Musica d’autore inabissata e sempre in tiro che guarda e scruta con occhio attento le elucubrazioni viventi di paesaggi mescolati ad un brit pop concreto e di puro stampo emozionale capace di intascare visioni preponderanti e scene cantautorali in rapida ascesa in un vortice che parla di rapporti, di relazioni, di contesti scavati e lasciati a sedimentare nel mare della memoria. I paragoni più facili sembrano calzare a pennello con la musica dei primi Coldplay pur non tralasciando la vena romantica e introspettiva più vicina ad un Damien Rice o ad un Tom Mcrae in contesti carichi e comunicativi che sentono il bisogno di dare spazio a qualcosa che parla vicino al cuore, vicino a ciò che riteniamo più importante. Ecco allora che le canzoni d’apertura, a tratti energiche e in parte esplosive pensiamo a Come vorrei o Aquilone lasciano il posto nel finale alle malinconie autunnali di brani come Fuori piove, Londra o L’unica a consegnare una prova ben strutturata e capace di ricreare atmosfere davvero interessanti e centrate, alla ricerca di una soggettività capace di varcare, con forza immacolata, il confine.
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Leonardo Gallato – Tacet (Autoproduzione)
Parole sussurrate, parole lontane a riempire la risacca, a riempire d’acqua la nostra sostanza materica intrufolandosi furtivamente vicino al nostro cuore. Tacet è un album di silenzi, un disco di canzoni che accompagnano fedeli e abbracciano in attesa di un nuovo giorno, in attesa che tutto attorno possa rinfrancare, rinsaldare rapporti, ricoprire lo spazio. Il disco del cantautore siciliano, in primis, è un insieme di canzoni quasi tutte dialettali dalla forte connotazione e dalla robustezza di fondo di certo invidiabile che mescolano più generi in maniera naturale e disinvolta. Si passa dal blues più cupo e oscuro fino ad arrivare alle improvvisazioni jazzistiche per tornare ad una canzone d’autore che negli stessi singoli presentati Vientu e Notturno trova il proprio punto d’appoggio, il proprio ancoraggio senza fine. Tacet è un disco d’atmosfera, omogeneo e pittorico, un album malinconico che si veste in modo elegante non per apparire, ma piuttosto per nascondere con timidezza la bellezza che può risiedere dietro ad uno sguardo.
Matteo Fiorino – Fosforo (Phonarchia Dischi)
Matteo Fiorino è un fuoriclasse sghembo che canta storto intessendo il non sense con un approccio goliardico e fiero pur rimanendo nel complesso dimesso e quasi esistenzialista. Il nuovo album prodotto da Nicola Baronti è un insieme di visioni naturali del nostro essere al mondo raccontate in modo del tutto originale e sicuramente personale, dove avvenimenti o esperienze vissute direttamente dal nostro, intrecciano il proprio procedere con un qualcosa di più frammentato e a tratti malinconico, strappando comunque sorrisi e bellezza che possiamo scoprire analizzando i testi. Impresa alquanto ardua in quanto il significato soggettivo del tutto concede la possibilità di dare interpretazioni personali che vanno oltre l’opinione diffusa e donano però al cantautore una nota di merito per il lavoro svolto e per l’attenzione dedicata ad una visione strampalata di tutto ciò che ci circonda. In realtà a Matteo Fiorino non frega niente di tutta questa complessità, piuttosto il nostro naviga i flutti della quotidianità partendo dal proprio essere e canzoni come l’apertura Gengis Khan, Madrigale, Canzone senza cuore o la stessa title track sono poesie emblematiche per comprendere ogni singola lucentezza estemporanea proposta.
