio e Luce, un leader di una band in tutto e per tutto indie, tra sonorità impreziosite da un comparto tecnico molto valido ricordo e da un appeal che in qualche modo aveva stupito anche gli accorsi alla serata; suonavano tra Ministri e Verdena, non di certo gli ultimi arrivati in fatto di qualità della proposta e il gruppo pugliese riuscì a far parlare comunque di sé.

Il tempo passa e noi con lui, questa è la data 0 del tour Umano, i presenti, circa 300, hanno un’età abbastanza omogenea, adolescenti si, ma anche qualche signora attempata che alza la media, i suoni che escono dai cinque musicisti presenti sono alquanto strutturati, amalgamano molto bene la lezione dei Radiohead dei primi album, Pablo Honey e The Bends su tutti spruzzando qua e là manciate di elettronica campionata a valorizzare la proposta stessa che vede pian piano evolvere il concerto tra ritmi più sostenuti e momenti emozionali, Marco Skeggia Montanari sa il fatto suo e gli arpeggi e i delay che ritraggono paesaggi circostanti donano valore aggiunto alla composizione dei brani, ottimi quindi anche i suoni degli altri musicisti anche se almeno in un paio di occasioni la musicalità di base tende ad impastare il tutto a discapito della bella e incisiva voce di Ermal.

I successi scorrono uno dopo l’altro, nella scaletta appare anche una Street Spirit di oxfordiana memoria non eseguita, punti alti da raggiungere e mai completamenti vissuti fino in fondo, anche se tormentoni come Odio le favole, Buio e Luce, Bionda e Gravita con me non sono mancati a delineare un concerto elettrizzante e sicuramente preciso e riuscito, dal forte impatto emozionale; purtroppo ci sono stati anche momenti imbarazzanti, da ricordare la dichiarazione di matrimonio con tanto di canzone dedicata e lo strusciare delle ragazzine sul corpo di Ermal quando si è sollevato sulle transenne.

I tempi sono cambiati dicevo e me ne torno sicuramente a casa con un po’ di amaro in bocca, un tempo credevo che esistesse una band in grado di essere riconosciuta pop e nel contempo caratterizzata da una forte dose di personalità che poteva tranquillamente vedersela con qualsivoglia gruppo italiano di musica indie, alzando il tiro, donando il giusto apporto ad un panorama si saturo, ma anche bisognoso di un certo equilibrio, l’essere indie e l’essere pop, un grande dibattito, La Fame di Camilla era tutto questo, Ermal nell’intervista iniziale ha specificato che ora i giovani musicisti trovano il modo di partecipare ai talent cercando una scorciatoia per la via del successo, Ermal nel contempo non si accorge di alimentare questo tipo di mondo, scrivendo pezzi per coloro che escono proprio da quei talent, la qualità si è un po’ persa lungo il percorso in nome di quel qualcosa che ora ha le sembianze di una luce tropo accecante, troppo scintillante, perlomeno per me; io estremo ascoltatore dei più svariati generi musicali, ho bisogno di più pezzi come Lettera a mio padre, più buio, più oscurità, più vissuto, perché solo così ci si identifica, ritornare all’introspezione di Pensieri e Forme o di Ne Doren Tende, perché solo dalle cicatrici interiori puoi attaccarci le ali.

Setlist

  1. Umano
  2. Lettera a mio padre
  3. Volevo dirti
  4. Era una vita che ti stavo aspettando
  5. Pezzi di paradiso
  6. Odio le favole
  7. Gravita con me
  8. Come il sole a mezzanotte
  9. Crescere
  10. Buio e luce
  11. Big boy
  12. Un pezzo di cielo in più
  13. Giuda
  14. Il meglio che puoi dare
  15. Rivoluzione
  16. Schegge
  17. Bionda
  18. Straordinario
  19. Street Spirit (non eseguita)
  20. Una strada infinita
  21. A parte te

Plan de fuga – Fase 2 (Carosello Records)

Plan de fuga

Qui ci si tuffa nel buio della nostra spirale elicoidale per comprendere, in modo migliore, come siamo fatti, che cosa vogliamo diventare e che cosa potremmo fare di noi stessi davanti ad un futuro segnato dal buio e dalla fagocitante miseria dei sentimenti che sempre più avanza e ci relega ai margini, sconfitti, in cerca di un appiglio, di un punto su  cui fare leva per poter gridare la nostra sofferenza, ma nel contempo abbandonare il senso di sconfitta per risollevarci ancora una volta.

Grazie alla band bresciana Plan de fuga tutto questo è possibile, si lotta, ci si strappa, si ricuce e si ricostruisce insieme un mondo diverso e migliore in cui vivere, ricordando i vicentini Virgo, grazie a incisive produzioni di notevole caratura, una voce che convince in modo del tutto naturale, quasi fatta apposta per ricreare uno stato desertico in cui scavare una buca e riporre al centro di essa, tutte le nostre cose più importanti, tutto ciò in cui crediamo, alla ricerca, forse di una salvezza che possiamo osservare ancora da lontano, ma che possiamo comunque vedere.

