-LIVE REPORT- Volevo magia Tour – Verdena – 13/11/22 – Gran Teatro Geox (Padova)

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Scatoloni da trasloco psichedelico si aprono per lasciare intravedere la luce dopo un buio durato molti anni, dopo un buio che ritrova, nella sua forma più naturale, il contatto con un mondo e un’esigenza primordiale nello scavare a fondo per recuperare il passato proiettandolo inevitabilmente in questo presente.

Ci sono elementi in simultanea che si sposano in questo concerto. Ci sono attimi di compiutezza estrema che percorrono la carriera di una delle poche band rock presenti nel panorama italiano e attualmente in circolazione. Coesistono l’energia e la ruvidità, attimi di rilassatezza di chi ha e deve dare ancora tanto e nel contempo persiste un sogno magico che dura una notte intera.

I Verdena si presentano sul palco del Geox di Padova in forma spettacolare. Prima di loro le eterogenee visioni del duo esplosivo composto da Daniele Ciuffreda e Francesco Antinori a formare quei Little Pieces of Marmelade che poco si preoccupano di dare collante alla prestazione. Il loro obiettivo è spaccare, in una sorta di fulgida immediatezza che nella breve performance proposta riesce a consegnarci una solidità di fondo entusiasmante.

Cambio palco, buio e vuoto intorno. Arrivano i Verdena. La struttura che li ospita è al completo, da molto tempo. I brani scorrono alla velocità della luce anche perché, eccetto qualche grazie di Alberto e Roberta, le canzoni sono una sudata composizione unita ricavata da un forte bisogno intrinseco di dare all’apnea un nuovo significato. Pascolare in apertura alimenta la robustezza di un comparto ritmico strumentale sempre all’altezza, un pezzo apripista capace di contenere la rabbia e le incertezze di questo tempo. A seguire, degne di menzione, Crystal Ball, Cielo super acceso, Viba, Starless, Luna, Trovami un modo semplice per uscirne, Loniterp, Caños, Sui ghiacciai a ricomporre di speranza intenzioni e futuri da costruire.

I Verdena riescono ad assemblare una bolla rock di indecifrabile importanza.  Nonostante un audio non sempre all’altezza, i suoni spesso sembravano impastati e confusi, i nostri portano a casa un concerto fatto da una band affiatata e perennemente alla ricerca di sperimentazione, non polvere nel vento, ma costruzione esistenziale di un crepuscolo eterno da cui osservare il nascere della luce. 

Set list:

  1. Pascolare
  2. Crystal Ball
  3. Dialobik
  4. Chaise longue
  5. Cielo super acceso
  6. Paul e Linda
  7. Viba
  8. Starless
  9. Luna
  10. Don Calisto
  11. Certi magazine
  12. Trovami un modo semplice per uscirne
  13. Razzi arpia inferno e fiamme
  14. Paladini
  15. Loniterp
  16. Caños
  17. Puzzle
  18. Scegli me (Un mondo che tu non vuoi)
  19. Was?
  20. Muori delay
  21. Valvonauta
  22. Un po’ esageri
  23. Sui ghiacciai
  24. Volevo magia

-LIVE REPORT- Inexorable Tour – Giulio Casale/Alessandro Grazian – 24/01/20 – Circolo Quadro – Cittadella (PD)

Vieni vieni vieni, vieni dentro e credi…ho seguito questo consiglio, ho seguito queste parole, sono andato ad ascoltare Giulio Casale e Alessandro Grazian nel tour Inexorable. Un tour che continua imperterrito dopo l’uscita dell’omonimo disco, per VREC, lo scorso anno. Tappa a Cittadella, in provincia di Padova, al Circolo Quadro. Locale intimo. Un posto dove si ascolta musica di qualità in pieno centro. Non è da tutti, non è poco.

Ritorno a vedere dal vivo Giulio Casale dopo tipo sedici anni. Lo avevo perso di vista, mio malgrado. Nel lontano 2004 c’erano ancora gli Estra e i pezzi del mio diventare adulto ora di tutto quel tempo rimane un cantautore che sa condensare teatralità, forma canzone, rock e pop in una voce davvero unica nel panorama della musica italiana.

