-LIVE REPORT- Un uomo e la sua tempesta – Glen Hansard / Mark Geary – Anfiteatro del Vittoriale – Gardone Riviera – 26/07/19

Anni di lotta e conquiste, anni spesi a raccogliere il sudore del tempo migliore con una forza e speranza uniche. Con quella capacità imprevedibile, ma meditata, di attendere il momento propizio, il momento giusto per essere e diventare qualcuno attraverso una piena maturità artistica più unica che rara. Glen Hansard è tutto questo. Quarantanove anni, in attività dal 1983 e solo da qualche tempo conosciuto ai più, non solo per una splendida canzone/colonna sonora, vincitrice di un premio Oscar, per il film Once, ma anche per una serie di album capaci di portare autenticità all’interno di un mondo, come quello del cantautorato, surclassato spesso da fenomeni di moda, transitori ed effimeri.

L'immagine può contenere: folla, notte e spazio all'aperto

Ultima serata per il Festival Tener-a-mente, perla di rara bellezza che da anni vede in cartellone nomi del panorama indipendente e non racchiusi in una cornice invidiabile, eterea e alquanto suggestiva. Ultima serata di festa stupefacente e sentita. Venire al Vittoriale per un concerto è un’esperienza che consiglio a tutti, davvero.

Sul palco, ad aprire Mark Geary, talento conterraneo dello stesso Glen Hansard. Gente di Dublino per intenderci. Un cantastorie raffinato ed elegante, simpatico accompagnato da un duo italiano d’eccezione, lui li chiama amici. Un cantautore  che sa reggere il palco e nel contempo magnetizza il pubblico snocciolando pensieri, quotidianità, avventure o più semplicemente vita.

A seguire l’altro irlandese. Quello che ha iniziato come artista di strada a tredici anni per poi proseguire con i The Frames,  i The Swell Season e raccogliendo dalla polvere del giorno un’essenza unica che si snocciola grazie ad una voce che conquista, ti sussurra e piano ti accoglie per poi portarti verso altre latitudini e terre da scoprire. Una persona semplice, abituata a parlare da sempre con la gente e a stare con la gente.

L'immagine può contenere: una o più persone, persone che suonano strumenti musicali, persone sul palco e notte

Un uomo che raccoglie l’eredità dei grandi del passato per trasformarla e consegnarcela stasera con la capacità di chi ha vissuto momenti che si possono solo raccontare. World music, jazz, rock e blues mescolati assieme. Dallo Springsteen migliore al primo Bob Dylan, passando per l’inglese Tom Mcrae Glen Hansard e band suonano vecchie e nuove canzoni creando un rapporto unico e invidiabile con il pubblico. Bird of Sorrow, When your mind’s made up, Don’t settle, Falling slowly, The closing door sono solo alcune gemme di rara intensità che hanno saputo dare profondità ad un concerto ricco d’atmosfera, energia e bisogno continuo di parlare con il mondo circostante.

L'immagine può contenere: una o più persone, persone sul palco, folla, concerto e notte

Uno spettacolo ad alti livelli fatto da persone che riempiono di bellezza il mondo. Suoni mescolati a dovere e quell’essenzialità pura che nasconde le rughe del tempo, ma parte proprio da queste per segnare un cammino, un incedere costante di aspettative, desideri e promesse. Una nave poi su di un lago infinito. Un anfiteatro galleggiante che anche stanotte ci ha accolti e ci ha resi a tratti immobili e silenziosi, a tratti scatenati e con l’essenza primordiale della musica nelle vene. Una nave, laggiù, ora che diventa ricordo da custodire e portare a casa. C’è tempo e possiamo ancora scegliere la nostra direzione.