Pierpaolo Scuro – Tu che guardi (Dormiveglia dischi)
Disco che parte con il botto e poi si trasforma sinuosamente in un’avventura introspettiva per romantiche prospettive dove lo scavare in fondo alla nostra anima è diventato l’unico modo per sopravvivere ancora. Il nuovo di Pierpaolo Scuro è un viaggio dentro la condizione umana, un guardare oltre le mille sfaccettature che la vita ci propone per dare un senso diverso a tutto ciò che ci circonda, il tutto condito da una musica d’autore sporcata dal blues, dal jazz, dal rock e dallo stoner più importante. Pezzi come Non cercarmi mai, Deserto, Una notte ancora, Bambino sono emblema in evoluzione di un progetto maturo e ricercato che non si ferma alle apparenze, ma stabilisce un confine da superare tra diversi stili posti in essere in simbiosi molecolare per un album fatto di sguardi e profondità, di bellezza e ricercato amore per ciò che ci può salvare; un grido forse, una risata, un gesto significante, un passo sospeso verso quel burrone chiamato vita da superare oggi più che mai.
Edoardo Baroni – Il momento di pensare alle cose (Lapidarie Incisioni)
Contrappunti sonori ben delineati che riempiono stanze buie al calare dal solo e scrutano tra le persiane l’arrivo di un nuovo giorno, intenso, sperato, magnetico e compreso tra attimi introspettivi e felicità da raggiungere, da ammirare e da vivere pienamente. Il cantautore romano Edoardo Baroni ci regala una prova che sa di poesia che non c’è più, quel raffinato intendere il vivere del momento attraverso gli occhi di chi non ha nulla da perdere e consegna nel diario della vita un’esigenza di intrappolare il momento, la felicità sperata, l’ingegnarsi per un mondo migliore. Dentro a Il momento di pensare alle cose c’è un universo in espansione che vibra di voce e arrangiamenti scarni, ricopre il cantautorato di un Dalla e di un Battisti migliore per arrivare ai più recenti Tiromancino e sono gli attimi quelli che contano, sono loro a rendere protagonista la nostra stessa storia. L’album si dipana in un’omogeneità di fondo che non stanca, ma aggiunge canzone dopo canzone un tassello importante che ci fa riscoprire la poetica accompagnata da una leggera elettronica di sottofondo, per suoni a tratti vintage e a tratti moderni dove il testo in primo piano è sicurezza comunicativa da qui al giorno che verrà.
Elisa Genghini – Fuorimoda (Still Fizzy Records)
Cantautrice fuorimoda che attinge dal suo essere interiore, migliore, capace di consegnare un disco in grado di entrare in un mondo passato, un mondo in bianco e nero, dove la musica d’autore si approccia ad un qualcosa di più moderno e dove le costruzioni della cantautrice si risollevano raccontando di un mondo reale in modo però del tutto originale, sentito e vissuto, dove le strampalate difficoltà della vita si affrontano con il sorriso sulle labbra, si combattono cantando e divertendo. Attraverso un concentrato di emozioni queste tracce musicali colpiscono al cuore dell’ascoltatore che rimane stupito per simbiosi celata e bizzarrie che implementano la proposta in un vortice di sensazioni da non prendere mai troppo sul serio, ma piuttosto lasciando fluttuare un senso di pace ritmata in pezzi esempio come Paletto dell’amicizia, Vaffanvalzer, Signorina Mocio per un disco dal sapore d’altri tempi, un album immediato e leggero, ma non troppo, una bellissima giornata di sole condita da un vento fastidioso, ma essenziale per poter andare avanti.
Giovanni Cinque – Hobo (Autoproduzione)
Disco di un romanticismo ormai disperso che trasforma in poesia un suono decadente, minimal cantautorale che abbraccia la canzone di un tempo perduto e si sofferma nel ricreare piccoli quadri esperienziali che proteggono il futuro che verrà, ricordando per certi versi uno scavatore dell’anima, uno che viene a patti con se stesso e oltrepassa il confine della mediocrità per regalarci un prezioso primo album autoprodotto che si sofferma nel raccontare il mutare delle stagioni attraverso un viaggio introspettivo che possiamo chiamare tranquillamente amore, un viaggio fatto di profondità vocale e di importanza dei testi lucidati a dovere che presenziano e si fanno largo per caratura e pesantezza, quasi fossero diamanti in bilico tra un pop sopraffino e la musica d’autore degli anni ’70 e se proprio vogliamo dirla tutta il nostro Giovanni Cinque ha intascato una prova che stupisce per coerenza e bellezza, quasi fosse un qualcosa da preservare, oltre il tempo che verrà.