Di gente ce n’è. Ci sono persone che sanno le canzoni, le conoscono a memoria. Io mi sono perso tipo un sacco di dischi da solista e una marea di altre cose, ma c’è sempre tempo per recuperare. Tra l’altro sono in compagnia dell’amico Vittorio. Uno che di musica se ne intende parecchio. Uno di quelli che conosce tutti i testi del cantautore di origine trevigiana ed è sempre disponibile ad aiutare il rompi scatole di turno e cioè io nel rispondere a domande sui titoli dei brani e i rispettivi album d’appartenenza.

La coppia Casale/Grazian fa la sua gran figura. Arrangiamenti elettronici in loop si alternano all’uso di chitarra acustica ed elettrica. Alessandro Grazian, ricordiamolo, oltre che cantautore solista vellutato e sopraffino è qui in veste anche di arrangiatore di pregne melodie che abbracciano un ambient atmosferico che guarda a visioni nordiche intessute di un qualcosa di misterioso e irraggiungibile. La voce invece di Giulio Casale si muove nelle profondità più nascoste a raccontare, a scavare questa e altre vite. Soltanto un video, Senza direzione, la cover di Orpheus di David Sylvian, la stessa Vieni sono episodi di rara bellezza e intensità che difficilmente scorderò.

Un concerto segreto e custodito. Un concerto pieno di riflessioni interiori per uno dei cantautori che l’Italia ha ancora bisogno di avere. La poetica con Giulio Casale non risulta celata, ma piuttosto ammanta la sfera intima e visionaria, la accende e la rende indimenticabile, proprio come quelle canzoni che mi porto dentro da quasi vent’anni, proprio come gli attimi che devo recuperare. Alla ricerca di un tempo perduto fatto di vissuti, di emozioni e di (ri)scoperte come quelle di stasera.

Testo di Marco Zordan

Foto di Vittorio Dal Ben


-LIVE REPORT- Un uomo e la sua tempesta – Glen Hansard / Mark Geary – Anfiteatro del Vittoriale – Gardone Riviera – 26/07/19

Anni di lotta e conquiste, anni spesi a raccogliere il sudore del tempo migliore con una forza e speranza uniche. Con quella capacità imprevedibile, ma meditata, di attendere il momento propizio, il momento giusto per essere e diventare qualcuno attraverso una piena maturità artistica più unica che rara. Glen Hansard è tutto questo. Quarantanove anni, in attività dal 1983 e solo da qualche tempo conosciuto ai più, non solo per una splendida canzone/colonna sonora, vincitrice di un premio Oscar, per il film Once, ma anche per una serie di album capaci di portare autenticità all’interno di un mondo, come quello del cantautorato, surclassato spesso da fenomeni di moda, transitori ed effimeri.

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Ultima serata per il Festival Tener-a-mente, perla di rara bellezza che da anni vede in cartellone nomi del panorama indipendente e non racchiusi in una cornice invidiabile, eterea e alquanto suggestiva. Ultima serata di festa stupefacente e sentita. Venire al Vittoriale per un concerto è un’esperienza che consiglio a tutti, davvero.

Sul palco, ad aprire Mark Geary, talento conterraneo dello stesso Glen Hansard. Gente di Dublino per intenderci. Un cantastorie raffinato ed elegante, simpatico accompagnato da un duo italiano d’eccezione, lui li chiama amici. Un cantautore  che sa reggere il palco e nel contempo magnetizza il pubblico snocciolando pensieri, quotidianità, avventure o più semplicemente vita.

A seguire l’altro irlandese. Quello che ha iniziato come artista di strada a tredici anni per poi proseguire con i The Frames,  i The Swell Season e raccogliendo dalla polvere del giorno un’essenza unica che si snocciola grazie ad una voce che conquista, ti sussurra e piano ti accoglie per poi portarti verso altre latitudini e terre da scoprire. Una persona semplice, abituata a parlare da sempre con la gente e a stare con la gente.

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Un uomo che raccoglie l’eredità dei grandi del passato per trasformarla e consegnarcela stasera con la capacità di chi ha vissuto momenti che si possono solo raccontare. World music, jazz, rock e blues mescolati assieme. Dallo Springsteen migliore al primo Bob Dylan, passando per l’inglese Tom Mcrae Glen Hansard e band suonano vecchie e nuove canzoni creando un rapporto unico e invidiabile con il pubblico. Bird of Sorrow, When your mind’s made up, Don’t settle, Falling slowly, The closing door sono solo alcune gemme di rara intensità che hanno saputo dare profondità ad un concerto ricco d’atmosfera, energia e bisogno continuo di parlare con il mondo circostante.

