Virgo – Virgo (Alka Record Label)

I Virgo aprono le danze con questa prova dal sapore del tutto personale, frutto di un’evoluzione sonora compressa e ben riuscita, capace di far vibrare concitazioni e speranza in sonorità stoner rock che aprono a nuove possibilità e aspirazioni, una musica che acquista maturità fin dalle prime note del singolo Danza di corteggiamento.

E’ un concept album questo, per la band vicentina, capace di fondere l’idea di distruzione in un qualcosa del tutto personale e contorto, una visione d’insieme di notevole costrutto, amplificando ciò che si vorrà ottenere per raccontare ossessioni del tempo che fu e di ciò che viviamo, uno sgretolarsi meditabondo del nostro io che si lascia alla sensualità; un’apertura eterea al graffiante che ci circonda.

Dodici tracce che parlano dei desideri più oscuri, canzoni che sono resoconti della nostra anima mortale, tralasciando l’inutilità della fisicità per puntare dritti alla sostanza, tra mirabolanti peripezie e atmosfere, da Selene a Bianca ombra fino al finale in Trasparenze a rimarcare una scelta che non c’è.

Continua il percorso di maturità dei Virgo che hanno saputo, nel corso del tempo, far proprio un genere, divincolandosi dalle etichette di facciata per seminare uno stile che può fare scuola.

I Plebei – Eterna è la tensione di clavicole, ingranaggi e leve (Resisto)

Anfratti crepuscolari che ricoprono gli antri di una musica sotterranea, di bassifondi, di popolazioni da comprendere e capire per poter sostenere tesi vicine al nostro credo per sperare una vita diversa, per sperare di riaffrontare la realtà con eterna passione e dedizione verso non solo i secondi, ma verso gli ultimi, in un eterno scontrarsi con la vita, non più fatta di ambizioni, ma di verismo assoluto e concentrazione nel quotidiano.

I Plebei, band trentina, con questo nuovo disco, si promette e lo fa distinguendosi da altre e numerose produzioni, di incrociare blues maledetto, folk e canzone d’autore degli anni passati, ingranando le musiche balcaniche e trasformando il tutto in una tensione fatta di movimenti e di mosse, attesa per qualcosa che nascerà, il futuro alle porte e noi non solo spettatori, ma anche protagonisti di ciò che un giorno potremmo creare insieme.

Gli strumenti musicali in questo disco sono utilizzati per poter comunicare e canzoni come l’apripista Africa, la bellissima I fortini del sud e La vita che se ne va ne sono la prova, per una mirabolante impresa di connubio eterno tra ciò che siamo realmente e ciò che vorremmo essere.

Un album dal sapore d’altri tempi, un disco che prima di tutto è arte, partendo dalla copertina della pittrice Giulia Tarter, undici canzoni che parlano di questa società da cambiare, nel momento del riscatto, nel momento della rinascita.

Siberia – In un sogno è la mia patria (Maciste Dischi)

Pensare di vivere in un sogno dove tutto sta crescendo, dove tutto è in procinto di trasformarsi, noi esseri strani, divincolati dal buio della notte, cerchiamo la luce in un posto nuovo, noi che siamo parte di un tutto proveniamo dalla terra e alla terra siamo destinati, un angolo di mondo che può essere la patria, non mero territorio delimitato da confini, ma capacità di dare un senso e un nome a chi ci troviamo davanti.

I Siberia sono per metà stranieri e conoscono nel profondo il senso del termine che da valore al disco, lo apprendono giorno dopo giorno attraversando le barriere virtuali che caratterizzano il nostro vivere e lo fanno con una dimestichezza pop da primi della classe, incrociando in modo delizioso rimandi di tipi Baustelliano fino alla tradizione sonora di Endrigo, la wave mescolata alla musica d’autore, per un sodalizio che attinge le proprie radici in un vortice che non sa quasi mai di tensione, ma di territorio inesplorato, onirico e sensazionale.

Undici pezzi che sono lo sfondo dei racconti di ogni giorno, partendo con Patria e finendo con Una speranza, quasi un richiamo ancora, quasi il desiderio di convincersi che la fuori tutto ancora può cambiare, che anche  il più piccolo seme dentro di noi, un giorno germoglierà per tornare da dove è venuto, noi cenere di alberi eterni sempre pronti alla sconfitta.

