Erio – Fur El (La Tempesta dischi)

Profumo di nordico in terra nostrana, tra i fiori di un candore acustico dal sapore retrò, tinti di un colore che non acceca, ma che abbaglia di luce calda e continua, misto al ghiaccio, misto alla neve:  passeggiare in lande desolate è tutto ciò di cui abbiamo bisogno.

Erio ci accompagna, lo fa con grazia da cantante lirico mancato che si dona e fa scoprire un universo diverso, più reale e meno costruito, fatto di brughiere immerse nelle natura e di boschi di abeti e betulle, quasi a colorare il candore leggiadro del primo sole primaverile.

In bilico tra Bon Iver del For Emma e di Antony di I’m a bird now, rispettivamente le loro prove più dirette, il nostro dipinge attimi di vita vissuta quasi a sancire un testamento per la persona che ama snocciolando parole/immagini sensazionali che riscaldano e ci fanno vedere con occhi diversi la vita.

Un’elettronica a tratti disturbante, ma di sicuro effetto ci porta  a scoprire canzoni-perle di questo disco dalla prima Oval in your trunk finendo con On his van, dove tutto si conclude per lasciare posto a digressioni sonore che fanno da cappello ad un disco riuscitissimo e personale.

Un album fatto di natura e per la natura, trasformando il grigio delle città, in qualcosa di più alto, di più nobile, che guarda lassù nel cielo, come quella conifera in piedi da anni che si dondola allo spostarsi del vento, senza dar fastidio, senza essere al centro dell’attenzione, ma creando spettacolo uniforme agli occhi di chi guarda.

Crayon made army – Flags (Autoproduzione)

I Sigur Ros sbarcano in Italia, si accomodano e prendono casa in quel di Terni; sul serio i Sigur Ros qui in Italia? No scherzetto stiamo parlando dei Crayon made army che portano avanti da un bel po’ di tempo la loro vocazione per sonorità islandesi e derivate, avendo in comune con il gruppo di Jonsi la capacità espressiva di abbandonarsi lungo i flutti gelati di un freddo inverno e scaldando l’anima grazie alle numerose sfaccettature che riescono a dare alla loro musica.

Questi tre ragazzi sono un esempio anomalo italiano di come si può fare musica in modo più che ottimo direi, pur essendo nati nella penisola dell’indie pop senza senso a cui ci stiamo abituando fin da troppo tempo.

I nostri si concedono a melodie eteree condite qua e la da sprazzi di vivacità sonora dove la musica prende il sopravvento e si lascia rincorrere fino a scoprire nuove realtà, nuove dinamiche da assaporare.

Un disco che parla di luoghi dal mondo, di quei luoghi che si fanno esemplificazioni dei quattro elementi, numerose sono le composizioni che parlano direttamente e indirettamente di questi, lasciando l’ascoltatore in un vortice di sensazioni che impressionano e fanno comprendere la caratura e levatura non solo tecnica del gruppo.

Abbracciando stili ed elettronica dosata, i nostri assaporano punte di The Album Leaf e Radiohead passando per Bjork e la pazzia dei Mum.

Un gruppo che ha pieno diritto di entrare tra le migliori proposte del nostro panorama musicale, tenendo un occhio incollato fuori dai nostri confini alla ricerca di un canale perfetto dove far scoprire la propria musica.

 

Sugar Kandinsky – Canadian Pieces (Autoprduzione)

Questi quattro ragazzi vengono da Parma fanno musica post rock e si sente benissimo.

Uno strumentale molto gradevole, io lo chiamerei anche strumentale emozionale che si divincola in maniera perentoria tra fragori e code infinite, creando nell’ascoltatore una sorta di trance continua, inesauribile, vitale, di un’essenza capace, pura e solitaria.

Sembra di essere perennemente all’interno di una colonna da film, melodie malinconiche e vibranti tra terre islandesi e geyser in vapore perpetuo.

In questo breve, ma intenso primo EP, le tracce si contorcono quasi a sembrare una sola, ricordando per certi versi affetti dimenticati e sorprese intensamente custodite che sono pronte ad uscire dallo scrigno dei desideri di ognuno di Noi.

Un piccolo EP composto da tre pezzi: Interferenze, Gocce invisibili e Ladybugs era, un disco che ha bisogno di una naturale prosecuzione per esplodere in tutto il suo splendore.

Aspettiamo fiduciosi il full length.

Nova sui prati notturni – L’ultimo giorno era ieri (Dischi obliqui – 2011)

Ed ecco dal silenzio più totale una musica che proviene da lontano e delle voci che si sovrappongono una femminile e una maschile: mai inizio fu più bello per la cover e chiamiamo la cover di “Signore delle cime” del Maestro Bepi De Marzi.

A scalare questa impervia montagna per arrivare fino alla cima sono i vicentini “Nova sui prati notturni”.

