Mangarama – Alieno (Libellula/Audioglobe)

Ascolti i Mangarama e non puoi non paragonarli al loro conterraneo Marco Notari, sia per aspetto stilistico che per la voce limpida, alta e coinvolgente.

Poi in mezzo c’è tutto il resto, ci sono echi di The movie leaf, dei Radiohead, ma anche di quel pop scanzonato di Belle and Sebastian a sancire un grande lavoro ben strutturato e congegnato che nasce dopo più di dieci anni di intensi live, un corso di tempo che ha potuto maturare nella band astigiana una passione per suoni velatamente popolari per rendere indie qualsiasi parola, qualsiasi goccia di memoria che si stende lungo le nove tracce del disco.

L’alieno è un simbolo di purezza, un essere diverso dal circondario, un aggrapparsi continuo a modi di vita differenti per poter sopravvivere, essenziale quindi la risposta del gruppo che prende la parte migliore di tutto questo per poter conceder ancora sprazzi di sereno in una dimensione, per loro nuova: il disco completo.

Un album di fotografie solitarie che pian piano da un bianco e nero si colorano dei colori della Primavera, non troppo accesi, quasi a rallegrare di nitidezza i giorni trascorsi.

Ecco allora che le canzoni prendono forma in un vortice dal mood essenziale, ma arricchito da impreziosimenti sonori che si evidenziano in pezzi come Cenere, saltando verso L’entropia del pesce rosso e passando per la bellissima Nato sotto una campana di vetro, per finire con l’aver perso tutto in Colpevole.

Pop raffinato, quasi crepuscolare, che ti inietta di calore lunare il corso delle cose, un simbolo e un’esperienza di vita racchiusa nel primo disco di Mangarama, che a fatica potremmo dimenticare.

 

KOO – Marea (Autoproduzione)

Cantautorato che si mescola al Brit pop con venature di fantasticherie emozionali che si disintegrano in sali-scendi sonori compressati da una voce pulita e sincera, quasi a rincorrere sogni sperati e voluti.

I Koo ci trascinano nel vortice della loro marea consegnando agli ascoltatori un EP ben congegnato e costruito che intreccia sogni acquatici a melodie che entrano nella testa e non escono più tanto facilmente.

Una marea che sale fino a controllare il volo più libero fino a scendere a temibili profondità in sei tracce che raccontano di amori, illusioni, speranze; un vissuto generato con linearità nella sua interezza, nell’abbandono del vivere, nella grazia della vita.

Il genere è una commistione d’oltremanica di suoni distorti che ricordano l’alternarsi pulito/impazzito di Greenwood e soci con scalate di puro intrattenimento sonoro ricordando Editors e Coldplay dei primi album.

Un disco perfetto nella sua semplicità, un album da mandare in loop fino a dimenticare i problemi che ci attanagliano, nella speranza che il suono distrugga tutto ciò che è male dentro di Noi.

Il nome di Lei – Il nome di Lei (Autoproduzione)

Suoni pop velatamente elettronici che lasciano spazi infiniti in trovate musicali che si contorcono fino in fondo alle vene, generendo quella bellissima sensazione di quiete che si intensifica lungo l’incedere dei cinque brani che compongono l’EP di “Il nome di Lei”, progetto fresco di vita che concede sprazzi di raffinatezza in testi dolce-amari dal sapore di brit – pop d’oltremanica.

Un mondo colorato questo, che si intensifica via via nell’apertura ritmata di “Ancora non ti arrendi” per correre a piedi scalzi sull’erba appena tagliata nell’introspettiva “Così fragile”, passando per la solare “Crema”, lasciando spazio a sperimentazioni nel lampo di “In un colpo” e finendo con  “Quell’illusione” a delineare maggiormente il quadro fatto di istantanee, da appendere al muro dei ricordi importanti.

I suoni rimandano maggiormente a gruppi come “La fame di Camilla” e “Le Mani” mescolando “Velvet” d’annata, in bilico tra suoni volutamente pop e ad un qualcosa di più indie che si scopre traccia dopo traccia.

Un bell’esordio questo che sottolinea la genuinità della proposta e la capacità intrinseca di creare emozioni in continuo divenire. Bella prova che in qualche modo consegna le chiavi di una porta aperta per il  futuro.

Versailles – VRSLLS Ep (Nufabric)

Sporchi, decisi e convinti verso il sole che li bacia e li costringe a restare sulla nostra terra ancora per molto, relegando il disuso ad un brutto ricordo e trasformando lo sviscerale in qualcosa di poetico che si caratterizza per riff accattivanti e suoni logori di un passato che smagnetizza e trasforma, rilancia, vive.

I Versailles sono tornati con il botto e questo cd è l’esemplificazione più totale, trascinato da chitarre di gioventù sonica e cantati da bassifondi tubolari dove si incontrano stili e modalità diverse per colpire ancora.

Un viaggio misterioso e delucidante dove le passioni si mischiano al vissuto, incentrando parabole ascendenti che si rispecchiano in pezzi metafisici come (T)Rap to the E.Y.A.H o nella nuova onda di Bring the Noise, scaldando il ritorno e lasciando solchi profondi e di puro e semplice impatto sonoro.

Un disco senza fronzoli, studiato e amalgamato per dare l’idea di un grosso live dall’alto coefficiente di difficoltà dove  i due sperimentatori si lanciano, con un biglietto di sola andata, verso mete nuove, di una profondità lucente.

Ismael – Tre (Autoproduzione)

Al terzo album gli Ismael dipingono poesie impressioniste regalando attimi di luce in un buio che illumina le chiome verdeggianti degli alberi estivi, quasi fosse un’estate relegata al continuo mutamento, un’estate dal dolce sapore mescolato all’amaro dei testi di un cantautorato sbocciato in punta di piedi, pronto ad arrivare a scoprire che poi tutto il mondo ci appartiene e quello stato d’animo adolescenziale si ricopre di nuova linfa in un indie rock ricercato e trepidante con tamburi assordanti e vivace complessità.

Fitte trame si condensano tra le chitarre in leggero delay quasi ad evidenziare un sentiero che si ritrova in bilico tra una pischedelia non voluta e un passo verso il nuovo, atto alla costante ricerca e privo di fronzoli post rock.

Un disco curato, testi cantautorali ben incentrati su di un argomento e ciascuno con peculiare segno di distinzione, armonizzati da un suono Kuntziano primi ’90 contrapposto da scelte stilistiche che riguardano maggiormente gli ultimi Marlene, più evocativi e criptici.

Rabbia, dolore e senso di abbandono si scagliano tutti d’un fiato a ricreare nell’ascoltare un senso di smarrimento che in poco tempo ti fa catapultare nel pensiero di Sandro Campani autore delle musiche e dei testi di tutte le 11 tracce, quasi fosse un nuovo De Gregori alle prese con un cambiamento generazionale inevitabile.

Un disco maturo che alterna in modo deciso momenti di chiaro scuri esistenziali, pronti a colpire e a lasciare il segno.