Nova sui prati notturni – Non Expedit (Dischi Obliqui)

C’è della luce in questo disco e le sovrapposizioni sonore che ne derivano conquistano al primo ascolto concentrando una poesia domestica che riabbraccia il senso più profondo della parola casa in attimi di introspezione che accolgono, accarezzano e nel contempo decisi annientano e distruggono come fiume in piena per poi tornare alla calma e alla leggera consolazione del momento.

Il nuovo disco dei Nova sui prati notturni trasmette calore, nonostante i colori freddi di copertina, un calore che si evince da un packaging essenziale, ma nel contempo originale, dove la componente artigianale vince su qualsivoglia forma usuale e commerciale, un album che scalda con una formula in divenire che in parte abbandona le sonorità passate lasciando molto alle parole  la spiegazione di concetti e il fulcro di un progetto importante quanto coraggioso che investe il quartetto vicentino ormai da alcuni anni, quello stesso progetto che ora si trasforma seguendo in qualche modo i cambiamenti interiori, gli stati d’animo e le concezioni di una modernità che proprio in questa band assume un concetto anacronistico, fuori dal tempo.

Suoni che si fanno materia per composizioni che vivono di vita propria, poesie di sentimenti e natura che si intrecciano a code post rock di rara bellezza e autenticità tra episodi connotati da un forte impatto emotivo come A casa e Tiresia, passando per le deflagrazioni di Plastic Sun Rising e Non Expedit e il cantato di Duane Berry tra forme aliene e citazioni che vanno oltre un pensiero condiviso; una formula impattante che alterna, soprattutto in chiave live, la calma e la tempesta dei Marlene Kuntz di Senza Peso e la discografia concentrata di band come Mogwai e Godspeed you!Black Emperor per un nuovo inizio forse o piuttosto una continuazione nel creare forme musicali e strutture sempre nuove lontane dalle consuetudini del mercato e puntando sul fatto che forse la qualità alla fin fine conviene sempre.

-LIVE REPORT- Ermal Meta – Latteria Molloy – Brescia 04/11/16

Latteria Molloy, Brescia, 2016, posto stupefacente, un club molto ben congegnato che nel suo piccolo ha tutte le carte in regola per far da punto di riferimento, al nord, come spazio per eventi di una certa caratura, due piani, dove di sopra si mangia e strutturalmente è presente una grande apertura, che permette di vedere il palco direttamente dall’alto, con una vista per così dire aerea suggestiva e quasi essenziale per gustarsi del buon cibo e per i più fortunati, con il tavolo vicino al parapetto, di potersi guardare il concerto mangiando; ora direte voi, ma da quando in qua si guarda un concerto seduti mangiando se non stiamo parlando di un lounge bar da stuzzichini? Ecco qui c’è anche questa possibilità.

Dopo un momento, direi alquanto interessante, dedicato da Musica da bere, nell’intervistare i protagonisti della serata, sale sul palco la spalla di Ermal Meta, Andrea Amati, cantautore e soprattutto autore di testi per Nek, Annalisa, Irene Fornaciari, Marco Carta, il live set parte subito con un po’ di imbarazzo, visto che la chitarra sembra priva di segnale, ma il nostro emozionato si accorge di non aver alzato il volume dello strumento stesso; passata l’impasse generale, Andrea, accompagnato da un chitarrista, snocciola cinque pezzi puramente pop con testi non troppo incisivi, ma probabilmente apprezzati dalla stragrande maggioranza dei presenti in sala, il suono che ne esce tuttavia non risente di grandi imperfezioni e l’acustica del compagno è un’arma vincente a favore del risultato finale; riti di congedo e dopo il quarto d’ora canonico di cambio palco arriva l’ospite principale della serata.

Ermal è cresciuto e si vede, non solo in età, lo avevo lasciato ad un concerto con La fame di Camilla nel lontano 2011 all’Home Festival di Treviso, dimesso, introspettivo, una creatura che doveva ancora maturare, ma nel contempo con una forte capacità estrinseca di rendere il suo personaggio, già a Sanremo, al tempo, con Buio e Luce, un leader di una band in tutto e per tutto indie, tra sonorità impreziosite da un comparto tecnico molto valido ricordo e da un appeal che in qualche modo aveva stupito anche gli accorsi alla serata; suonavano tra Ministri e Verdena, non di certo gli ultimi arrivati in fatto di qualità della proposta e il gruppo pugliese riuscì a far parlare comunque di sé.

