Dainocova – Dark Tropicana (Moka Produzioni)

Trovare nel flusso delle parole qualcosa di essenziale è senza ombra di dubbio una cosa assai difficile, anche perché, quando ci troviamo davanti cantautori spiazzanti, del calibro di Dainocova, proviamo quella sensazione di sogni interrotti che vengono egregiamente narrati, in un’introspezione quasi magica e strampalata, in grado di accostare in modo ottimale testi e immagini che l’ascoltatore può crearsi all’interno della propria mente in un viaggio onirico e dimesso, per narrazioni orchestrali scarne e dove la dimensione delle parole prende il sopravvento, in un continuo andare e venire come cullati, utilizzando un eufemismo, dai problemi di ogni giorno e per l’occasione fotografati in chiaro scuro, dove le sfumature colorate vengono abbandonate e la sensazione di vuoto permanente fa da legame contorto alle aspirazioni future.

Niente di negativo, anzi, il nostro riesce a tinteggiare egregiamente paesaggi solitari e vissuti, frutto delle esperienze che lo hanno visto girare per mezza Europa, facendo del proprio bagaglio culturale e musicale una possibilità in più di esprimersi, grazie alle parole, così abbondanti e presenti, frutto di ricerca e di grande spessore artistico.

Dieci brani  appositamente scarni, che tessono vie principalmente necessarie, dirottando ogni tanto il flusso della ragione per perdersi nei meandri  dei vissuti da raccontare.

L’etiope – I nonni sono morti (Autoproduzione)

Cantautorato che esplode in arpeggi rock di matrice post ’90 in grado di catalizzare forme e dimensioni di impalcature sovraeccitanti in grado di produrre materia pronta a stupire, pronta a rendere necessaria la discesa nel quotidiano, raccontando di sensazioni, stati d’animo claustrofobici, sotto scacco negli attacchi di panico e indulgentemente rappresi ad identificarsi con un retroindiecantautorale che lega il tempo in cui viviamo alla parabola tangibile di sogni infranti e speranze da definire.

I nonni sono morti e non ce ne facciamo una ragione, questo disco è l’interruzione di un’adolescenza per entrare nell’età adulta, forse ancora troppo presto, ma il tempo e le fatalità non si possono fermare, possiamo solo cercare di capirle, forse, resta il fatto che tutto questo è legame profondo con le proprie esperienze per quattro pezzi che sono un concentrato di vissuti che ricordano i Perturbazione di In circolo, più per approccio che per singolarità musicali; un suadente viaggio per canzoni – capolavoro che esplodono in tutta la loro bellezza nella finale Immobilis in mobili, donando importanza alla quadratura del cerchio per un EP che è dimostrazione di una bellezza senza tempo.

LIVE REPORT – Kings of Convenience – Anfiteatro del Vittoriale/Gardone Riviera – 17 Luglio 2016

Nell’aria si respira il profumo delle cose migliori, un teatro sul lago in un posto dove il tempo si è fermato lasciando a sedimentare il gusto per l’eccesso e l’estetismo più assoluto in nome di una dimessa e spoglia scenografia in grado di valutare una sostanza che sembra scaturire dai sogni più nascosti e reconditi, un paesaggio in un quadro di De Chirico dove le figure nella piazza centrale abbondano di talento, un talento guadagnato in più di quindici anni di carriera e quattro album di inediti alle spalle, il primo Kings of Convenience uscito solo in Canada e negli Stai Uniti e gli altri tre, che ogni fan che si rispetti conosce nel profondo, sono dischi che hanno segnato per melodie e genere, i primi dieci anni del nuovo millennio, conquistando ad ogni ascolto, giorno dopo giorno.

Eirik Glambek Boe e Erlend Oye sono due amici dai tempi delle scuole superiori e grazie alla capacità di creare atmosfere rilassanti, con un utilizzo notevole della voce prettamente parlata e sussurrata, hanno saputo ridare un senso ad uno stile che affonda le proprie radici nel cantautorato di mostri sacri come Simon & Garfunkel, dimostrando ancora una volta, questa sera dal vivo, la potenza espressiva della semplicità, una classica amplificata e un’acustica a intessere melodie per un pop stupendo e riuscitissimo, canzoni che rimangono e non se ne vanno, canzoni che segnano il tempo nella sua introspettiva bellezza dell’incedere, riempiendo l’atmosfera di perfetta sintonia infinita.

