Pablo e il mare – Respiro (Libellula/Audioglobe)

Respiro è il racconto di una donna, è il racconto di un tramonto sul mare che dona grazia ed eleganza, è un narrare disincantato e leggero di sogni estivi velati da una tiepida malinconia che avvicina l’autunno e si divincola prepotentemente dall’onda uniforme per ricreare un suono etnico e contaminato, un folk d’altri tempi impreziosito dal pop d’autore che ingloba nostalgie e riporta il pensiero al respiro in un batter di ciglio, quasi fosse farfalla mossa dal vento.

Pablo e il mare è un gruppo che conosce i risvolti della canzone e al loro terzo disco non sbaglia appeal e fornisce attimi emozionali da intrappolare in una fotografia scavata dal tempo, scavata da quel bisogno di uscire allo scoperto, relegando il tutto al passato e evolvendo in concretezza ciò che prima era solo pensiero.

Canzoni di pura introspezione che toccano necessità di ampio respiro in connubio e in simbiosi con un mondo in continua evoluzione, un gelido inverno da spazzare per essere se stessi ancora davanti al mare.

Quel mare che parla di speranza, quel mare che porta alla città e quindi ecco che si scioglie il racconto urbano in Di più per proferire necessità vivendo sogni di gioventù in Ferdinandea, passando per la meraviglia di Ammanta brano avvolgente e cantautorale fino all’amata Giappone che porta alla dolce conclusione di Sottovoce.

Guardiamo alla finestra lontano, guardiamo le tende mosse dal vento e quel sospiro caldo d’estate che sta arrivando è il sorriso di una donna, che danza su di una spiaggia deserta coccolata dai raggi del primo sole.

Alessandro Viti – Talea (VG Edizioni Musicali)

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Talea racconta della vita, una vita intrappolata che è pronta a nascere da un momento all’altro, che è pronta a disorientare e a comprimersi a dare un senso al tutto destreggiandosi tra le incapacità di concludere e di portare a termine, ma con gli occhi protesi in avanti a segnare un’ancora di salvezza per un nuovo futuro.

Il cantautore Alessandro Viti ci regala una prova sincera e onesta, ricca di sfumature che toccano il cantautorato d’altri tempi per portarci con la mente a ricreare nel nostro interno sensazioni lontane legate dal filo del ricordo e dallo scorrere della vita, tra la terra, l’acqua e il fango, il seme che nasce si sviluppa e muore in un circolo che non ha fine, ma che si trasforma in modo elegante e coinvolgente.

Gli arrangiamenti sono ben calibrati e il tutto si muove tra una mistura congegnata di sapori per il gusto classico tra violini e sintetizzatori a ricreare un’atmosfera delicata e soppesata che non ha passato ne presente, ma che guarda al futuro in modo emblematico e coinvolgente, segno di capacità espressiva fuori dal comune.

8 pezzi in bilico tra un cantautorato di riflesso tra Lucio e Battisti e Nomadi, guardando alle introspezioni di Capossela e Luigi Tenco ricreandosi giorno dopo giorno.

Talea è strumentale d’ingresso che si amplia a dismisura per accogliere Sotto la tua stessa luna, per passare alla bellezza de l’Essenza e poi via via con Il segreto e Ho fatto Naufragio, concludendo con Talea, in una nuova terra.

Un disco pieno e carico di melodia che racchiude l’essenza di un animo poetico, Viti racconta la vita e non possiamo che ammirarlo con stupore.

Sotto il cielo di Fred – Tributo a Fred Buscaglione (F.E.A., Libellula, La Stampa, Audioglobe)

Il premio Fred Buscaglione nasce a Torino, nasce per ricordare e nasce per valorizzare e sostenere la musica d’autore emergente.

Omaggiare Buscaglione è un onore dato e affidato a poche persone, le quali hanno saputo dare il proprio stile personale ad ogni pezzo interpretato con qualsivoglia capacità espressiva e intuito prettamente soggettivo che non sfigura, ma anzi dona veridicità in più ad un’opera tesa al confronto tra generazioni e stili abbandonati che pian piano vengono riscoperti.

Le raccolte non mi sono mai piaciute, ma questa è in grado di avvicinare in modo del tutto naturale persone lontane per scelta stilistica accomunate da uno spirito di solidarietà e di ammirazione verso chi in Italia si è sempre opposto ad uno stile e ad un ordine prestabilito esule da qualsivoglia forma di corrente da seguire.

Nel disco compaiono ben amalgamate forme e sostanza sviscerata e decostruita, di canzoni completamente stravolte e reinterpretate per l’occasione da chi, nel corso del tempo è stato vincitore dello stesso premio: Brunori con l’introspettiva Nel cielo dei bars, Dente romantico gatto che sospira in Guarda che luna, Benvegnù nel sodalizio ben eseguito di Love in Portofino, Bugo nella minimale Eri piccola così, passando per la meglio riuscita del disco Mi sei rimasta negli occhi cantata da Niccolò Carnesi e poi via via la caciara dello Stato Sociale con Teresa non sparare, la malinconica Sigaretta dei Perturbazione, la ritmata Noi siamo duri de Il pan del diavolo, fino a Juke Box cantata dai The sweet life society e poi le nuove leve Etruschi from Lakota e Eugenio in via i gioia con rispettivamente Porfirio Villarosa e Buonasera signorina, chiudendo in bellezza con i Venus in Furs che si contorcono saltellanti in Voglio scoprir l’America.