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Uno spettacolo ad alti livelli fatto da persone che riempiono di bellezza il mondo. Suoni mescolati a dovere e quell’essenzialità pura che nasconde le rughe del tempo, ma parte proprio da queste per segnare un cammino, un incedere costante di aspettative, desideri e promesse. Una nave poi su di un lago infinito. Un anfiteatro galleggiante che anche stanotte ci ha accolti e ci ha resi a tratti immobili e silenziosi, a tratti scatenati e con l’essenza primordiale della musica nelle vene. Una nave, laggiù, ora che diventa ricordo da custodire e portare a casa. C’è tempo e possiamo ancora scegliere la nostra direzione.

Foto: Giovanni Vanoglio

Report: Marco Zordan


 

-LIVE REPORT- Thom Yorke – Tommorow’s Modern Boxes Tour – 17/07/19 – Villa Manin Passariano di Codroipo (UD)

Bombarde sonore che ti arrivano dentro e difficilmente ti lasciano attraversando decenni di musica sperimentale raccolta e imbrigliata ad arte per regalare sostanziali riferimenti con un mondo in dissolvenza, ma così vicino a noi.

Thom Yorke ha sempre fatto quello che ha voluto. Con i Radiohead e anche da solista. In solitaria si perde il senso unitario di una band per lasciare posto alle interiorizzazioni in elettronica di un apparato lisergico di riferimento in grado di esplodere grazie a contraccolpi sonori intensissimi e davvero importanti. A Villa Manin quel senso unitario, a tratti eterogeneo, diventa simultaneità da assaporare.

Ad aprire il concerto Andrea Belfi, compositore, polistrumentista italiano, ma residente a Berlino, voluto da Thom Yorke e soci per aprire i live del loro tour europeo. Trenta minuti di ambient musicale capaci di percorrere, con energia maniacalmente calcolata, un viaggio sonoro che si sposta a varie latitudini toccando a tratti un post rock d’avanguardia sposato ad arte con un’elettronica jazz di confine. Ineccepibile dal punto di vista tecnico e nella cura dei suoni.

A seguire Thom Yorke. Il musicista, conosciuto ai più per essere il cantante, chitarrista e pianista della band in attività più importante del mondo, i Radiohead. Thom si dimena, fissa il pubblico, a raffica concede canzoni serrate. Sul palco con lui ai campionamenti, alle tastiere e all’elettronica il sempre fidato produttore, dai tempi di My Iron Lung EP, Nigel Godrich mentre l’arte visiva viene affidata a Tarik Barri che canalizza uno show difficile da dimenticare.

Singoloni dei vecchi album si alternano alla nuova fatica Anima, un volere alzare l’asticella della qualità sempre più alto, lassù dove pochi sanno arrivare. Incrociatori trip hop si mescolano ad un funk profuso nell’etere, innovazione dance legata al filo mutevole dell’improvvisazione, versatilità e pura necessità di comunicare un senso claustrofobico di abbandono e riscoperta.

Il cantante inglese, con il nuovo disco portato dal vivo, magnetizza il pubblico grazie ad uno spettacolo fatto di proiezioni visivamente canalizzate in flussi di coscienza che creano un tutt’uno con la musica circostante. Il Tomorrow’s modern boxes tour prosegue in un susseguirsi emozionale davvero imprevedibile e discostante. Due ore di concerto, nella splendida Villa Manin, imbrigliate queste in un’altra dimensione per un’estensione profonda e interiore del nostro io abitata da persone capaci di percepire l’arte come costruzione possibile di mondi futuri.

-LIVE REPORT- Baustelle – Gran Teatro Geox – Padova 27/04/18

La qualità si respira sui palchi polverosi sporcati dal tempo che passa segnando un’evoluzione all’insegna dei modi desueti e del volere andare in direzione contraria pur calpestando il pop digerito nel corso degli anni e trasformato in musica d’autore per poi essere ricucito, sventrato ancora e incollato per non buttare via niente, per raccogliere le cose migliori modificandole a proprio piacimento in un pensiero in musica che non ha fine, almeno per il momento.