Mi ucciderai è un pugno allo stomaco fino a Distruggi tutto che fa da apripista al ritorno del cantato in inglese con Change it, spiraglio per avvisagli futuri che vedrà la band abbandonare l’uso della lingua italiana per tornare al respiro internazionale caratterizzante gli esordi, forse per comprendersi maggiormente, per dare un senso diverso ai racconti creati, noi di certo saremo qui ad aspettarli.

Paolo Cattaneo – Una piccola tregua (Lavorare stanca)

Ricreare atmosfere sonore e innevate non è sempre facile, anzi si rischia di rincorrere la moda del momento senza guardare in faccia la sostanza, qui però, nel nuovo album di Paolo Cattaneo di sostanza ce n’è da vendere, perché con questo quarto disco, il cantautore bresciano ci trasporta dentro a paesaggi meritevoli di ascolto, tra un’introspezione che si apre a sonorità elettroniche bollate ’80 mescolate al gusto del sopravvivere oltre ogni aspettativa, inseguendo un’esigenza di abbandono e comunione con il proprio stare dentro, con il proprio stare meglio, per un disco che è ricerca musicale si, ma perlopiù ricerca di se stessi; il nostro si interroga avidamente e sposa il gioco multiforme e multisfaccettato del cantautorato che compie una parabola ascendente da Battiato, fino al più recente Colapesce, passando per le solitudini di un Cristiano Godano dei tempi migliori, per farci respirare la completezza di un bosco autunnale che si prepara a ricevere la neve: salvifico bisogno di nuova aria a coprire i prati e le nostre anime errabonde.

Notevole la proposta di Paolo che duetta nella riuscita, Se io fossi un uomo, con Lele Battista, notevoli i giochi chiaro scurali che ci trasportano fino ad arrivare ad un completamento meraviglioso del disco nel trittico finale Bandiera, La strada è tutta libera e Fragili Miti, per un album capace di riscaldare i nostri freddi cuori invernali, un album che, a mio modesto avviso, entrerà di diritto tra i più belli e significativi del 2016.

I Luf – Delalter/Verso un altro altrove (SELF)

Perché è il senso del viaggio che ci conduce ad essere noi stessi, nell’imprescindibile volontà di essere diversi gli uni dagli altri, nel bisogno essenziale di partire e conoscere, conoscere per approfondire, conoscere per essere migliori, un cerchio concentrico e continuo di amore verso un mondo in espansione dove il cammino è un venire a patti con la propria coscienza nell’istante multiculturale e folcloristicamente colorato che ci rende irripetibili, a testa alta con il proprio essere e bisognosi di un’attenzione che ci porta a conoscere l’altro; questo è il senso del lavoro de I Luf, band della Val Camonica in provincia di Brescia capace, attraverso racconti di vita, di dare un senso a pezzi che parlano di attualità abbandonando la retorica, alla ricerca delle proprie radici, non tanto per delimitare un territorio, ma piuttosto per inglobare in quel territorio culture diverse, culture lontane, soffermandosi nel raccontare ciò che gli ultimi possono e devono ancora dire, storie di migranti, storie ai margini, problemi quotidiani in cerca di una soluzione, il tutto impacchettato in un doppio disco stupefacente soprattutto dal punto di vista del comparto grafico, curatissimo e originale senza tralasciare poi la qualità delle canzoni in se che si muovono tra originali e rivisitazioni in acustico delle stesse; finché i lupi continueranno ad ululare, il messaggio d’amore verso il mondo continuerà a farsi sentire.

One eyed jack – Sea Plant Pollen (Gufo Records)

Post rock dalla provincia bresciana che si scontra e incontra tutto il rock del tardo ’90 caratterizzato da un post grunge essenziale e riscoperto, carico di significati e incanalato attraverso la polvere che si alza lasciando al passaggio solo uno strato tetro e spesso come un muro a far da spartiacque esistenziale a suoni granitici e compressi che appesantiscono la scena e tentano di cercare una nuova via per ridare speranza, ridare un senso al rock morto da decenni.

One eyed jack di ispirazione Lynchiana è il nome di questo trio che fa della potenza devastante una delle carte per giocarsi la sfida con un mondo musicale sempre più concorrenziale cercando sempre nuove aperture verso l’esterno  capaci di ridare nuova linfa e vigore, ottenebrando il passato e dando un senso alla formula power trio spesso uniformata.

Strutture prettamente pop che abbandonano però la concezione classica a cui siamo abituati per screpolarci al sole e raccontare di un disagio, di un male interiore che non lascia scampo e ossessivo tende ad aprirsi e logorare le strutture pre impostate che ci portiamo dentro.

Un disco ruvido e quasi oscuro, un disco fatto con passione e tagliente energia che cambia le carte in tavola e cerca di donare nuove speranze al genere, nuove attese forse e nuove domande sul futuro del rock oggi e di tutta la musica che ci attenderà da qui al futuro.