Radiocut – Radiocut (Resisto)

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La consuetudine è lasciata in disparte in questa piccola prova registrata dai Radiocut, dentro a questa musica possiamo trovare il meglio dell’indie pop rock internazionale dell’ultimo periodo, condensato e stratificato per l’occasione, centrando l’obiettivo attraverso quattro pezzi di pura goduria radiofonica con piglio indie che non si fa disdegnare, anzi dona al tutto un senso di sperimentazione e parallelismi che escono dagli schemi e abbagliano. Ascoltare i Radiocut è un po’ come mescolare i primi Muse di Showbiz con gli Ours di Jimmy Gnecco intrappolati dalla voce di un Tom Mcrae in ottima forma, una voce comunicante ed espressiva capace di penetrare la carne e scivolare come acqua in Autunno. Il singolo Vajolet Rose apre il il disco, ma non sono da meno gli altri pezzi, su tutti My green moon. Un EP di stampo emozionale che convince e si fa riascoltare aspettando un full legth che valutando le premesse, non tradirà di certo le aspettative future.

POVEROALBERT – Ma è tutto ok (Autoproduzione)

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Il disco dei Poveroalbert, band campana dalle forti capacità espressive, guarda alle sonorità del futuro intrecciando la bellezza malinconica di ciò che sono stati gli anni ’90, soprattutto per band come Radiohead che tanto hanno influenzato i suoni dei big internazionali per come li conosciamo ora e che anche in questo album vengono considerati come fonte d’ispirazione per le alienazioni da cameretta di un suono capace di fondere la canzone d’autore con un rock incredibile e originale in grado di perseguire fluttuanti obiettivi raccontando di un mondo fatto di introspezioni e insostenibile mancanza di qualcosa. Sono i mostri che combattiamo ogni giorno, sono le nostre paure e la nostra rabbia alternata alla malinconia di fondo e quella fame di vita che ci fa urlare attraverso nove tracce riuscite che si muovono egregiamente tra ballate acustiche e delay emotivi, attimi di luce che ripiombano nell’oscurità partendo da un’intro considerevole fino al finale Non teme nulla passando per perle da tenere in considerazione come Fallimento o Canzone per la tua sicurezza. Quello dei Poveroalbert è un disco che ci fa vedere le parti negative dell’essere umano, quell’idea viscerale di fallimento che porta il conflitto a sperare in una luce nuova e reale abbandonando la sicurezza e concentrando l’attenzione sul reale vivere quotidiano.

Il diluvio – Il diluvio (Autoproduzione)

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Lande desolate dove il buio sembra vincere su tutto il resto, un tripudio di colori che abbracciano l’intensità del vuoto e ammaliano di luce grazie ad arpeggi che parlano e partono direttamente da altri mondi, si fanno veri in una ricerca testuale che comprende il nostro vivere dissimulato su spazi profondi, in attesa della pioggia che verrà, in attesa di quel salto nel vuoto da poter apprezzare, vivere e completamente abbandonare per lasciare spazio a nuovi slanci poetici, per un indie rock, questo della band bresciana Il diluvio  che sa apprendere da tutto il filone malinconico indie di band come Radiohead su tutti passando per la velata amarezza dei Fleet Foxes in un ep di cinque pezzi che racchiude la forza intrinseca dei viaggi nello spazio, il bisogno di fuggire per non vivere di rimpianti e quella rassicurata certezza che prima o poi l’acqua tornerà per lavare le nostre ferite, per farci dimenticare, anche solo per un momento la nostra finitudine.