Il tempo passa e noi con lui, questa è la data 0 del tour Umano, i presenti, circa 300, hanno un’età abbastanza omogenea, adolescenti si, ma anche qualche signora attempata che alza la media, i suoni che escono dai cinque musicisti presenti sono alquanto strutturati, amalgamano molto bene la lezione dei Radiohead dei primi album, Pablo Honey e The Bends su tutti spruzzando qua e là manciate di elettronica campionata a valorizzare la proposta stessa che vede pian piano evolvere il concerto tra ritmi più sostenuti e momenti emozionali, Marco Skeggia Montanari sa il fatto suo e gli arpeggi e i delay che ritraggono paesaggi circostanti donano valore aggiunto alla composizione dei brani, ottimi quindi anche i suoni degli altri musicisti anche se almeno in un paio di occasioni la musicalità di base tende ad impastare il tutto a discapito della bella e incisiva voce di Ermal.

I successi scorrono uno dopo l’altro, nella scaletta appare anche una Street Spirit di oxfordiana memoria non eseguita, punti alti da raggiungere e mai completamenti vissuti fino in fondo, anche se tormentoni come Odio le favole, Buio e Luce, Bionda e Gravita con me non sono mancati a delineare un concerto elettrizzante e sicuramente preciso e riuscito, dal forte impatto emozionale; purtroppo ci sono stati anche momenti imbarazzanti, da ricordare la dichiarazione di matrimonio con tanto di canzone dedicata e lo strusciare delle ragazzine sul corpo di Ermal quando si è sollevato sulle transenne.

I tempi sono cambiati dicevo e me ne torno sicuramente a casa con un po’ di amaro in bocca, un tempo credevo che esistesse una band in grado di essere riconosciuta pop e nel contempo caratterizzata da una forte dose di personalità che poteva tranquillamente vedersela con qualsivoglia gruppo italiano di musica indie, alzando il tiro, donando il giusto apporto ad un panorama si saturo, ma anche bisognoso di un certo equilibrio, l’essere indie e l’essere pop, un grande dibattito, La Fame di Camilla era tutto questo, Ermal nell’intervista iniziale ha specificato che ora i giovani musicisti trovano il modo di partecipare ai talent cercando una scorciatoia per la via del successo, Ermal nel contempo non si accorge di alimentare questo tipo di mondo, scrivendo pezzi per coloro che escono proprio da quei talent, la qualità si è un po’ persa lungo il percorso in nome di quel qualcosa che ora ha le sembianze di una luce tropo accecante, troppo scintillante, perlomeno per me; io estremo ascoltatore dei più svariati generi musicali, ho bisogno di più pezzi come Lettera a mio padre, più buio, più oscurità, più vissuto, perché solo così ci si identifica, ritornare all’introspezione di Pensieri e Forme o di Ne Doren Tende, perché solo dalle cicatrici interiori puoi attaccarci le ali.

Setlist

  1. Umano
  2. Lettera a mio padre
  3. Volevo dirti
  4. Era una vita che ti stavo aspettando
  5. Pezzi di paradiso
  6. Odio le favole
  7. Gravita con me
  8. Come il sole a mezzanotte
  9. Crescere
  10. Buio e luce
  11. Big boy
  12. Un pezzo di cielo in più
  13. Giuda
  14. Il meglio che puoi dare
  15. Rivoluzione
  16. Schegge
  17. Bionda
  18. Straordinario
  19. Street Spirit (non eseguita)
  20. Una strada infinita
  21. A parte te

I Paradisi – Dove andrai (Autoproduzione)