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La musica percepita dei Baustelle oltre che ricca di rimandi e di citazionismo è prima di tutto uno spaccato di vita capace di raccontare istantanee e momenti che si fanno piena comunicazione proprio durante i live, durante quella comunione con l’ascoltatore attento e complice di essere davanti ad un gruppo di classe e di stile, mai banale e convincente.

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Stasera qui a Padova siamo in tanti, il Gran Teatro Geox ospita per l’occasione la tappa finale, della prima parte del tour di L’amore e la violenza Vol.2 ennesima fatica della band toscana che chiude il percorso iniziato lo scorso anno con il primo frammento sostanzioso del Vol.1 e che segna una svolta rispetto al precedente Fantasma, album orchestrale, introspettivo e dalle tinte che si muovono dilatate da un bianco accecante ad un nero notte inoltrata.

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Ad aprire il concerto Andrea Poggio, con la sua elettronica minimale, un po’ Battiato e un po’ creatura nordica a ricordare Erlend Oye dei Kings of Convenience in una musica piena di rimandi a qualcosa di passato, ma nel contempo tangibile e prezioso ai nostri giorni. Bravo davvero. A seguire i Baustelle e quel nome a posteriori illuminato al neon che oramai è diventato un marchio di fabbrica per i nostri e che abbaglia di luce una band che ha fatto del palcoscenico un punto d’approdo e che li vede sempre più protagonisti di una scena che hanno contribuito a creare e a mantenere.  Il comparto sonoro e strumentale è qualcosa di favoloso, i suoni sono vintage, hanno l’odore del tempo, sono calibrati a dovere e il risultato non delude le aspettative, anzi mette in risalto voci e sovrapposizioni tra Francesco e Rachele in pezzi che comprendono per la maggior parte estrapolazioni delle ultime due fatiche. L’iniziale Violenza, Amanda Lear, L’amore è negativo, Il Vangelo di Giovanni, Perdere Giovanna sono solo alcune delle più riuscite canzoni di una serata che ha visto, in una seconda parte del concerto, l’apertura a pezzi più vecchi, ma impressionanti  e sentiti dal pubblico come Nessuno, I Provinciali, Monumentale o la sempre attuale La guerra è finita.

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I Baustelle hanno raggiunto una maturità artistica ineguagliabile, complice il fatto di essere liberi di creare composizioni che non devono per forza accontentare tutti, ma che piuttosto fanno del passato una radice imprescindibile da cui partire per trasformare architetture abitudinarie e vicine all’orecchio dell’ascoltatore in qualcosa di spiazzante e avvincente, mai banale, ma piuttosto necessario per comprendere appieno una poetica contemporanea e vitale destinata ad occupare un posto d’onore nel panorama della musica italiana.

Testo: Marco Zordan

Foto: Pietro Rizzato

-LIVE REPORT- Edda – Graziosa utopia tour – 03/11/17 – CSC San Vito di Leguzzano (VI)

A due passi da casa eppure è da una vita che non ci vado il CSC di San Vito di Leguzzano si propone di essere sempre un passo in più e all’avanguardia su progetti, suoni e musiche catalizzate e provenienti da qualsivoglia angolo del mondo. Un’occasione per tornarci, un’occasione per vedere i cambiamenti e ascoltare in questo angolo sperduto dell’Alto vicentino della musica d’autore essenziale, raffinata e importante.

Edda non ha bisogno di molte presentazioni, dopo sei album con i Ritmo Tribale e quattro da solista è qui per presentarci i pezzi che compongono quella bellezza inarrivabile di Graziosa Utopia, quinto disco in studio del cantautore milanese conosciuto ai più per quel cantato tanto particolare quanto incisivo e capace di rappresentare al meglio un tipo di poetica di certo non ermetica, ma immediata e senza fronzoli che accosta parole non sense con velata introspezione che si fa desiderio di conoscenza, vanificando l’attesa e mettendo al centro, spesso, il tema della sessualità sincera, il lato femminile più vero, senza la paura di dimostrare un senso di appartenenza con il proprio essere che fa grande un artista oltre ogni luogo e soprattutto oltre ogni aspettativa.

Si suona tardi purtroppo, fuori dagli orari previsti e questa è un po’ una pecca che hanno la stragrande maggioranza dei locali di musica live in Italia, se ci fosse la possibilità di ascoltare musica ad orari decenti finito il concerto il pubblico potrebbe decidere se andare o restare vista, come in questo caso, la rivoluzione interna del CSC che permette di sedersi comodamente nei tavolini del baretto per sorseggiare e chiacchierare.