Un album di omaggi che guarda il mare lontano, guarda verso un’altra direzione, tra le stelle di altre galassie nell’intento di capire fino in fondo un cielo che forse è anche il nostro, un cielo azzurro che alle volte si tinge di grigio, che ha però la capacità sempre e comunque di lasciar filtrare un filo di luce.

 

F@B – Talmbout’Dat (Overdub Recordings)

Solitamente non recensiamo lavori esteri, tranne appunto in rari casi ed eccezioni.

Come abbiamo fatto in passato per Rue Royale e il nuovo collettivo di cui è partecipe anche Thurston Moore della Gioventù Sonica, il disco che andremo a descrivere è di una band ucraina che mescola in modo egregio il nu metal, il grunge e un post funk che colpisce per internazionalità e capacità intrinseca di infondere energia come un pugno allo stomaco colpisce le strutture che ci circondano, immagazzinando rabbia e lanciandola al suolo come fosse un uragano di pioggia pronto a stagliarsi contro una città in fiamme.

La peculiarità che caratterizza questi giovani ucraini nella fattispecie è il pensiero dominante che grazie ad una teatralità non spiccata ma che fa un uso di maschere,  ripercorre l’agonia giovanile e del mondo intero, dove la società impone e il popolo non ha coscienza di decidere, non può permettersi di scegliere cosa fare, cosa è più giusto e cosa le sensazioni della vita possono dare rispetto a costrutti prestabiliti e imposti.

Un disco in stato di grazia che per assonanza ricorda i primi anni’90 e la fortuna per un certo genere e stile che abbracciava simultaneamente RATM e l’aggressività di Korn su tutti per poi passare all’evoluzione di POD e SOAD in primis tra il ricucir ferite create dal dolore post grunge.

Album stupefacente quindi, che si immola ad essere un continuo con la storia di genere, tra dirompenti cavalcate elettriche e stoppati da brividi, pensieri distruttivi con risonanze da costruttori di idee.

 

Dissidio – Thisorientamento (OverDubRecordings)

Atmosfere che si fanno incubo, che sono distese di cupezze oscurali e graffianti che coincidono con l’eclissi e frastagliano eleganti giornate in brutti sogni ad occhi aperti da assaporare, da maneggiare con cura e con estrema volontà affrontare giorno dopo giorno.

Canzoni intrise da poetica teatrale istrionica, maneggevolezza che esplode in un solo vacuo sospiro disilluso, fonte di saggezza e capacità di narrare che con rabbia e maestria colpisce al cuore e non se ne va tanto facilmente.

Il circo grottesco ad occhi aperti che ricalca una volontà fatta di immagini e racconti, pensieri disordinati che si apprestano in poco tempo a creare storie: gli Elettrofandango incontrano Il teatro degli Orrori per fondersi alla rumorosità dei Massimo Volume in un vortice post espressionista di dilagante apertura mentale.

Raccontare con rabbia un’Italia che non gira creando un senso di disorientamento che ci accomuna, che accomuna speranze e per intensità ci affoga come in un vortice, facendo morire tutto ciò in cui noi crediamo, perdendo la strada della ragione e rendendoci partecipi di un costrutto lento da assorbire e privo di punti fermi da cui incanalare nuova e più vigile vitalità.

Si parte con Ciao, Ciao parte 1 passando per le irriverenti ha ha ha e quel gusto per il teatrale sommerso in Pezzo di sfiga e Vetrina specchio in modo da condurci ancora una volta al senso di tutte le parole, al nostro io rapportato ad un mondo da superare.

Disco carico di personalità questo, che elargisce e non ci abbandona, ma ci accompagna, grazie a questa grande band, davanti a nuove sfide da affrontare, senza paura del vento, senza la paura di ciò che verrà.

A l’aube Fluorescente – Taking my youth (Overdub Recordings)

Prendi la mia giovinezza e scaraventala al suolo, immola grida di dolore verso ciò che non è più tuo e compi un gesto d’amore, verso chi ti teme, verso il caldo estivo, verso il piccolo che è dentro di te e che deve in qualche modo far parte di un qualcosa di più grande, di più sentito, verso territori lontani; nostalgici coinvolgimenti emotivi tra rock sognante per partenze cosmiche.

Gli Alaf segnano il cammino con questa nuova prova e lo fanno con un suono di tutto rispetto, mescolando sapientemente il post grunge e creando un alternative rock non forzato, ma che imbastisce trame sonore senza tempo, un estinguersi di gioia verso territori sconfinati, un infinito che si tocca con mano e rende la proposta un’eterogeneità complessa e non banale, dando prova ancora una volta della capacità intrinseca della band di creare in tutto e per tutto meraviglia.