Grandi navi ovali – All you can hit (Maciste Dischi)

Dentro al gioco di parole delle Grandi navi ovali si nasconde il titolo del loro nuovo disco, All you can hit, un album affascinante per molti versi che riesce ad inglobare un suono fresco, moderno, capace di prodezze non solo fuori area, ma direttamente dagli spogliatoi con un appeal sincero e diretto, elettronico e malinconico, forse verso un mondo che non esiste o che speriamo possa esistere dentro ai nostri occhi.

Loro sono dalla provincia di Alessandria, provinciali di provincia, ma che amano questa etichetta, anche se di etichetta non parliamo, ma solo e soltanto di gran buona musica con il giusto apporto di sintetizzatori a solcare i mari dei doppi sensi e le interrogazioni sulla vita burrascosa e continuamente in bilico tra forze a cui non sappiamo dare un nome, risultati però dal nostro pensiero globalizzato che non sempre premia, anzi molte volte delude.

Ecco allora che i nostri, miscelando sapientemente Macromeo, I cani e il cantautorato degli anni che furono, divagando sull’importanza della vita, interrogandosi scherzosamente su ciò che ci resta da assaporare, magari lasciando qualcosa per gli altri, magari trasformando la nera realtà in qualcosa di stramaledettamente  pop e fiorito, qualcosa che lasci il segno, in un cammino in cui tutti Hanno ragione, per sempre o almeno per Questa notte e per altre cento.

Leon – Gli eroi muoiono (Meat Beat)

Gli eroi muoiono e ce lo spiega Leon nel suo nuovo disco, il cantautore valdostano confeziona una prova di sperimentazione innanzitutto in quanto il pop è mescolato con il cantautorato, il rock e l’elettronica e a farla da padrone sono testi generazionali in cui gran parte dei giovani ci si possono rispecchiare, tra lavoro precario e incertezza sul futuro, senza basi d’appoggio su cui sperare e senza la minima convinzione di poter far valere un proprio pensiero nella miriade di voci che fanno parte del nostro vivere.

Un disco esistenzialista che divaga, per ben quattro pezzi, nella lingua francese, parole presenti, pesanti e possenti, ci sono le poesie di Baudelaire e il colore nero prende il sopravvento dopo giorni spesi a chiedersi chi siamo; del domani non vi è certezza e noi protagonisti insicuri non abbiamo nemmeno più gli strumenti per affrontare ciò che ci troviamo davanti.

Intimo nella propria esistenza, Leon, ci regala una prova dei nostri tempi, un bel disco formato da dieci pezzi, una solitudine mescolata all’attesa e quella luce filtrata ad illuminare l’altra faccia di noi, l’altra faccia della luna, l’altra faccia che non dobbiamo far cadere nell’oscurità eterna.

Ninfea – Superstite (VREC)

Grunge direttamente dalla Puglia che non cerca compromessi con il presente, ma si fa portavoce di un suono proveniente direttamente dagli anni ’90, intersecando le fantasmagoriche imprese dei primi Kuntz di Catartica e Il Vile per poi risalire la china e impreziosendo i costrutti della prova con un rock che convince a dismisura nei parallelismi d’oltreoceano con la scena di Seattle; Taranto ridipinta per l’occasione, un’occasione di riscatto che in primis porta nel cuore questa grande città.

Superstite parla del mondo che non vogliamo, ma che dobbiamo abitare, racconta del sostanziale cambiamento che ci accomuna e noi ingabbiati in trappole umane ci ritroviamo a fare i conti con noi stessi, tra una terra sempre più povera e i mezzi di comunicazione che mettono, giorno dopo giorno, a repentaglio la nostra esistenza in un navigare tumultuoso che non trova una banchina per l’attracco, non trova un senso nei bit quotidiani.

Ecco allora l’esigenza di fare un salto nel passato, ritornare alle origini, le nostre origini e per una volta almeno concedere a questo power trio la possibilità di parlare una lingua diversa, la lingua del futuro, perché questo presente un giorno non sarà più e noi smetteremo di esserne spettatori, ma superstiti protagonisti di una nuova società.

Down to ground – The world we live in (VREC)

Il mondo in cui viviamo è un mondo strano, carico di nuvolosità variabile e simmetrie geometriche pronte ad immortalare una natura composta e composita, come fosse un quadro di Magritte o De Chirico, un mondo svuotato dal superfluo per evidenziare solo l’essenzialità che risiede dentro di noi.

Down to ground è un progetto italo/neozelandese cha ha un forte respiro internazionale, un forte impatto emotivo e una rapida ascesa verso i confini del pop rock moderno, mescolando sapientemente l’elettronica alle chitarre ben disegnate e capaci di creare fluttuazioni misteriose e cariche di pathos che accompagnano questa prova dal sapore di orecchiabilità mai banale e intrisa di significati.