Affondare le radici rock per estrapolare una musica che viene dall’anima non è sempre facile, ma I paradisi in questo album  riescono nell’intento di attingere direttamente la loro coscienza musicale nel mood della psichedelia targata ’60 per un disco che ha il sapore metafisico di un ponte sopra l’Oceano Atlantico, tanto grande da contenere dentro di sé una bellezza spaziosa, che si apre e si restringe e sa creare illusioni parallele e veridicità importante e sentita, frutto di un lavoro in sala prove originale e mai scontato; se possiamo trovare resti e rimasugli del rock passato in questo album i colori che si vanno via via definendo sono improntati su di un’essenza di musica più moderna, ricordando Le Vibrazioni dei primi album, quando ancora per approccio erano molto più underground di come le conosce il pop-olo e le sofisticazioni in apnea di band come i trevigiani Public, un album che racconta le vicissitudini della vita scavando nell’oscurità per cercare un po’ di luce, per cercare un motivo unico e valido per poter viaggiare ancora, tra pezzi che si aprono alla James Bond come per Un brutto sogno per arrivare a Strange Days, passando per la bellissima ed evocativa Voli Via il tutto amalgamando dieci tracce che vanno oltre l’idea di classic rock.

Dove andrai sono dieci pezzi che si perfezionano proprio grazie a quel ponte, in equilibrio, tra mondi totalmente diversi e dove la fame di musicalità esplode attraverso ogni percentile di vibrante attesa.

Diaframma – Siberia Reloaded 2016 (Diaframma Records/Self)

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Uomini solitari vagano camminando nella neve, luoghi inospitali dell’anima e inesplorati dove il respiro si fa affannoso e si chiude dentro a scatole senza via di fuga in abissi solitari ai benpensanti, nella ricerca sostanziosa di un dileguarsi d’ombre che permetterebbe all’essere umano di ritornare a vivere.

Quelle ombre del passato, le ombre di quel 1984 però, parlano ancora e sono ancora vive, non ci abbandoneranno mai, ecco perché questa impresa di re incisione fatta da quel genio indiscusso poeta di Fiumani una prova che ai molti sembrerà autoreferenziale e costruita, a mio avviso invece necessaria per mantenere e ricordare ciò che è stato, forse qui in veste nuova, tra arrangiamenti più puliti e aperti, meno cupi sicuramente, ma capaci di delineare quella wave trasportante che caratterizzò percorsi sonori di un tempo, musica e rabbia di uno stato delle cose, apparente bisogno di mobilità da incidere.

Ad impreziosire la proposta sei pezzi nuovi, Same, Envecelado, Niente, Non Morire, Lanterna Cieca e Taranto 1982, canzoni catapultate in un’altra epoca, seppur nella loro modernità, capaci di integrarsi al meglio con i classici di Siberia e le cosiddette Brevilinee strumentali di un Maroccolo in sperimentazione costante, attento scrutatore di un disagio che ha fatto la storia, il tutto accompagnato dai disegni in copertina di Manuele Fior.

C’è chi si reinventa andando a fare il giudice ad X-Factor e chi incurante delle mode e della fama ci sbatte in faccia la bellezza di ciò che è stato e Siberia Reloaded è un inno che sa raccontare il nostro tempo.

Ex-Otago – Marassi (INRI/Garrincha Dischi/Metatron)

Raccontare di una città in evoluzione, partire da un presupposto e cogliere i racconti della strada, le sensazioni di un mondo in mutamento percependo colori e contrasti, meritevoli di un approccio musicale che fa dell’elettronica cantautorale un punto d’inizio per cogliere i significati che la terra riesce a dare, tra le costruzioni di cemento e il bisogno soffocante di creare spazi, proprio attorno a quello stadio, proprio attorno a quel cuore illuminato a giorno che racchiude le aspirazioni di giovani musicisti con un background considerevole, quel lontano 2002 che ha formato un gruppo tra i più rappresentativi in Italia per scelte stilistiche e capacità di narrare salti e cadute si affaccia al mondo conosciuto con un nuovo disco in grado di dipingere quadri urbani di una Genova post moderna, tra i Cinghiali incazzati, il bisogno di Mare e I giovani d’oggi, gli scooter sulle strade asfaltate e quel senso di comunione con un paesaggio impresso nella propria anima e che fa da sfondo a racconti che si evolvono, parlano di noi, parlano del controverso vivere lontano dalle luci di scena, un mondo reale che grazie agli Ex-Otago merita strati e spessore, sia a livello narrativo sia a livello musicale per un disco maturo e pieno di coraggio, per un disco che parla di una città e nel contempo del bisogno di andare via.

fABIO bLIQUO – Controsensi (Autoproduzione)

Fabio Bliquo, all’anagrafe, Fabio Marroni, ci fa entrare nel suo mondo sbilenco, fatto di geometrie assurde e sperimentali, lo fa in punta di piedi, ma nel contempo con ironia, grazie a questo Controsensi che vede la luce dopo cinque anni di peregrinazioni e dopo l’uscita del primo omonimo EP che ha tuffato, letteralmente, il cantautore, nel mondo complesso delle autoproduzioni, dopo collaborazioni anche importanti come quella con Rachele Bastreghi dei Baustelle.