Marlò – Intro (Autoproduzione)
Pop elegante e ben congegnato capace di affilare le corde dell’anima ed incedere con gran passo verso territori cari alla canzone d’autore italiana, una musica ricca di arrangiamenti calibrati a dovere che permette di entrare in sinergia con il messaggio, con i testi, che parlano di una realtà esclusivamente tangibile, lasciando da parte il messaggio criptico del momento per conferire al tutto una profondità che parla diritta diritta all’amore e alla bellezza, raccontandone sfaccettature e senso che vanno oltre il pensiero comune, concentrandosi con parole soggettive, che riguardano vissuti e implementano le ragioni del cuore, abbandonando il miele che solitamente abbonda in questo tipo di produzioni, per lasciare una traccia di qualcosa di vero e vissuto.
Questo disco di Marlò, all’anagrafe Federica di Marcello, suona radiofonico, ma non troppo, mantenendo una componente personale che va ben oltre le mode del momento e si permette di lasciare traccia del proprio passaggio, partendo dai sentimenti più cari e vicini, quasi fosse una foto di famiglia, sbiadita del tempo, ma da conservare ancora tra le mani, come ricordo per le migliori cose, quelle che in fondo contano veramente.
Catalpa – Il suono lontano (Autoproduzione)
Domandarsi nel nostro incedere quotidiano dove si trova la purezza, quella racchiusa negli intenti, quella che non chiede, ma fa, solo per creare qualcosa di bello, di emozionante, che riappacifica il cuore e tende una mano verso coloro che magari non sanno dove andare; una musica lontana che si fa racconto, diario di vita sperimentale, coccolato da suoni acustici e da un’elettronica che non prevale, ma si fa contorno di un quadro che giorno dopo giorno tentiamo di costruire, un collage eterno che possiamo chiamare vita.
I Catalpa sono Axel Pablo Lombardi e Giuseppe Feminò, portatori di un suono puro e allo stesso tempo ricercato, lontani da qualsivoglia forma di mercificazione e in cerca di un percorso che si fa vivo nel racconto, quel racconto che si esprime al meglio nel delineare a tratti Firenze e la Versilia, luoghi dell’infanzia, luoghi di tutti i giorni; il tutto condito da un’espressività che ricorda i grandi cantautori del passato, De Gregori su tutti.
Tredici canzoni che si riappropriano di un terreno incolto, dipingendo un albero di Giuda ammaliante e rimanendo accecati dal suo splendore fino a Sorgane, tra la periferia, da dove tutto è partito, là dove la speranza può ancora rinascere.
Tra il cemento di ogni giorno, vedere l’erba spontanea crescere, ci fa capire che ci può essere ancora la vita, oltra ogni nostra aspettativa di progresso.
Samuela Schilirò – C’è sempre un motivo (Waterbirds)
Il nuovo disco della cantautrice Samuela Schilirò racchiude tutto il suo significato a partire dal titolo; speranze per un domani ed esigenza intrinseca di dare una spiegazione a quello che ci accade nel tentativo di ascoltare in modo più approfondito noi stessi, lo stato personale che si fonde con i segnali che comprendiamo da lontano e una continua ricerca apprezzabile di un costrutto sempre più vicino e personale al nostro io.
A livello musicale c’è il meglio che la canzone d’autore italiana ci può offrire e questo cammino, dopo tre anni di assenza dalle scene, è lo sviluppo di una coscienza che si basa sul ricordo e la narrazione, partire da un punto focale che ci caratterizza per proiettarci in un futuro prossimo sostenibile e guidato per l’occasione dai consigli di Sheikh Burhanuddin Herrman musicista e scrittore, maestro sufi nonché guida spirituale di Samuela.
L’album è prodotto da Nica Midulla con la collaborazione di Denis Marino già con Carmen Consoli e Nada per citarne alcuni, di Riccardo Parravicini per il missaggio e di Giovanni Versari per il matering; un disco sull’affrontare la vita a testa alta, un album che sottolinea l’importanza dell’amore come motore universale di ogni cosa.