Dodici canzoni che incrociano One Republic, Kings o Leon e gli ultimi Coldplay in un sali scendi emozionale che non ci permette di rimanere incollati al terreno; non dimentichiamoci poi del remix del singolo Belong affidato alle sapienti ed esperti mani di Sun-J degli Asian Dub Foundation a rimarcare ancora una volta l’importanza del progetto, l’essenzialità di una musica che non ha confini e accomuna migliaia di ascoltatori in tutto il mondo.

Un disco diretto, che si fa ascoltare più volte, a sottolineare l’importanza di questa band, che appena al secondo lavoro dimostra una solida base di fondo per sperare e creare degli orizzonti sempre nuovi e carichi di quell’energia vitale che ci rende così, veri per come siamo.

Tutti Frutti + 1 – Full degno di un re (VREC)

Tutti Frutti + 1 non è un progetto parallelo di Gunther, re del pop dance nordico, ma un gruppo di giovani del bresciano formato da Francesco Faglia alla chitarra e alla voce, Alberto Faglia alla chitarra e voce, Marco Faglia tastiera e voce e Nicolò Picchioni alla batteria, rispettivamente due fratelli, un cugino e un amico, che decidono come la stragrande maggioranza di tutte le band, di unire le proprie capacità per creare qualcosa che resti a coloro che verranno senza dimenticare di godere, nell’immediato, del proprio attimo di gloria.

La musica che i nostri compongono, è una musica divertente, una party band d’intrattenimento, glam e anni ’50, neutralizzando l’introspezione per fare dell’allegria in rock il proprio cavallo di battaglia, pensiamo su tutte il singolo Scendi giù fino alla memorabile cover di A little less conversation portata alla ribalta da un Elvis Presley d’altri tempi.

Quattro pezzi soltanto, ma brani carichi di adrenalina e veridicità, quattro pezzi che formano l’asso nascosto nella manica, da usare in ogni occasione.

Kelevra – Cronache per poveri amanti (VREC)

Amori andati a male, amori lontani, sfiducia sull’oggi e sfiducia sul domani, intrisi di quella poesia neo natale che imprigiona la semplicità del gesto, dell’atto, in una confezione effimera di gioia, dove il tempo racchiude i segreti per un mondo forse diverso.

Al secondo album i Kelevra fanno centro, intascando una prova ricca di coraggio e di un’immediatezza strabiliante, che sa mescolare diligentemente un pop definito amaro al cantautorato più moderno,un disco tutto tranne che consolatorio dal titolo Cronache per poveri amanti.

I nostri raccontano una vita fatta a pezzi e l’essenzialità nel tentare di ricucirla passo dopo passo, mattone dopo mattone, oltre la tempesta e ispirandosi al fu fiorentino Pratolini che condivideva con loro la terra natia.

Disincanti che accarezzano l’erba e ti fanno comprendere l’ineluttabilità del tutto, con un forte gradiente e una forte percentuale di amarezza che fa gridare, che ti fa tentar di essere un uomo diverso, migliore.

Non ha gravità è il singolo di riferimento, con la presenza di Toffolo dei Tre allegri ragazzi morti a farne da padre putativo, un disco che anche senza questo pezzo ha tutte le carte in regola e il pieno diritto per sfondare le consuetudini del momento, trovandosi un piccolo posto nel mondo dove poter vivere.

Three times nothing – Paper (Tesla Dischi)

Progettare di volare e magari vivere per sempre in un subbuglio suscettibile di anime dimenticate all’oblio post rock che incanala i pensieri del nuovo secolo e ci rende in qualche modo prigionieri di una gabbia da cui non riusciamo ad uscire, soppesati corpi in vortici galleggianti, pronti per l’ultimo abbraccio prima del tramonto, prima di essere delle persone nuove, magari con un anno di più, magari con un po’ di tempo in meno.

Vengono da Genova i Three times nothing e grazie a puzzle emotivi impattanti, ricordando i conterranei Dresda, si avvicinano ad un rock che intreccia le sonorità dei Mars Volta tessendo trame di speranza e di ambient ben dosato, capace di penetrare e divincolare il già sentito, manipolando i suoni in delay eterni e scaraventando al suolo la forza di questa musica capace di andare oltre la forma canzone e sigillando una prova efficace dal sapore di meraviglia.

Un disco labirinto, da ascoltare in più riprese, che si riappropria del tempo perduto, di voci lontane, pronte ad intervenire, ad inondare la scena, ad assaporare ancora una volta il profumo di una bellezza eterea e immutata.