Ad aprire il concerto gli Zagreb, già recensiti anche su queste pagine, con un set davvero tirato ed energico, tra Ministri, FASK e Majakovich per canzoni che scorrono alla velocità della luce e si stampano tra le pareti della stanza e le orecchie degli ascoltatori, bravi davvero.

Con Edda sopra al palco le canzoni scendono a meraviglia, si aprono a dovere rispetto alla versione ufficiale e la potenza sonora è ben calibrata per dare al tutto l’idea di un salotto domestico amplificato eccezionalmente. Gli arrangiamenti, come nel disco, sono un qualcosa di inaspettato e vitale, merito dei musicisti che sapientemente creano architetture sonore che si inerpicano fino a conglobare nelle bizzarrie vocali del nostro, si citano i Radiohead giustamente tra arpeggi chitarristici di In Rainbows per passare ai pianoforti di Kid A, anche se il tutto prende spesso risvolti punk anarchici e liberatori. Vicine sentiamo inoltre le parole del cantautore capace di depositare nell’aria frammenti di emozioni che il pubblico presente sa percepire e portare con sé nel luogo più lontano o vicino che ama. Pezzi come Spaziale, Signora, Zigulì, Il santo e il capriolo d’apertura sono tra i momenti più incisivi di una ricerca artistica difficile da spiegare a parole e sempre intessuta di quella viscerale essenza che fa preziosa ogni singola nota e fa trasparire di onestà i numerosi inframezzi parlati riconducibili ad una passione che si fa narrazione di vita vera.

Edda si conferma come uno dei cantautori più talentuosi e tangibili della nostra penisola, un musicista dotato di una poetica astratta e nel contempo reale, accompagnato da una semplicità disarmante che lo rende grande e unico nella sua interiore timidezza. Sul palco sembra di vedere un personaggio felliniano o ancora meglio un Ligabue pittore che imbraccia una Stratocaster nera pronto a riempire di colori naif le strade che ci inglobano dal di fuori.  All’anagrafe Stefano Rampoldi nel suo essere costantemente alle prese con i propri demoni interiori è riuscito anche questa volta a regalarci in musica stati d’animo specchiati nella vita quotidiana, raccontando ciò che ci ferisce, ciò che ci fa paura, ciò che ci consuma dentro, ma soprattutto ciò che ci rende liberi di amare di nuovo.

 

 

 

-LIVE REPORT- Perturbazione/Nove metri quadri tour – Parole a confine/Caltrano(VI) – 01/04/17

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Dalle mie parti il Festival Parole a Confine è sempre e comunque sinonimo di qualità vuoi per le proposte passate vuoi per la ricerca che non si ferma alle apparenze cercando sempre di rimanere su quel filo che si muove suadente tra indie e non in nome della buona musica che anche quest’anno caratterizza la rassegna culturale in questione.

Di cultura stiamo parlando, parola che nel vicentino e immagino nella provincia italiana, generalmente viene associata alla sagra paesana e alla difesa delle tradizioni, ma che in questo caso si stacca prepotentemente dalle consuetudini per dare vita ad una serie di eventi che inglobano un pensiero condiviso e di ampio respiro, necessario questo ad aprire le nostre porte a qualcosa di diverso e nel contempo essenziale.

Cultura è un po’ come ritornare alle abitudini domestiche, quelle di tutti i giorni, quando apri il frigorifero per prenderti qualcosa, accendi la luce per leggere meglio, guardi un film o strimpelli con il tuo strumento, è la dimensione domestica quella che fa la differenza, quella che trasforma un monolocale ai confini con la realtà in un’essenzialità magica e riempita per l’occasione di storie, di emozioni e di gratitudine per il tempo passato e per quello a venire tra ciò che ci siamo lasciati alle spalle e tutto quello che deve ancora succedere.

Ecco allora i Perturbazione, band di Rivoli, provincia di Torino che per l’occasione è ospite in quel di Caltrano, provincia di Vicenza, a portare sul palco la ventennale carriera e l’ultima fatica Le storie che ci raccontiamo, primo disco in quattro dopo l’uscita degli storici Gigi Giancursi e Elena Diana, un album in parte immediato e diretto, dal suono corposo, dove l’orecchiabilità di fondo rientra nella dimensione della band pur mantenendo una profondità da concept citando il regista indiano Shekhar Kapur e il suo discorso sul nostro essere le storie che ci raccontiamo: potenzialità che definiscono la nostra esistenza.