Il disco di Fabio è un album sulla disillusione del vivere, è un album che parla di noi, della nostra generazione e lo fa da scrutatore interiore che non si limita a narrare i fatti, ma piuttosto scaraventa gli stessi sugli occhi della gente; pensiamo a pezzi come La Lesione, Pagliacci o Made in China, provocazioni che giocano con le parole, strutture create all’occorrenza per colpire e lasciare il segno, per nove pezzi di poesia incastonata grazie ad un gusto rock mescolato sapientemente ai suoni sintetizzati e alle sperimentazioni soft per un album da incanalare e custodire tra le produzioni eterogenee e genuine, cristallino quanto basta da farsi racconto di vita per questo tempo.

LIVE REPORT – Blonde Redhead – Anfiteatro del Vittoriale/Gardone Riviera – 22 Luglio 2016

La perfezione del suono torna stasera sul palco del Vittoriale, qui a Gardone Riviera, ospitando per l’occasione una band che è riuscita a rimanere indie fino al midollo, mantenendo un forte grado di rispettabilità nel mondo musicale, sia tra i critici che tra gli appasionati, una band newyorkese che porta il nome di Blonde Redhead, riuscita nel corso del tempo a far proprio un certo tipo di linguaggio, una forte dose di coraggio e intraprendenza che ha permesso di scardinare gli incasellamenti musicali iniziali, relegati soprattutto a similitudini d’appartenenza con gruppi come Sonic Youth, per dare nuova voce ad un genere che abbraccia la musica d’autore e la profonda ammirazione per il dream pop e lo shoegaze.

Una band che ha conquistato schiere nutrite di intenditori dopo l’uscita di due album fondamentali dei primi duemila, quel Melody certain damaged lemons, caratterizzato proprio da una sorta di melodie in stato di emergenza, capace di scavare le profondità siderali nella miglior introspezione mai sentita e quel Misery is a butterfly, proposto per l’occasione proprio stasera per un tour a ricrearlo con archi annessi, per un disco che è opera complessa e composita in stato di grazia, tra chiaro scuri e stratificazioni chitarristiche tipiche della band americana, in grado di rappresentare al meglio le trasposizioni simultanee e dilatate di una voce sognante sorretta da una base musicale levitante e leggera, ferma nel tempo e nello spazio, a raccontare angolature e nuove prospettive, una voce acuta quella di Kazu che ben si amalgama alle sovrastrutture dei due gemelli Pace, Amedeo e Simone.

Sul palco raggiungono un grado di intimità che poche band al mondo riescono a trasmettere, una maestosità che si apre quando ascolti il primo movimento dell’arco ad incentrare una bellezza nascosta, recondita, racchiusa e vibrante in divagazioni e basi in loop elettronico che colpiscono per ermeticità e capacità nel destreggiarsi e far uscire un suono il quanto più perfetto possibile, merito anche degli strumentisti presenti sul palco, merito di un’acustica pressoché immacolata e ripagante delle attese, tranne forse che per alcuni problemi di amplificazione di viole e violini nei pezzi iniziali; attese che si specchiano in canzoni sciolte in divenire, grazie ad una proposta mirata nel riproporre un album che ha fatto la storia della musica per come la conosciamo, dalla suadente Elephant woman, passando, tra le altre, per le bellezze cosmiche che si incrociano in contrappunti e aprono a Falling man, Doll is mine e Magic mountain, incursioni chitarristiche di alieni paranoici e il mellotron atmosferico che insegue il suono della batteria capace di veicolare un finale, in piedi, sotto il palco a cantare.

