Samsa Dilemma – Wake up Gregor!! (Kutmusic)

Autoproduzione convincente dal sapore internazionale totalmente registrata in casa e piena di rabbia gettata al suolo in una costruzione di architetture che si affacciano alla modernità senza tralasciare le contemplazioni futuristiche degli anni ’90 in assaggi post Blur dove l’identificazione sonora avviene tramite una bellezza scarna, disincantata e soprattutto lucida. Il nuovo dei Samsa Dilemma è un insieme di storie dentro ad altre storie, ci sono pezzi in inglese e pezzi italiano, c’è un’iniziale voglia di partire con i piedi ben ancorati a terra per poi soverchiare le regole precostituite dando al tutto un sapore essenziale nella propria rotondità. Wake up Gregor!! è un uscire a denti stretti da una realtà che pervade di liquidi contrasti, è un ottenere un posto nel mondo quando tutti i posti sembrano essere occupati. L’album dei Samsa Dilemma è un pugno allo stomaco al perbenismo e nel contempo è un lascito di meraviglia da apprezzare canzone dopo canzone, senza rimpianti, ma con gli occhi che guardano oltre le barriere che infliggono e ci rendono deboli, un album che trova nell’immediatezza il suo apice musicale.

Il dEli – Lo stupido che canta (Tunecore)

Molteplicità di strati e di generi che creano architetture sorprendenti per il disco d’esordio di Roberto Deliperi, un album che avvolge per completezza e sostanza tanta e che non ammicca di certo all’indie nostrano, ma ha il sapore di un’internazionalità convinta frutto di unione con il tempo che passa, abbracciando un rock di ampio respiro che sfiora i Pink Floyd, per arrivare ai più moderni e italiani Afterhours e Marlene Kuntz. Lo stupido che canta rappresenta un concentrato di canzoni sedimentate nel tempo e che d’improvviso, dopo esperienza su esperienza, escono dal cilindro dei ricordi, escono così bene che sembra quasi di ascoltare un concept ben congegnato, dando senso ad una visione d’insieme che si fa introspezione e aggancia canzoni come Stefania, London Sun, Blues d’amore o Viaggio dalla terra. Il disco di Il dEli è un multiforme progetto che abbraccia una schiera innumerevole di musicisti, un album davvero interessante in parte acustico, in parte sintetizzato, lasciando fuori il rumore inutile di questa società e facendo parlare ciò che conta veramente e cioè la musica che ingloba e fa respirare.

Fiori di Hiroshima – Horror Reality (Phonarchia Dischi)

Paura compressa a dismisura che attanaglia e ci impedisce di vivere il momento, una paura che entra subdola nella nostra società e non esce, anzi si radica all’interno fino ad implodere in schegge impazzite che sono parte imprescindibile di ognuno di noi. I Fiori di Hiroshima analizzano il mondo che ci gira attorno, lo fanno dal lato oscuro della luna e non si accontentano di canzoni fine a se stesse, ma inglobano piuttosto un concetto che rende omogeneo l’intero lavoro, un lavoro fatto di passione, sudore, amore per la musica e soprattutto un’esigenza di andare oltre al già sentito in un’internazionalità di fondo davvero sorprendente. In Horror Reality ci sono elementi blues che si inerpicano su riff da scimmie artiche e consegnano un lavoro a tratti oscuro e a tratti smussato e tagliente. Pezzi come la title track, La terra dei mostri, Il mare o il delirio messaggistico finale di Output sono emblema di un bisogno nel denunciare un’oppressione costante, fino all’ultimo respiro, fino a quando il nostro incubo avrà fine, forse, un giorno.