Edless – Belotus (Autoproduzione)

Disco labintico che incalza i suoni stratificati dei Radiohead di Kid A e Amnesiac per portarci in porti relativamente più sicuri come quelli di Hail to the thief ricucendo un tessuto che sa anche un po’ di anni ’90, ha il sapore del già sentito in passato, ma nel contempo così elettrificato e condito che la formula risulta certamente moderna e ricercata in una condivisione di intenti che abbatte le forme canoniche di indie rock band per approdare ad un vellutato crocevia visuale che si immola alla quintessenza dell’arte stessa, tra forme costruite ad arte in un immaginario ampliato che non è solo musica, ma anche immagine, visual art che accompagnerà il movimento dei brani che ben si innestano in questo piccolo EP di quattro pezzi, un piccolo disco uscito alla fine della primavera, ma carico di quella sostanziale introspezione che trova il suo apice nella bellissima e conturbante Just Once, rincorrendo i giorni, rincorrendo un’immagine preponderante davanti ad un mondo privo di forza mobile.

Be a Bear – Push-e-Bah (La Sete Dischi)

Siamo entrati nella tana dell’orso per vedere di che cosa è capace, siamo entrati per scoprire il suo mondo e ne siamo stati colpiti, quasi scaraventati al suolo dalla potenza di questa forza elettronica digitale che si immedesima con un essere naturale, ma che di naturale ha gran poco, se non l’idea di colpire, l’idea di quella grazia vintage che ricompone egregiamente questa musica che sa di evoluzione e procedimento alquanto certosino, una natura che in primis non si percepisce, ma ascoltandola a fondo si può sentire il rumore della neve, della pioggia che cade e dei torrenti di montagna a ricoprire gli strati di una realtà che ci circonda e si siede accanto a noi.

Filippo Zironi ci consegna un disco realizzato con un IPhone, si proprio con un telefono, un album d’avanguardia e allo stesso tempo influenzato da musicisti internazionali di pregevole fattura come Moderat, Radiohead, MGMT, per ricucire sonorità incanalate dentro alle dieci tracce, canzoni trasportate da un’avanguardia in divenire, capaci di sostanziali cambiamenti e sorprese, capaci di colpire ulteriormente anche attraverso l’uso della voce segnando un punto di rottura con il passato, forse, o più semplicemente sentendo nelle vene della quotidianità la strada da seguire, certo del fatto che riserverà numerose soddisfazioni.

Clowns from other space – Zeng (BoleskineHouseRecords)

Vengono dallo spazio profondo, dalla storia di fine ’80 e inizi ’90, dove il grunge era ancora distante e dove l’uscita di scena della new wave portava l’ingegnosità e la scoperta di un rock fatto d’atmosfere crepuscolari, malinconiche e di sicuro effetto.

I nostri clowns hanno raccolto l’eredità del tempo e per l’occasione si vestono di nuova linfa facendo della loro musica un veicolo introspettivo che parla proprio di quei tempi andati incrociando fedelmente i primi U2, i The Smiths e i Radiohead di Pablo Honey in un eterno passaggio concentrico di luci e ombre, di possibilità mancate e di rabbia repressa pronta ad uscire e convogliare  in distorsioni che anticipano il post rock e le lisergiche gradazioni di colore che riempiono il nero che vive attorno a noi.

Un disco pieno e misterioso che si fa ascoltare più volte e forse per nostalgia verso quel mondo ricrea sentimenti di voracità e solitudine, di fame musicale e di costante ricerca di sovra strutture da interpretare costantemente, tra l’apertura di Shifted fino al finale obliquo e portentoso di Scenes, fatto di cambi di tempo e continue aperture, un album per nostalgici che si proietta egregiamente in questi anni aperti all’indefinito.

 

Julie’s Haircut – The Wildlife Variations (Trovarobato e Woodworm)

Ritorno, dopo 3 anni, sui palchi di tutta Italia, per i Julie’s Haircut con l’album “The Wildlife Variations”.

Disco in digitale e in un numero limitato di vinili per collezionisti e fan della prima ora.

Il gruppo, già presente dalla metà degli anni novanta, risulta essere più maturo nelle sonorità e nell’approccio ai testi sia a livello di contenuto che di comunicazione.

L’album è una miscela eterea di suoni alchemici magistralmente fusi in un suono unico e riconoscibile, ep che si accinge a fare da preambolo al disco vero e proprio che uscirà a fine anno.