Quello di Caltrano però è un concerto intimo, sentito e vissuto, le canzoni scorrono intensificando la sintonia dei quattro nella loro stanza, nella loro sala prove che per l’occasione diventa un palco, un palco per raccontarsi. Dieci anni dopo apre il tutto per poi proseguire con le riuscitissime Leggere parole, Primo, Del Nostro tempo rubato tra le altre e poi ancora a caricare con la sanremese L’unica per lasciare spazio alla poesia senza tempo di Agosto e di Per te che non ho conosciuto fino al finale con la sorpresa popolare veneta Nina di Gualtiero Bertelli e il cuore aperto di I complicati pretesti del come.

Stupisce l’attenzione del pubblico in sala, stupiscono gli applausi provenienti dalle tante orecchie pensanti presenti. I Perturbazione continuano ad essere il perfetto equilibrio tra canzone pop e poesia in musica, merito di Cristiano, Alex e Rossano, merito di Tommaso, cantante della band che riesce a farti entrare nella canzone che starai per ascoltare, dando significato alle parole, ai testi, esprimendo un’introspezione malinconica e nel contempo generosa che alla fine porta con sé, ricordando il citato Morrissey, una luce che non si spegnerà mai.

Testo: Marco Zordan

Foto: Riccardo Panozzo

Setlist:

  1. Dieci anni dopo
  2. Dipende da te
  3. I baci vietati
  4. Leggere parole
  5. Battiti per minuto
  6. Cinico
  7. Primo
  8. Del nostro tempo rubato
  9. Trentenni
  10. Portami via di qua, sto male
  11. Ti aspettavo già
  12. L’unica
  13. Buongiorno buonafortuna
  14. Agosto
  15. Nel mio scrigno
  16. Per te che non ho conosciuto
  17. Encore: Nina
  18. Le storie che ci raccontiamo
  19. Encore 2: I complicati pretesti del come

-LIVE REPORT- Afterhours – Castelfranco Veneto (TV) 17/03/17

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Locale disco liscio in quel di Castelfranco (TV) che per l’occasione ospita il concerto di una delle più rappresentative rock band che abbiamo nella nostra penisola dagli ’90 ad oggi, un live che vede di scena l’ultimo album della band milanese, Folfiri o Folfox, già recensito su queste pagine e che ha trovato, con piacere, un ritorno ad una musica viscerale, senza perdere la vena orecchiabile e diretta per suoni che si innestano a creare qualcosa di magico che resta lì sospeso e in bilico tra la vita e la morte.

Gli Afterhours, inutile dirlo, sono sempre e comunque sinonimo di garanzia, vuoi per la capacità di Manuel e famiglia di restare sul palco, vuoi per una cura musicale davvero notevole e invidiabile che ci troviamo alla fine dei conti, davanti a musicisti di grande talento e caratura, già presenti in band che hanno fatto la loro parte nella storia del rock nostrano degli ultimi anni e che dimostrano, come questa sera, la loro bravura nel ricreare dal vivo un disco stratificato, composito ed essenziale nel suo insieme.

Ad aprire il concerto il cantautore Andrea Biagioni, voce intensa, musiche e testi sofferti per nostalgici paesaggi da Terra d’Albione che non passano inosservati ma delineano una garanzia commovente che fa presa grazie a note acustiche e tanta sostanza espressa nelle composizioni che fanno parte dell’EP Il mare dentro, disco quasi interamente composto da cover, ma che evidenzia le capacità del cantautore/interprete toscano di delineare con bellezza d’insieme la totalità degli elementi che compongono la sua persona.

Afterhours eccoli sul palco, affiatati e intensi, capitanati dal carismatico Manuel Agnelli per un live impeccabile che attinge tutta la propria forza vitale dalle composizioni dell’ultimo disco più i classici senza tempo che oramai fanno parte degli ascolti necessari per comprendere cos’è e cos’è stato il rock in Italia. Una musica abrasiva e contorta che lascia spazio a ballate di rara intensità dove le parole e la voce graffiante del frontman sono coadiuvate dalla presenza indispensabile di Dell’Era al basso, D’Erasmo al violino, Iriondo e Pilia alle chitarre e Rondanini alla batteria, musicisti capaci di dare il giusto proseguo ad una band che si è saputa evolvere anche dopo i cambi di line up degli ultimi anni.