Un live degno di essere ricordato per una band che fa della perfezione interpretativa un modo per svincolarsi dai colleghi internazionali, un live speciale che ha riproposto per intero quel disco tanto caro a Guy Picciotto, loro produttore del tempo, nonché membro dei Fugazi, per una serata che non segna sulla carta il pienone, ma consegna agli ascoltatori una realtà immaginata e rispecchiata nel presente vissuto, concentrando l’attenzione su di un album tormentato, malinconico e quasi ossessivo, riproposto nella sua intera sostanza in un luogo che racchiude tutto questo; emblema dell’arte per l’arte, lontano da simulacri ultraterreni e donato, questa sera, per dare un senso diverso al raffinato e conteso vortice di emozioni.

Testo: Marco Zordan

Fotografie: Giovanni Vanoglio

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LIVE REPORT – Kings of Convenience – Anfiteatro del Vittoriale/Gardone Riviera – 17 Luglio 2016

Nell’aria si respira il profumo delle cose migliori, un teatro sul lago in un posto dove il tempo si è fermato lasciando a sedimentare il gusto per l’eccesso e l’estetismo più assoluto in nome di una dimessa e spoglia scenografia in grado di valutare una sostanza che sembra scaturire dai sogni più nascosti e reconditi, un paesaggio in un quadro di De Chirico dove le figure nella piazza centrale abbondano di talento, un talento guadagnato in più di quindici anni di carriera e quattro album di inediti alle spalle, il primo Kings of Convenience uscito solo in Canada e negli Stai Uniti e gli altri tre, che ogni fan che si rispetti conosce nel profondo, sono dischi che hanno segnato per melodie e genere, i primi dieci anni del nuovo millennio, conquistando ad ogni ascolto, giorno dopo giorno.

Eirik Glambek Boe e Erlend Oye sono due amici dai tempi delle scuole superiori e grazie alla capacità di creare atmosfere rilassanti, con un utilizzo notevole della voce prettamente parlata e sussurrata, hanno saputo ridare un senso ad uno stile che affonda le proprie radici nel cantautorato di mostri sacri come Simon & Garfunkel, dimostrando ancora una volta, questa sera dal vivo, la potenza espressiva della semplicità, una classica amplificata e un’acustica a intessere melodie per un pop stupendo e riuscitissimo, canzoni che rimangono e non se ne vanno, canzoni che segnano il tempo nella sua introspettiva bellezza dell’incedere, riempiendo l’atmosfera di perfetta sintonia infinita.

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Un’infinità però che purtroppo ha un peso  e nella sua accezione terrena si trasforma in qualcosa di fuggevole e quasi illusorio, più di mille persone accorse per vedere il duo norvegese riuscito nell’intento di esprimere le proprie capacità più sincere, in un concerto della durata di un’ora e un quarto, forse troppo poco per come stavano andando le cose, forse troppo poco per chiedere ai sogni di non fermarsi.

Un’entrata commossa, loro che guardano il Lago di Garda, specchio d’acqua di mille leggende, per chi arriva e chi parte, applausi di calore dal pubblico, rivolti soprattutto a Erlend dopo il lutto della madre di qualche giorno fa, applausi dovuti e soprattutto carichi di un qualcosa di indefinibile e poi via, si inizia, grazia alla scelta di pezzi perfetti, da Winning a battle, losing the war, fino a Little kids, i nostri ci accompagnano nel loro salotto, in una formula confidenziale e testata, dove l’ironia di Erlend si scontra con l’introspezione di Eirik, uno vestito di bianco, l’altro di scuro, due facce della stessa medaglia che si completano nel susseguirsi di perle di pregevole fattura come I don’t know what I can save you from, passando, tra le altre, per The weight of my words, 24-25, Misread e Homesick.

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I nostri scherzano e coinvolgono le persone, li fanno entrare dentro la loro casa, il pubblico risponde, si meraviglia e si commuove, creando la serata perfetta, quella che non vorresti finisse mai, è questa la sensazione che si respira, ma ahimè anche le più belle cose prima o poi si dissolvono; un concerto in un luogo d’incanto che ha raccolto le sensazioni di due ragazzi nordici a raccontarci la loro storia, grazie alle loro canzoni, una storia finita troppo presto, ma comunque una storia che vale la pena di essere raccontata perché forse aveva ragione D’Annunzio dicendo  che la nostra vita è un’opera magica, che sfugge al riflesso della ragione e tanto più è ricca quanto più se ne allontana, probabilmente perché tante volte ci troviamo in un vortice di infinite ed effimere magie non capendo che il vero senso del nostro vivere è proprio quello di dare un significato a tutto ciò che sta nel mezzo.