Foto: Giovanni Vanoglio

Report: Marco Zordan


 

LIVE REPORT – Blonde Redhead – Anfiteatro del Vittoriale/Gardone Riviera – 22 Luglio 2016

La perfezione del suono torna stasera sul palco del Vittoriale, qui a Gardone Riviera, ospitando per l’occasione una band che è riuscita a rimanere indie fino al midollo, mantenendo un forte grado di rispettabilità nel mondo musicale, sia tra i critici che tra gli appasionati, una band newyorkese che porta il nome di Blonde Redhead, riuscita nel corso del tempo a far proprio un certo tipo di linguaggio, una forte dose di coraggio e intraprendenza che ha permesso di scardinare gli incasellamenti musicali iniziali, relegati soprattutto a similitudini d’appartenenza con gruppi come Sonic Youth, per dare nuova voce ad un genere che abbraccia la musica d’autore e la profonda ammirazione per il dream pop e lo shoegaze.

Una band che ha conquistato schiere nutrite di intenditori dopo l’uscita di due album fondamentali dei primi duemila, quel Melody certain damaged lemons, caratterizzato proprio da una sorta di melodie in stato di emergenza, capace di scavare le profondità siderali nella miglior introspezione mai sentita e quel Misery is a butterfly, proposto per l’occasione proprio stasera per un tour a ricrearlo con archi annessi, per un disco che è opera complessa e composita in stato di grazia, tra chiaro scuri e stratificazioni chitarristiche tipiche della band americana, in grado di rappresentare al meglio le trasposizioni simultanee e dilatate di una voce sognante sorretta da una base musicale levitante e leggera, ferma nel tempo e nello spazio, a raccontare angolature e nuove prospettive, una voce acuta quella di Kazu che ben si amalgama alle sovrastrutture dei due gemelli Pace, Amedeo e Simone.

Sul palco raggiungono un grado di intimità che poche band al mondo riescono a trasmettere, una maestosità che si apre quando ascolti il primo movimento dell’arco ad incentrare una bellezza nascosta, recondita, racchiusa e vibrante in divagazioni e basi in loop elettronico che colpiscono per ermeticità e capacità nel destreggiarsi e far uscire un suono il quanto più perfetto possibile, merito anche degli strumentisti presenti sul palco, merito di un’acustica pressoché immacolata e ripagante delle attese, tranne forse che per alcuni problemi di amplificazione di viole e violini nei pezzi iniziali; attese che si specchiano in canzoni sciolte in divenire, grazie ad una proposta mirata nel riproporre un album che ha fatto la storia della musica per come la conosciamo, dalla suadente Elephant woman, passando, tra le altre, per le bellezze cosmiche che si incrociano in contrappunti e aprono a Falling man, Doll is mine e Magic mountain, incursioni chitarristiche di alieni paranoici e il mellotron atmosferico che insegue il suono della batteria capace di veicolare un finale, in piedi, sotto il palco a cantare.

Un live degno di essere ricordato per una band che fa della perfezione interpretativa un modo per svincolarsi dai colleghi internazionali, un live speciale che ha riproposto per intero quel disco tanto caro a Guy Picciotto, loro produttore del tempo, nonché membro dei Fugazi, per una serata che non segna sulla carta il pienone, ma consegna agli ascoltatori una realtà immaginata e rispecchiata nel presente vissuto, concentrando l’attenzione su di un album tormentato, malinconico e quasi ossessivo, riproposto nella sua intera sostanza in un luogo che racchiude tutto questo; emblema dell’arte per l’arte, lontano da simulacri ultraterreni e donato, questa sera, per dare un senso diverso al raffinato e conteso vortice di emozioni.