Ne esce un concerto davanti ad un pubblico carico e consapevole di essere davanti ad una band dal forte impatto emozionale che dopo i tentennamenti degli ultimi dischi ritorna in gran spolvero a segnare il cammino in rock troppe volte ultimamente soppiantato dal folk non sense italiano, lasciando presagire una maturità non solo estetica e d’insieme, ma dai forti contenuti intrinseci dove la poesia si trasforma in rabbia, una rabbia capace di cullare le nostre molteplici realtà.

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Foto: Raffaella Vismara

Set List:
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LIVE REPORT – Blonde Redhead – Anfiteatro del Vittoriale/Gardone Riviera – 22 Luglio 2016

La perfezione del suono torna stasera sul palco del Vittoriale, qui a Gardone Riviera, ospitando per l’occasione una band che è riuscita a rimanere indie fino al midollo, mantenendo un forte grado di rispettabilità nel mondo musicale, sia tra i critici che tra gli appasionati, una band newyorkese che porta il nome di Blonde Redhead, riuscita nel corso del tempo a far proprio un certo tipo di linguaggio, una forte dose di coraggio e intraprendenza che ha permesso di scardinare gli incasellamenti musicali iniziali, relegati soprattutto a similitudini d’appartenenza con gruppi come Sonic Youth, per dare nuova voce ad un genere che abbraccia la musica d’autore e la profonda ammirazione per il dream pop e lo shoegaze.

Una band che ha conquistato schiere nutrite di intenditori dopo l’uscita di due album fondamentali dei primi duemila, quel Melody certain damaged lemons, caratterizzato proprio da una sorta di melodie in stato di emergenza, capace di scavare le profondità siderali nella miglior introspezione mai sentita e quel Misery is a butterfly, proposto per l’occasione proprio stasera per un tour a ricrearlo con archi annessi, per un disco che è opera complessa e composita in stato di grazia, tra chiaro scuri e stratificazioni chitarristiche tipiche della band americana, in grado di rappresentare al meglio le trasposizioni simultanee e dilatate di una voce sognante sorretta da una base musicale levitante e leggera, ferma nel tempo e nello spazio, a raccontare angolature e nuove prospettive, una voce acuta quella di Kazu che ben si amalgama alle sovrastrutture dei due gemelli Pace, Amedeo e Simone.

Sul palco raggiungono un grado di intimità che poche band al mondo riescono a trasmettere, una maestosità che si apre quando ascolti il primo movimento dell’arco ad incentrare una bellezza nascosta, recondita, racchiusa e vibrante in divagazioni e basi in loop elettronico che colpiscono per ermeticità e capacità nel destreggiarsi e far uscire un suono il quanto più perfetto possibile, merito anche degli strumentisti presenti sul palco, merito di un’acustica pressoché immacolata e ripagante delle attese, tranne forse che per alcuni problemi di amplificazione di viole e violini nei pezzi iniziali; attese che si specchiano in canzoni sciolte in divenire, grazie ad una proposta mirata nel riproporre un album che ha fatto la storia della musica per come la conosciamo, dalla suadente Elephant woman, passando, tra le altre, per le bellezze cosmiche che si incrociano in contrappunti e aprono a Falling man, Doll is mine e Magic mountain, incursioni chitarristiche di alieni paranoici e il mellotron atmosferico che insegue il suono della batteria capace di veicolare un finale, in piedi, sotto il palco a cantare.

Un live degno di essere ricordato per una band che fa della perfezione interpretativa un modo per svincolarsi dai colleghi internazionali, un live speciale che ha riproposto per intero quel disco tanto caro a Guy Picciotto, loro produttore del tempo, nonché membro dei Fugazi, per una serata che non segna sulla carta il pienone, ma consegna agli ascoltatori una realtà immaginata e rispecchiata nel presente vissuto, concentrando l’attenzione su di un album tormentato, malinconico e quasi ossessivo, riproposto nella sua intera sostanza in un luogo che racchiude tutto questo; emblema dell’arte per l’arte, lontano da simulacri ultraterreni e donato, questa sera, per dare un senso diverso al raffinato e conteso vortice di emozioni.