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Un’infinità però che purtroppo ha un peso  e nella sua accezione terrena si trasforma in qualcosa di fuggevole e quasi illusorio, più di mille persone accorse per vedere il duo norvegese riuscito nell’intento di esprimere le proprie capacità più sincere, in un concerto della durata di un’ora e un quarto, forse troppo poco per come stavano andando le cose, forse troppo poco per chiedere ai sogni di non fermarsi.

Un’entrata commossa, loro che guardano il Lago di Garda, specchio d’acqua di mille leggende, per chi arriva e chi parte, applausi di calore dal pubblico, rivolti soprattutto a Erlend dopo il lutto della madre di qualche giorno fa, applausi dovuti e soprattutto carichi di un qualcosa di indefinibile e poi via, si inizia, grazia alla scelta di pezzi perfetti, da Winning a battle, losing the war, fino a Little kids, i nostri ci accompagnano nel loro salotto, in una formula confidenziale e testata, dove l’ironia di Erlend si scontra con l’introspezione di Eirik, uno vestito di bianco, l’altro di scuro, due facce della stessa medaglia che si completano nel susseguirsi di perle di pregevole fattura come I don’t know what I can save you from, passando, tra le altre, per The weight of my words, 24-25, Misread e Homesick.

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I nostri scherzano e coinvolgono le persone, li fanno entrare dentro la loro casa, il pubblico risponde, si meraviglia e si commuove, creando la serata perfetta, quella che non vorresti finisse mai, è questa la sensazione che si respira, ma ahimè anche le più belle cose prima o poi si dissolvono; un concerto in un luogo d’incanto che ha raccolto le sensazioni di due ragazzi nordici a raccontarci la loro storia, grazie alle loro canzoni, una storia finita troppo presto, ma comunque una storia che vale la pena di essere raccontata perché forse aveva ragione D’Annunzio dicendo  che la nostra vita è un’opera magica, che sfugge al riflesso della ragione e tanto più è ricca quanto più se ne allontana, probabilmente perché tante volte ci troviamo in un vortice di infinite ed effimere magie non capendo che il vero senso del nostro vivere è proprio quello di dare un significato a tutto ciò che sta nel mezzo.

Testo: Marco Zordan

Fotografie: Maurizio Andreola

La scaletta originale, con un’aggiuntiva Parallel lines non suonata.

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SETLIST effettiva:

Winnig a battle, losing the war

Toxic girl

Singing softly to me/The girl from back then

I don’t know what I can save you from

Failure

The weight of my words

Love is no big truth

Second to numb

24-25

Know how

Mrs.Cold

Boat behind

I’d rather dance with you

Misread

ENCORE

Homesick

Little kids

 

 

 

 

 

 

 

Selva – Eléo (Overdrive/Shove/Goodfellas)

Quattro tracce da contorcersi e volerne ancora, boccate di ossigeno prezioso per acqua ad annegare le speranze in suoni cupi, oscuri, taglienti che si rincorrono concedendo spazi fuori moda e inseguendo aspirazioni ed esigenze di comunicazione che vanno oltre ogni singola speranza o spirito di sopravvivenza.

Selva è disordine metal impresso nel post rock più estremo alla ricerca di una via nelle profonde viscere da seguire perpetuando una serie di congiunzioni che si stagliano nell’integrità precostituita per una band che non ama le mezze misure, rievocando fantasmi degli abissi, rumori in pressofusione per canzoni che si dipanano da Soire a Nostàlgia passando per Indaco e Alma, proprio quest’ultima suonata con Nicola Manzan agli archi, per un suono esplosivo che nella dimensione live riesce a rendere maggiormente il significato di una rabbia pronta a secernere ambizione fuori controllo.

Corrosivi quanto basta i Selva sono pronti a scardinare qualsivoglia forma di concetto pop per farvi entrare, di prepotenza, nel loro mondo fatto di tanta sostanza.