Prendere la giovinezza è un inno generazionale che dentro di noi esplode come fosse materia incandescente, tra le divagazioni sonore di Wiser, passando per la linea d’ombra di The King of air castle e altalenando il tutto sino ad arrivare alla bellezza di Venetian Green Room.

Un disco che per approccio si coordina ad una nuova forma di metal melodico, tra sospiri senza tempo che sono anch’essi veicolo per territori da esplorare, alla ricerca di quel bambino, alla ricerca del caldo d’Agosto, alla ricerca di qualcosa che giace sotto la polvere nel nostro cuore e che ogni tanto avrebbe bisogno di una luce nuova.

Open Zoe – Pareti Nude (Aulasei Records)

Testi diretti, lineari, che si raccontano e ti fanno percepire quell’insaziabile bisogno di comunicare parole non scontate, parole non lasciate al vento, ma che si fanno veicolo per cambiare, per dare nuove possibilità,  in una giostra altalenante che fa parte di tutti noi che respiriamo la stessa aria e viviamo tutti sotto lo stesso tetto.

Gli Open Zoe sono elettricità non conclamata, ma presente al punto giusto, che dissipa ogni dubbio sulla capacità intrinseca di questa band di creare melodia sovrapponendo il moderno pop rock con un occhio però attento e sempre rivolto al passato che da si  le basi da cui partire, ma anche e soprattutto i mezzi per creare qualcosa di migliore.

Echi di Baustelle per testi che ammaliano per veridicità e schiettezza, pareti nude da riempire, da far parlare con il colore della vita, il bianco che si fonde con il nero per dare al grigio la possibilità di cambiare di essere diverso, solo se noi lo vogliamo.

La franchezza delle composizioni è un abbaglio, una luce alla finestra, un tentato approdo verso porti lontani, magnificenza sonora che fa scomparire il buio e ritrova un’armonia che a dire il vero si compone quasi fosse in stato di grazia.

Armi taglienti sono le corde della chitarra che fanno partire il viaggio, un costrutto sonoro di rapida intensità che non da scampo, non da scampo però con grazia, in un etereo viaggio fatto di incubi da cui vogliamo svegliarci.

Ecco allora che l’intensità del sogno è solo il mezzo per arrivare al fine e gli Open Zoe sono i nostri traghettatori.

Wander – Wander (Nothing out there)

Wanderweb

Wander esce per la piccola label francese Nothing out There nell’ambito della trilogia “Four Arms, Two Necks, One Feedback” serie of guitar duos recordings”.

La prima uscita è stata O’Death Jug, progetto di Michel Henritzi e Christophe Langlade, la seconda appunto Wander e a chiudere ci saranno i Przewalski’s Horses.

Wander affronta il tema della musicalità pizzicata intrisa da un duo di sole chitarre acustiche che si fanno portavoce di un suono che riporta a quei film in bianco e nero, quei film carichi di nostalgia e vissuta speranza per un avvenire diverso, sentito, magari intrapreso da piccoli e sporadici avvenimenti, riportando a  casa il senso del tutto che copriva il malumore.

I Wander sono Vincenzo De Luce e Matteo Tranchesi e grazie ad una solida preparazione di base riescono a ricreare un mondo, un universo sconosciuto da esplorare tra le malinconie e i fiori rari che giorno dopo giorno si ascoltano, si accarezzano e si immolano ad essere futuro.

Una tradizione che si esprime in gusto personale, in accortezza stilistica che va ben oltre il nostro sentito dire, che lascia l’american style per abbracciare un suono più europeo, di sostanza, fuori da canoni modaioli e intrisi di perbenismo democratico.

Ecco allora che l’inesorabile avanza e si fonde nell’essere coscienza che respira, tra le sei tracce di orientale parafrasi, uno stile diverso questo, che sente l’urgente bisogno di salire in cattedra e fare scuola.

Doc Brown – A piedi Nudi (Autoproduzione)

Elettro pop vintage con stile che guarda al futuro con una certa ammirazione e una certa qualsivoglia ironia e fame di sapere che si rapporta al mondo esterno come se fosse un’esperienza da vivere giorno dopo giorno alla ricerca di una fessura, di uno spiraglio su cui dare speranze e sensazioni che vanno ben oltre l’ideale di essenza a cui siamo abituati.

Quattro tracce in tutto che ammaliano grazie ad un italiano credibile e a suoni filtrati che non fanno sentire la sovrabbondanza dei colori, ma che si limitano a percorrere e addentrare un’unica parte emozionale che gradevolmente ci accompagna e ci tiene per mano.

I Doc Brown si presentano dopo il fortunato L’uomo perde l’equilibrio con un EP sobrio, elegante e convincente che fa del racconto di vita un necessario per portare nelle orecchie di chi ascolta sprazzi di risoluta freschezza in un panorama che sembrava, con il tempo, appiattirsi inesorabilmente.

Ecco allora che vengono sfoggiate dal cilindro quattro piccole gemme da riascoltare più volte, assaporando i prati e camminando a piedi nudi, tra echi di Phoenix e letargici Baustelle, un tripudio di colori che si innesca alla sostanza e non lascia via di fuga per una manciata di canzoni che sanno di Primavera.