Testo: Marco Zordan

Fotografie: Giovanni Vanoglio

scaletta blonde

LIVE REPORT – Kings of Convenience – Anfiteatro del Vittoriale/Gardone Riviera – 17 Luglio 2016

Nell’aria si respira il profumo delle cose migliori, un teatro sul lago in un posto dove il tempo si è fermato lasciando a sedimentare il gusto per l’eccesso e l’estetismo più assoluto in nome di una dimessa e spoglia scenografia in grado di valutare una sostanza che sembra scaturire dai sogni più nascosti e reconditi, un paesaggio in un quadro di De Chirico dove le figure nella piazza centrale abbondano di talento, un talento guadagnato in più di quindici anni di carriera e quattro album di inediti alle spalle, il primo Kings of Convenience uscito solo in Canada e negli Stai Uniti e gli altri tre, che ogni fan che si rispetti conosce nel profondo, sono dischi che hanno segnato per melodie e genere, i primi dieci anni del nuovo millennio, conquistando ad ogni ascolto, giorno dopo giorno.

Eirik Glambek Boe e Erlend Oye sono due amici dai tempi delle scuole superiori e grazie alla capacità di creare atmosfere rilassanti, con un utilizzo notevole della voce prettamente parlata e sussurrata, hanno saputo ridare un senso ad uno stile che affonda le proprie radici nel cantautorato di mostri sacri come Simon & Garfunkel, dimostrando ancora una volta, questa sera dal vivo, la potenza espressiva della semplicità, una classica amplificata e un’acustica a intessere melodie per un pop stupendo e riuscitissimo, canzoni che rimangono e non se ne vanno, canzoni che segnano il tempo nella sua introspettiva bellezza dell’incedere, riempiendo l’atmosfera di perfetta sintonia infinita.

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Un’infinità però che purtroppo ha un peso  e nella sua accezione terrena si trasforma in qualcosa di fuggevole e quasi illusorio, più di mille persone accorse per vedere il duo norvegese riuscito nell’intento di esprimere le proprie capacità più sincere, in un concerto della durata di un’ora e un quarto, forse troppo poco per come stavano andando le cose, forse troppo poco per chiedere ai sogni di non fermarsi.

Un’entrata commossa, loro che guardano il Lago di Garda, specchio d’acqua di mille leggende, per chi arriva e chi parte, applausi di calore dal pubblico, rivolti soprattutto a Erlend dopo il lutto della madre di qualche giorno fa, applausi dovuti e soprattutto carichi di un qualcosa di indefinibile e poi via, si inizia, grazia alla scelta di pezzi perfetti, da Winning a battle, losing the war, fino a Little kids, i nostri ci accompagnano nel loro salotto, in una formula confidenziale e testata, dove l’ironia di Erlend si scontra con l’introspezione di Eirik, uno vestito di bianco, l’altro di scuro, due facce della stessa medaglia che si completano nel susseguirsi di perle di pregevole fattura come I don’t know what I can save you from, passando, tra le altre, per The weight of my words, 24-25, Misread e Homesick.

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I nostri scherzano e coinvolgono le persone, li fanno entrare dentro la loro casa, il pubblico risponde, si meraviglia e si commuove, creando la serata perfetta, quella che non vorresti finisse mai, è questa la sensazione che si respira, ma ahimè anche le più belle cose prima o poi si dissolvono; un concerto in un luogo d’incanto che ha raccolto le sensazioni di due ragazzi nordici a raccontarci la loro storia, grazie alle loro canzoni, una storia finita troppo presto, ma comunque una storia che vale la pena di essere raccontata perché forse aveva ragione D’Annunzio dicendo  che la nostra vita è un’opera magica, che sfugge al riflesso della ragione e tanto più è ricca quanto più se ne allontana, probabilmente perché tante volte ci troviamo in un vortice di infinite ed effimere magie non capendo che il vero senso del nostro vivere è proprio quello di dare un significato a tutto ciò che sta nel mezzo.

Testo: Marco Zordan

Fotografie: Maurizio Andreola

La scaletta originale, con un’aggiuntiva Parallel lines non suonata.

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SETLIST effettiva:

Winnig a battle, losing the war

Toxic girl

Singing softly to me/The girl from back then

I don’t know what I can save you from

Failure

The weight of my words

Love is no big truth

Second to numb

24-25

Know how

Mrs.Cold

Boat behind

I’d rather dance with you

Misread

ENCORE

Homesick

Little kids