 

Antonella La Terra Inghilterra – Sulle ali della mia voce (MusicForce)

Sulle pagine di Indiepercui approdano produzioni strane, alle volte molto lontane da ciò che siamo abituati ad ascoltare e lontane anche dal genere mediamente trattato, oggi sulle pagine di questa webzine, si parlerà di Antonella La Terra Inghilterra, un nome d’arte alquanto evocativo per la terra d’Albione e del suo nuovo disco Sulle ali della mia voce, produzione che accosta la musica pop al belcanto, un mezzosoprano che si abbandona in voli pindarici ed esecuzioni perfette che rimandano la mente all’opera lirica vissuta e nel contempo spiazzano per capacità esecutiva e capacità di ricreare immagini suadenti e di puro effetto scenico, immedesimando il tutto con una teatralità sospinta nel mettere in atto un’apertura sonora che sconfina e si pone nel mezzo, donando raffinatezza nel singolo e unico brano inedito In te andrò, per lasciar spazio ad interpretazioni in lingua italiana di classici musicali che vanno da Groban a Bacalov, per citarne alcuni, in un vortice concentrico che dissolve l’aria e lascia nella mente il pensiero di una bellezza che potrebbe non avere mai fine; un album che raccoglie la nostalgia del tempo rendendola amarcord infinito.

TERZACORSIA – Sogno o realtà (MusicForce)

I Terzacorsia spaziano tra sogno e realtà alla ricerca di un suono di matrice internazionale, contaminato da un’elettronica ben calibrata e sostanziosa in testi semplici, ma efficaci nella loro interezza che ammiccano alla canzone di facile impatto costruendo un bisogno essenziale di rinascita e rivalutazione del contesto per un rock omogeneo che ricerca il pezzo radiofonico pur non disdegnando la matrice indie da cui il tutto proviene, confezionando quattro pezzi che raccontano di ombre e luci del nostro tempo, raccogliendo l’eredità del mondo circostante e filtrando le esigenze verso tentazioni ed elucubrazioni per immagini preponderanti ed effettivamente complici di un suono freddo, quasi siderale, pronto ad essere scaldato però da testi che si consumano e ci lasciano presagire squarci di luce ad accecare il sole, da Tempesta fino ad Amarsi un po’, passando per Sudore e Sogno o realtà, un EP concentrico che racconta e si fa raccontare, distendendo il passato per dichiararsi al futuro che avanza.

Salvo Mizzle – Belzebù pensaci tu (Autoproduzione)

Evoluzione musicale e di scrittura per l’artista pugliese Salvo Mizzle, che dopo il già recensito sulle nostre pagine, Via Zara del 2013, ritorna con un album maturo e introspettivo capace di portare con sé caratteristiche peculiari di un cambiamento sovrapposto al tempo che abbiamo davanti, un cambiamento che per scelte stilistiche accompagna un concept album in bilico tra il cantautorato e il rock, passando per il folk e la progressione in musica chiara negli intenti di ricreare un mondo da abitare e tante volte un mondo da cui fuggire.

Lo stesso autore ci racconta che questo è un album che parla di vita e allo stesso tempo di morte, è un disco sull’abbandono e sulle stesse riflessioni che la vita ci costringe a fare, rintanando tante volte le certezze dentro a scatole oscure e riuscendo a strappare, barcollando nel buio, quel pezzo di sorriso che ci fa tenere in vita, in modo inadeguato forse, ma pur sempre mantenendo una forza interiore di lotta verso ciò che ancora non conosciamo profondamente, energia viscerale che compone e scompone, che rimette in sesto pezzetti del nostro corpo e ci rende attenti scrutatori di ciò che siamo diventati.

Un disco composito e importante, dodici canzoni che sono la summa di un pensiero ricercato nel vivere di ogni giorno, tra velata ironia e tanta sostanza, tra il tempo che è passato e tutto quello che abbiamo davanti.