Folkstone – Ossidiana (FolkstoneRecords/Universal)

Mutare forma, inventarsi, captare le sfaccettature dell’ossidiana, vetro vulcanico in divenire che racchiude al proprio interno le ere, il passato, il tempo che fugge, si consuma, cambia. I Folkstone ormai hanno raggiunto un livello musicale e di maturità invidiabile tanto da poter imprimere nella scatola dei ricordi bellezze sopraffine di un qualcosa che comunque resta ricerca, tentativo, ambizione per un disco, il loro nuovo che non chiude la porta al passato, ma la amplifica rendendo i racconti di vita presenti all’interno delle tredici canzoni un punto d’ancoraggio sicuro e condiviso. I testi e la voce sono in primo piano e le contaminazioni presenti si fanno sempre più tangibili e reali, canzoni come l’apertura scoppiettante di Pelle nera e rum, passando per la potenza di Scintilla o la storia di Anna, la bellissima Asia e il finale affidato alla title track sono solo alcuni episodi importanti di uno spaccato esageratamente preponderante e che non passa sottotono. I Folkstone si confermano una realtà alquanto florida nella nostra penisola, un gruppo che riesce ad incastrare le peripezie del metal con la melodia del folk in un abbraccio mutevole che sa perennemente di rinascita.

Giuseppe Calini – Verso l’Alabama (Music Force)

Cartina in mano, strada lunga e infinita a far da contorno e sabbia, tanta sabbia che si trasforma in polvere fino ad arrivare ad una città fantasma popolata da vecchi seduti sul tavolo di un saloon legnoso a bere l’ultimo istante di vita concessogli. Il rock di Giuseppe Calini, al suo diciassettesimo album, si avete capito bene diciassettesimo, è un disco di classic rock puro cantato in italiano. Coadiuvato dalla presenza degli ormai in pianta stabile Simone Sello (Vasco Rossi), Matt Laug (Slash, Guns N’Roses), Leonardo De Bernardini, Johnny Tad e al mix Mike Tacci (Metallica, Cheap Trick) il nostro intasca una prova di rock spumeggiante, duro e incisivo che si perde nei meandri di una voce e di una prosa metrica che rende onore al miglior Blasco e si afferma nel ricreare un immaginario collettivo abbagliato dal sole dell’istante appena trascorso. Verso l’Alabama è un viaggio prima di tutto, è un percorso che attraversa le origini del nostro essere senza chiedersi troppo, ma ragionando quasi per istinto, seguendo una direzione, vivendola profondamente fino al momento in cui, in fondo tra la prateria sconfinata, possiamo intravedere quel qualcosa chiamato casa.

Four Tramps – Pura Vida (TRB rec)

Misurare la potenza dello sporco blues non è mai troppo facile, anzi si tende ad ingaggiare una sfida contro stereotipi di genere e cliché che si possono tranquillamente evitare dando un senso profondo alla ribellione e alla desolazione che si respira approcciando questo stile ad un modo di essere, ad un modo di vivere. I Four Tramps fanno della loro esistenza qualcosa da mettere su disco e ci riescono alla perfezione perché sanno coniugare in modo esemplare le asperità della vita moderna utilizzando un’ironia di fondo che lungo l’intero arco dell’album si può percepire pur parlando di fatti che respiriamo giorno dopo giorno in un’esplosione distorta e comprensibile, chiara e speculare. Ecco allora che le canzoni scorrono veloci da A distanza dalla dignità fino a Theater of the drums in un saliscendi di potenza controllata e parole che si fanno racconto dimenticando l’inutilità e concentrando il proprio equilibrio su una manciata di suoni che rendono l’omogeneità un particolare da non trascurare ed implementare a dismisura dando vita ad un percorso di Pura Vida capace di far sognare ad occhi aperti un nuovo istante da incorniciare.

Exit Spoons – Exit Spoons (Autoproduzione)

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Incroci sonori tra elettronica, caos, distorsioni e tanta psichedelia per un progetto originale sin dalla confezione di lancio. Due mini cd, un cartoncino per raccoglierli e un libretto per spiegare l’ambiente onirico e discostante che possiamo trovare e percepire durante l’ascolto di questi sette brani. Canzoni ed estrapolazioni sonore ad intessere trame futuristiche che sono e che si fanno pittura esagerata oltre ogni modo e dove la fantasia autentica risulta spiazzante all’inverosimile già da Trippo Hippo fino a La moglie del proprietario passando poi per l’altro disco labirinto che si muove da Sequenza a Passatela a Totti includendo Jenny senza mutandine e Zumbaccamera. Ascoltare gli Exit Spoons è spogliare l’intera musica per come la conosciamo e vestirla con un abito nuovo e luccicante, intraprendere una strada senza uscite e magicamente ritrovare il sentiero verso casa in uno sperare che accarezza il prog, ma nel contempo si ritira alla visione di quest’ultimo per un album che assume le basi del rock per stravolgerlo e ottenere poi paesaggi sonori di rara importanza.