4 canzoni che parlano dell’uomo alle prese con la natura, del rapporto tra magia e scienza; il tutto condito da numerose citazioni come in “Johannes” dove Keplero è inteso come personaggio emblematico accompagnato dalla teoria della “musica universalis”.

Questo infatti è l’universo dei Julie’s Haircut, parte intrecciata di un mondo diviso dal male e dal bene, dall’uomo e dalla natura appunto.

Nascosto tra gli alberi “Joycuttiani” troviamo Heidegger che assiste al concerto dei Beatles del White Album che per l’occasione sono accompagnati all’elettronica da Jhonny Greenwood.

In rigoroso silenzio si attende il finale, mosso dalla splendida “Bonfire” e dalla degna coda di “The marriage of the sun and the moon”.

Heidegger si alza in piedi e applaude, sorridendo alla luna.

Marco Notari – Io? (Libellula/Audioglobe) 2011

Da Jonsi ai Sigur Ros, dai Radiohead a Thom Yorke di “The Eraser”, Marco Notari sforna un lavoro caleidoscopico, poliedrico che abbraccia una moltitudine di generi, suoni, colori.

Una copertina firmata da Tommaso Cerasuolo cantante dei Perturbazione, già presente quasi in toto nella creazione del video “Porpora” nello splendido “Babele”; penultima fatica del piemontese Notari.

Le sonorità di “Io?”, rispetto a quelle del precedente disco, sono più ricercate, non sempre immediate come possono sembrare anche perchè ci troviamo davanti ad un album ricco di influenze: dall’elettronica ambient, dal pop raffinato, al rock urlato fino ad abbracciare quella canzone d’autore tanto cara al cantautore Piemontese.

Io?” prima canzone, ritmo tribale e percussioni miste all’elettronica ottimo inizio con quel ritornello legato al tempo accompagnato da un organetto. “Un tempo per restare in due sopra al mio cuore”.

Le stelle ci cambieranno pelle”. Non ci sono presentazioni: Belle and Sebastian incontrano Afterhours e Sigur Ros.

Con la terza canzone “La terra senza l’uomo” le nostre orecchie ascoltano qualcosa di già sentito nel disco d’esordio “Oltre lo specchio”.

Dina” ballata delicata, storia di vita vissuta, xilofono e modulazioni sonore: bel connubio per un testo quasi sussurrato.

L’inizio di “Hamsik” è un omaggio al quintetto oxfordiano e anche il testo ricorda per molti versi il concetto presente in “Hail to the thief”, un affronto alla politica da carta patinata.

Io, il mio corpo e l’inconscio” altra ballata, questa volta poco incisiva e che ha quel qualcosa di già sentito, con sonorità tardo ’70.

Il settimo brano “L’invasione degli ultracorpi” cori alla Marco Notari che incontrano sonorità british e accordi e pensieri “Affamati di Camilla…”

Con “Apollo 11” siamo di nuovo nello spazio, forse la canzone più bella di tutto l’album “Ci siamo odiati, amati, fatti male, tu sei la sola cosa per cui vorrei tornare”.

“Canzone d’amore e d’anarchia” con inizio alla “Daphne Descends dei compianti “Pumpkins” di “Adore” ci fa capire che siamo ancora portatori di pensieri per lottare.

Chiusura con una reprise della prima canzone alla maniera della meraviglia sonora di “Staralfur” degli islandesi Sigur Ros. Brano strumentale che annuncia speranza nel domani.

Questo disco è un viaggio dalla terra alla luna A/R, un volo pieno di rabbia e poesia, dolore e attivismo mai inerzia e apatia. Un disco, a mio avviso non all’altezza del precedente, anche perchè meno concept e quindi meno immediato, ma che cerca di farti aggrappare ancora a qualcosa che sia portatore di cambiamento: “cambiano i colori e sono migliori”.

www.marconotari.it