Dounia Marta Collica – Silent Town (Viceversa Records/Audioglobe)

Incontri acustici per palati sopraffini che si distendono a rimirare il mare che ci separa da un’altra terra così bella e così lontana, pezzi di vita raccontata che si lasciano trasportare dalle onde della comunicazione e del dialogo, l’incontro tra mondi lontanissimi e la facilità nel proporre sapientemente una world music stupefacente per gli italo-palestinesi Dounia e la cantautrice/strumentista Marta Collica, pezzi di cielo a ricomporre le distanze, mondi musicali assai diversi, ma incrociati per l’occasione in un folk d’autore ricco di aspettative e simbiosi letterarie, in grado di consegnare all’ascoltatore una prova di alto livello compositivo e d’atmosfera.

Nove tracce in costante e mutevole cambiamento, ma legate tutte quante da un filo comune di integrazione e bellezza, da About anything fino alle splendente finale di Malatantafi, passando per Silent town e Wolves, il duetto imprevisto si batte per ricucire l’interiorità perduta, grazie ad un comparto tecnico di pregevole fattura, che riesce nell’intento di suscitare emozioni infinite, abbandonando le ombre del passato per rischiarare tutto il cielo sopra di noi in rappresentazioni esemplari di una musica sentita.

Un disco quindi che dona tanto e si pone nell’ottica di stupire grazie a sonorità acustiche e uso delle voci, contaminazioni che a lungo andare entrano nella nostra testa non lasciandoci più, oltre il cielo, oltre il mare a cui siamo solitamente abituati.

 

Entrofobesse – Sounds of a past generation (Seltz/Viceversa Records/Audioglobe)

Corpi che si aggrovigliano e rilasciano al tempo un’ondata di aspettative che non si concretizzano, in un’oscurità celata dal profondo della nostra anima, dalla necessità di dare un senso a tutto quello che ci circonda, noi miseri esseri umani alle prese con substrati di energia da imbrigliare ed essenza viva da far propria per ritornare alla base, ritornare ad essere quello che non siamo stati mai.

Quello di Entrofobesse è un album che porta con sé carattere da vendere, raccontando di eventi immaginifici, affondando e ritornando dall’aldilà permettendo al nostro essere di cercare di dare un senso a quello che stiamo per fare, tra buchi neri e riempitivi, dopo sette anni dall’ultima uscita di Behind my spike, i nostri sono tornati più lisergici che mai incrociando sapientemente psichedelia cosmica a tanto rumore con ritratti ben delineati di un amore per la musica targata ’70, sia per approccio che per suoni utilizzati.

Ne esce un disco straordinario, che ci fa catapultare la mente dentro ad un altro mondo, un mondo che può essere diverso, in grado di cambiare la nostra mentalità, spazzare via l’inutilità del momento per dare un senso maggiore al nostro vivere; in queste tracce c’è tutta la nostra capacità di uscire dal buco di vita a cui siamo relegati per ambire ad orizzonti da osservare con occhi luccicanti.

Fantasia pura italiana – Buffoni pecore e re (VREC)

La teatralità del  momento affonda le proprie radici lungo cinque pezzi che si muovono in modo assolutamente naturale tra folk, cantautorato, funk e ska alla ricerca del mood giusto per riuscire nell’intento di prendere alla leggera i grandi temi della vita, trasformando le aspirazioni del tempo in qualcosa di più concreto e sentito, disinvolto e ironico, in grado di entrare nella testa di chi ascolta, assaporandone versi, parole e concentrati di emozioni ben definite, da ballare, per un’estate che è emblema per questa musica, per un’estate che non vuole finire.

Loro sono toscani, ma trapiantati a Roma, hanno un nome da linea alimentare da supermercato, ma non per questo sono commerciali, anzi, la loro canzone pop è intrisa di significati congegnali ad ogni occasione, si passa facilmente dal singolo Piripì fino a Fette biscottate e Rock’n’roll, cambiando genere, sentendo il respiro della gente, il calore umano, necessario a questo tipo di band per progredire, un calore generato dalla commistione di più elementi in grado di apportare una formula tanto strampalata, quanto riuscita, in nome della musica, per la musica.

Questo è un disco che non è un riempitivo per l’aperitivo delle sei, anzi, questo è un album in grado  di far comprendere una musica che al primo ascolto sembra leggera come un vento primaverile, ma che nel profondo porta con sé le necessità del nostro vivere quotidiano.