Latente – Monte Meru (IndieBox)

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Rock emozionale che si inerpica sulle pendici del Monte Meru ad aspettare l’esplosione vulcanica, ad aspettare che tutto ciò che ci portiamo dentro possa passare attraverso i secoli per lasciare qualche particella infinitesimale di noi nell’etere che ci circonda. I Latente ritornano di gran carriera con un disco immediato di rock alternativo che lascia le aperture shoegaze iniziali a canzoni e ballate più incisive e meno sognanti sempre però affidate ad ampiezze che nei ritornelli raggiungono l’immaginazione valorizzando l’uso della parola che conturba e capace di creare immagini in costante cambiamento e alquanto visionarie. Tratti di psichedelia si contorcono dunque ricordando i primi Verdena, pezzi come La mia stanza buia, Nervi, Brace ed Everest ne sono emblema fino a chiudere un disco carico di una naturalezza e forte capacità espressiva difficili da trovare ai nostri giorni. Un album che suona già sopra di un palcoscenico illuminato, un disco catapultato di gran carriera nella nostra quotidianità ed è lì, forse che i Latente vogliamo trovare.

Kaufman – Belmondo (INRI)

Omaggio a Jean Paul e alla Nouvelle Vague, alla bellezza da cogliere nell’attimo, all’istante che cattura sguardi e polaroid di un tempo andato pur proiettandosi in un futuro complesso, stratificato e ottenuto in una sostanziale ricerca musicale che fa della perfezione edulcorata un marchio di fabbrica davvero interessante e ricercato. I Kaufman sono tornati, sono tornati grazie a quella forza musicale che li aveva caratterizzati nel precedente e già recensito in queste pagine Le tempeste che abbiamo, i Kaufman sono tornati con un album meno oscuro, in parte più solare, ma comunque intriso di quella velata malinconia di fondo che racchiude gli anni migliori della nostra vita, del nostro essere vivi e ci conduce simultaneamente a scoprire le parti più nascoste di noi, le parti che non sapevamo di conoscere e che ora possiamo affrontare. 38 minuti di musica scritta con il sempre presente Alessandro Raina dei compianti Amor Fou, poco più di mezz’ora di canzoni che si inerpicano tra i singoli L’età difficile e Robert Smith fino ad attendere passioni in pezzi importanti come Senza Fiato, la bellissima Alpha Centauri o Ragazzi di vita. Citazionismo eclettico che assapora il momento, pop ben congegnato in un meccanismo che odora di emozioni per una produzione dal gusto cinematografico da osservare attraverso l’esplosione colorata di un caleidoscopio in divenire.

Metropol Parasol – Farabola (Autoproduzione)

Disco variegato che parte con il botto attraverso il distorsore acceso di una chitarra impazzita per disegnare a passi sicuri parabole di elettronica e musica d’atmosfera che intercorrono tra le nostre vene e rendono l’attesa una significativa essenzialità di fondo che raggruppa e intensifica questioni musicali e non lascia scampo tanto la proposta è variegata e inusuale. Sono in tre, vengono da Viareggio e il loro rock, il rock dei Metropol Parasol è intriso di testi criptici e introspettivi che lasciano al velato citazionismo un punto di sfogo  eclettico e riuscito nell’entrare in punta di piedi in universi fatti di bellezza da respirare nell’intera concezione di questo Farabola, nome di un fosso, acqua che irrompe, quiete che disturba e accende facoltà mentali che ci fanno vedere da vicino un suono che mescola l’importanza degli anni ’90 con tutto quello che nell’indietronica attuale percepisce le difficoltà di un tempo, l’importanza del richiamo. Farabola è un disco in parte complesso e in parte immediato che merita più ascolti per essere assimilato a dovere, un disco che nella sua accezione pop rende l’idea di un multistrato credere senza fine.