La band è all’attivo dal 2011 con Giulio Pastorello e Massimo Fontana che dopo un album completamente strumentale si avvalgono, ampliando l’organico, di Gianfranco Trappolin alle percussioni e Federica Gonzato al basso per l’esordio su “Dischi Obliqui” de “L’ultimo giorno era ieri”.

Canzoni sviscerali che creano atmosfere cupe e oniriche dove si incontrano, chiudendo gli occhi, Mars Volta e Sigur Ros, PGR e Gatto Ciliegia contro il grande freddo.

In “Oggi” poi tutto questo trova un punto d’unione, sembra quasi di ascoltare “Senza Peso” dei MK, tanto il suono è debitore del indie-rock piemontese, ma cosparso di passaggi dilatati.

“86” sembra uno sfogo alla CCCP, con un cantato urlato in lingua albanese, ma ricco di quella nostrana genuinità che ti fa dimenticare presto la band “ferrettiana”.

In “Tempo celeste” Francesco Bianconi sembra cantare questa splendida canzone con Federica, fino all’entrata della chitarra non ancora distorta, non ancora pronta a lacerare l’aria e a lasciare in cielo polvere di stelle o “Cuori di tenebra”.

“Dodiciminutieundicisecondi” è un egregio esempio di rilevazione ambientale per chitarre e bassi, suoni che ti rapiscono mentre ti fanno sudare leggerezza preparando il palato all’immersione canora di “Malkuth (il regno)”.

Con “Nova sui prati notturni” ci accingiamo alla fine di questo disco intenso che preannuncia un epilogo lucente, ma meditato con “L’orto dei veleni” canzone che parla dell’importanza, ai giorni nostri quasi perduta, della terra e dei suoi frutti.

Non è un album per tutti e per fortuna aggiungo io, sicuramente il gruppo va testato in chiave live, magari in un anfiteatro naturale tra gli alberi di una montagna dispersa che incornicia digressioni elettriche e sussurrate.

Una formula originale per una band che regala sempre novità nella ricerca musicale e una felice realtà per una provincia chiusa e poco proponsa a gruppi di questa caratura.

Marco Notari – Io? (Libellula/Audioglobe) 2011

Da Jonsi ai Sigur Ros, dai Radiohead a Thom Yorke di “The Eraser”, Marco Notari sforna un lavoro caleidoscopico, poliedrico che abbraccia una moltitudine di generi, suoni, colori.

Una copertina firmata da Tommaso Cerasuolo cantante dei Perturbazione, già presente quasi in toto nella creazione del video “Porpora” nello splendido “Babele”; penultima fatica del piemontese Notari.

Le sonorità di “Io?”, rispetto a quelle del precedente disco, sono più ricercate, non sempre immediate come possono sembrare anche perchè ci troviamo davanti ad un album ricco di influenze: dall’elettronica ambient, dal pop raffinato, al rock urlato fino ad abbracciare quella canzone d’autore tanto cara al cantautore Piemontese.

Io?” prima canzone, ritmo tribale e percussioni miste all’elettronica ottimo inizio con quel ritornello legato al tempo accompagnato da un organetto. “Un tempo per restare in due sopra al mio cuore”.

Le stelle ci cambieranno pelle”. Non ci sono presentazioni: Belle and Sebastian incontrano Afterhours e Sigur Ros.

Con la terza canzone “La terra senza l’uomo” le nostre orecchie ascoltano qualcosa di già sentito nel disco d’esordio “Oltre lo specchio”.

Dina” ballata delicata, storia di vita vissuta, xilofono e modulazioni sonore: bel connubio per un testo quasi sussurrato.

L’inizio di “Hamsik” è un omaggio al quintetto oxfordiano e anche il testo ricorda per molti versi il concetto presente in “Hail to the thief”, un affronto alla politica da carta patinata.

Io, il mio corpo e l’inconscio” altra ballata, questa volta poco incisiva e che ha quel qualcosa di già sentito, con sonorità tardo ’70.

Il settimo brano “L’invasione degli ultracorpi” cori alla Marco Notari che incontrano sonorità british e accordi e pensieri “Affamati di Camilla…”

Con “Apollo 11” siamo di nuovo nello spazio, forse la canzone più bella di tutto l’album “Ci siamo odiati, amati, fatti male, tu sei la sola cosa per cui vorrei tornare”.

“Canzone d’amore e d’anarchia” con inizio alla “Daphne Descends dei compianti “Pumpkins” di “Adore” ci fa capire che siamo ancora portatori di pensieri per lottare.

Chiusura con una reprise della prima canzone alla maniera della meraviglia sonora di “Staralfur” degli islandesi Sigur Ros. Brano strumentale che annuncia speranza nel domani.

Questo disco è un viaggio dalla terra alla luna A/R, un volo pieno di rabbia e poesia, dolore e attivismo mai inerzia e apatia. Un disco, a mio avviso non all’altezza del precedente, anche perchè meno concept e quindi meno immediato, ma che cerca di farti aggrappare ancora a qualcosa che sia portatore di cambiamento: “cambiano i colori e sono migliori”.

www.marconotari.it