Testo: Marco Zordan

Fotografie: Giovanni Vanoglio

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LIVE REPORT – Kings of Convenience – Anfiteatro del Vittoriale/Gardone Riviera – 17 Luglio 2016

Nell’aria si respira il profumo delle cose migliori, un teatro sul lago in un posto dove il tempo si è fermato lasciando a sedimentare il gusto per l’eccesso e l’estetismo più assoluto in nome di una dimessa e spoglia scenografia in grado di valutare una sostanza che sembra scaturire dai sogni più nascosti e reconditi, un paesaggio in un quadro di De Chirico dove le figure nella piazza centrale abbondano di talento, un talento guadagnato in più di quindici anni di carriera e quattro album di inediti alle spalle, il primo Kings of Convenience uscito solo in Canada e negli Stai Uniti e gli altri tre, che ogni fan che si rispetti conosce nel profondo, sono dischi che hanno segnato per melodie e genere, i primi dieci anni del nuovo millennio, conquistando ad ogni ascolto, giorno dopo giorno.

Eirik Glambek Boe e Erlend Oye sono due amici dai tempi delle scuole superiori e grazie alla capacità di creare atmosfere rilassanti, con un utilizzo notevole della voce prettamente parlata e sussurrata, hanno saputo ridare un senso ad uno stile che affonda le proprie radici nel cantautorato di mostri sacri come Simon & Garfunkel, dimostrando ancora una volta, questa sera dal vivo, la potenza espressiva della semplicità, una classica amplificata e un’acustica a intessere melodie per un pop stupendo e riuscitissimo, canzoni che rimangono e non se ne vanno, canzoni che segnano il tempo nella sua introspettiva bellezza dell’incedere, riempiendo l’atmosfera di perfetta sintonia infinita.

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Un’infinità però che purtroppo ha un peso  e nella sua accezione terrena si trasforma in qualcosa di fuggevole e quasi illusorio, più di mille persone accorse per vedere il duo norvegese riuscito nell’intento di esprimere le proprie capacità più sincere, in un concerto della durata di un’ora e un quarto, forse troppo poco per come stavano andando le cose, forse troppo poco per chiedere ai sogni di non fermarsi.

Un’entrata commossa, loro che guardano il Lago di Garda, specchio d’acqua di mille leggende, per chi arriva e chi parte, applausi di calore dal pubblico, rivolti soprattutto a Erlend dopo il lutto della madre di qualche giorno fa, applausi dovuti e soprattutto carichi di un qualcosa di indefinibile e poi via, si inizia, grazia alla scelta di pezzi perfetti, da Winning a battle, losing the war, fino a Little kids, i nostri ci accompagnano nel loro salotto, in una formula confidenziale e testata, dove l’ironia di Erlend si scontra con l’introspezione di Eirik, uno vestito di bianco, l’altro di scuro, due facce della stessa medaglia che si completano nel susseguirsi di perle di pregevole fattura come I don’t know what I can save you from, passando, tra le altre, per The weight of my words, 24-25, Misread e Homesick.

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I nostri scherzano e coinvolgono le persone, li fanno entrare dentro la loro casa, il pubblico risponde, si meraviglia e si commuove, creando la serata perfetta, quella che non vorresti finisse mai, è questa la sensazione che si respira, ma ahimè anche le più belle cose prima o poi si dissolvono; un concerto in un luogo d’incanto che ha raccolto le sensazioni di due ragazzi nordici a raccontarci la loro storia, grazie alle loro canzoni, una storia finita troppo presto, ma comunque una storia che vale la pena di essere raccontata perché forse aveva ragione D’Annunzio dicendo  che la nostra vita è un’opera magica, che sfugge al riflesso della ragione e tanto più è ricca quanto più se ne allontana, probabilmente perché tante volte ci troviamo in un vortice di infinite ed effimere magie non capendo che il vero senso del nostro vivere è proprio quello di dare un significato a tutto ciò che sta nel mezzo.

Testo: Marco Zordan

Fotografie: Maurizio Andreola

La scaletta originale, con un’aggiuntiva Parallel lines non suonata.

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SETLIST effettiva:

Winnig a battle, losing the war

Toxic girl

Singing softly to me/The girl from back then

I don’t know what I can save you from

Failure

The weight of my words

Love is no big truth

Second to numb

24-25

Know how

Mrs.Cold

Boat behind

I’d rather dance with you

Misread

ENCORE

Homesick

Little kids