Testo: Marco Zordan

Fotografie: Maurizio Andreola

La scaletta originale, con un’aggiuntiva Parallel lines non suonata.

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SETLIST effettiva:

Winnig a battle, losing the war

Toxic girl

Singing softly to me/The girl from back then

I don’t know what I can save you from

Failure

The weight of my words

Love is no big truth

Second to numb

24-25

Know how

Mrs.Cold

Boat behind

I’d rather dance with you

Misread

ENCORE

Homesick

Little kids

 

 

 

 

 

 

 

Johnny Bemolle’s – Jb (LaFameDischi)

Raccontare attraverso la musica e le immagini un viaggio chiamato vita è opera assai ambiziosa e complessa che accende speranza in chi ascolta e permette di creare racconti che si inerpicano lungo solitari quadri e illustrazioni ammirevoli e commoventi.

Johnny Bemolle è un cantautore solitario, ma deciso, caparbio nel trovare un proprio posto nel mondo in cui abitare, in bilico tra viaggi infiniti nel treno della melodia e capace di scovare le emozioni dell’anima grazie ad una voce evocativa, alla ricerca di amici con cui condividere passioni, speranze e pura bellezza nel vedere oltre il buio; attimi di luce sfiorata per una musica che affonda la propria totalità  nella bellezza del folk passeggero e internazionale.

Nelle canzoni di Johnny si trova con facilità un certo amore verso cantautori come Damien Rice, Glen Hansard, passando per Tom Mcrae e qualcosa del nostrano Bob Corn, senza dimenticare il duo Rue Royale, un amore per la poesia in musica che accoglie attimi di respiro luccicanti e strumenti semplici a tessere melodie di immediata reperibilità, inossidabili, evocative all’ennesimo ascolto e portatrici di una struttura essenziale, ma allo stesso tempo indissolubile.

Le illustrazioni sono curate da Laura Re, il packaging è qualcosa di assolutamente meraviglioso, una valigia che si apre e dentro i nostri sogni di instancabili viaggiatori, qualcuno parte, qualcuno arriva, qualcuno non fa più ritorno, tra Parigi, Budapest, Granada e la Scozia il nostro Johnny o meglio i nostri Johnny Bemolle’s colpiscono al cuore e in modo del tutto inaspettato accendano una scintilla di bellezza.

Humour Nero – Minimi Sistemi (Autoproduzione)

Riuscire a captare i segnali che provengono dall’esterno non è sempre facile, molte volte c’è una forte possibilità che il prendere alla lettera o troppo sul serio alcune questioni, anche in ambito musicale, porti ad una selettività che impedisce di ricevere il malessere di una società e nel contempo non permette di riscoprire una sempre più abbandonata ironia, unica sostanza in grado di osservare il mondo con occhi diversi.

I romani Humour Nero invece, riescono a concentrare le proprie forze, costruendo una struttura musicale e poetica alquanto portante e di sicuro effetto, mescolando in modo sapiente la lezione degli anni ’90, tra Rem e Radiohead, passando per gli Smashing Pumpkins e quell’italianità che si evince nell’uso della lingua e dei testi mai banali che possiamo trovare nei Baustelle di Amen o nei Perturbazione di Del Nostro tempo rubato, a ridare un senso necessario alla bellezza che abbiamo intorno, perlomeno in un aspirato tentativo di guardare, lontano, magari dallo spazio, quel piccolo puntino che occupiamo e che si chiama mondo.

Sei canzoni per un EP che ci lascia il sorriso sulla bocca, nulla a che vedere con l’indie folk degli ultimi anni, anzi, a mio avviso questa potrebbe essere una nuova via da percorrere: ironia in rock, con spruzzate di elettronica a rispolverare ciò che abbiamo perduto, ciò che sappiamo fare meglio, magari dal binocolo di Galileo, per guardare lassù oltre il cielo del già sentito.