Gli Altri – Fondamenta, Strutture, Argini (DreaminGorillaRecords – Taxi Driver)

Rabbia, questo è il concetto di distribuzione-vita de “Gli altri”, che fanno dei suoni pesanti il loro marchio indelebile di fabbrica quasi a dimostrare una maestosità capace di bruciare idee di punti fermi, che se in un primo momento risultavano statiche ora rinvigoriscono per conglobare macerie e per ricostruire il distrutto.

Un bellissimo disco di stonefondamenta-strutture-argini-gli-altrir rock, mai banale e mai prevedibile; l’ascoltatore è risucchiato da un vortice continuo di suoni-emozioni che a lungo andare stabiliscono un contatto con la realtà di tutti i giorni, quasi ad essere un affresco marchiato con il sangue di un’ ingiustizia che ci accomuna e ci divora.

Si perchè “Fondamenta, Strutture, Argini” oltre ad essere un nome altamente chiarificatore è anche un inno per i 5 savonesi che gridano la loro protesta ,capitanata da uno sputo in faccia al vivere corrotto, dove la lotta si fa portavoce di parole; rivolta questa battaglia ad un male endemico da debellare.

“Non sento più cosa sono “ si canta in “Oltre il rumore” mentre la consapevolezza-disincanto fa eco in “Il mio spazio possibile”.

Quando si pensa di aver trovato una via di fuga ci si piega “All’orizzonte” al silenzio dei cantieri costruiti nella notte.

La strumentale perlacea e kuntziana “06:33” accompagna l’entrata roboante di “Le difficoltà del volo” altro elogio al liberarsi dai soprusi quotidiani, mentre “Instanbul” narra senza parlare vicende di guerra e riprese cadenzate da riverberi echeggianti.

“Cera” è amore al vetriolo, la canzone più riuscita, un post rock dal sapore arabeggiante, che si apre a magnificenze sonore di notevole livello lasciando spazio alla fiaba ingravescente de “La falena”.

Se De Andrè fosse ancora vivo griderebbe al miracolo: nella “Buona Novella” il canto-disincanto era origine di un male interiore che doveva essere combattuto in nome di una rivoluzione pacifica e dimostrabile attraverso una morale unica, in “Fondamenta, Strutture, Argini” si analizza un periodo privo di certezze e modelli da seguire, fatto di egoismo e noncuranza in attesa che la direzione da seguire non parta solo ed esclusivamente da “Noi”, ma anche da “Gli Altri”

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Il fratello – Il fratello (I dischi del minollo)

Una saracinesca sbarrata, scura, dalle tonalità dimenticate, 2 bambini camminano sopra  un marciapiede: sorella e fratello uniti, quest’ultimo sembra essere accecato da qualcosa, da una luce e decide di seguirla incurante di dove può portare.

Al ritorno il fratello non c’è più la bambina sembra non accorgersene; dove è finito per tutti questi anni?.

Inizia così l’avventuphpThumb_generated_thumbnailjpgra di Andrea Romano, siciliano, classe 1977 che assieme a Paolo Mei, Peppe Sindona, Francesco Cantone e Toti Valente forma alla fine degli anni 90 i Matildamay.

Poi l’avventura finisce, si sgretola, ma i rapporti rimangono e con questo disco nuove collaborazioni si presentano all’orizzonte.

Per l’occasione “Il fratello” ospita Mauro Ermanno Giovanardi, Lorenzo Urcillo (Colapesce), Giovanni Caruso, Valerio Vittoria, Angelo Orlando Meloni, Tazio Iacobacci, Carlo Barbagallo e Cesare Basile.

Un collettivo nel collettivo, amici soprattutto,  che grazie all’ispirazione inesauribile di Andrea Romano catapultano il suono a formare 8 tracce di delicata introspezione dove a parlare sono gli anni passati a rincorrere errori e gesti buoni da chiudere in un cassetto e riscoprire quando la stagione regala nuove idee e aspirazioni.

Velata amarezza nei testi, quasi aria mattutina invernale, un cuore malinconico dunque, ma aperto ad ogni forma di empatia con il mondo circostante; l’accostamento con la forma canzone e gli arrangiamenti dopo, risulta alquanto puntualizzato da sottofondi riverberati e voce soffusa, tende che si tendono in un abbraccio infinito.

Così Andrea parla del rumore di Lei, del rumore della luna o dell’assenza in “Vai via”, più dolce “Cos’ha che il mio mondo non ha” con Colapesce mentre la verità si fa auto determinazione in “E’ vero che per te” chiudendo con la meraviglia autobiografica “Nei ricordi di mio padre”.

Andrea con questo disco dipinge un mondo fatto di dissolvenze e profondità segnando la strada ad un nuovo cantautorato “nordico” figurativo dove ombre si stagliano nelle coscienze di chi ascolta, creando, grazie a rara capacità personale, quel pensiero di rimettersi in gioco sempre e comunque.

The Doormen – Black Clouds (The Orchard)

Un lavoro importante contornato da matrice bulimica di suoni british senza scadere nella retorica qualunquista cittadina e creando spazi di riflessione post floydiana di sicura classe e impatto sonoro.

I giovani Doormen ravennati e ablack-clouds-the-doormenttivi dal 2009, dopo un ep autoprodotto e esaurito in poco tempo nel 2011 danno vita all’omonimo primo full length prodotto da Paolo Mauri (Afterhours, La Crus … ) che permette alla band di condividere i palchi con artisti del calibro di Ash e The Vasellines.

Il periodo di grazia si protrae tutt’oggi, Aprile 2013, con l’uscita del nuovo miracolo di casa-circuito Audioglobe, un lavoro quasi maniacale che punta molto non solo sulla qualità estetica, ma soprattutto su di una qualità pratica e stilistica di ampie vedute internazionali.

Le influenze stagionali sono rielaborate in chiave ludico – malinconico ed ecco quindi che troviamo Editors e Audioslave, con punte subsonichiane nei ritmi sincopati del battere e levare della batteria: precisa samurai di casa Emilia.

Un piccolo gioiello ricoperto di sole e d’avorio che vede nel singolo “My wrong world” un incontro tra sonorità fine 80 e ritornelli claustrofobici a segnare inizi di una fine impossibile.

La dimensione del loro suonare prende forma in pezzi chiave come “Father’s Feelings” e “We are the Doormen” perché se l’incipit strizza l’occhio oltremanica il resto è vanità stilistica che i 4 riescono a esaltare al meglio grazie anche alla voce di Vincenzo Baruzzi che ricorda un malato Ian Curtis in pezzi lisergici come “Staring at the Ceiling” e “Silent Suicide”.

“Nuvole nere” potrebbe essere la colonna sonora di un tempo, il nostro tempo, che privo di colonne portanti emana capacità e pathos che conglobano il pensiero in un unico mondo possibile dove tristezza è sinonimo di perfezione.

Corrado Meraviglia – L’occasione (La fame dischi)

Quando si dice avere “L’occasione” e utilizzarla al meglio.

Quando si vuole racchiudercorrado-meraviglia-loccasionee un mondo in un piccolo disco dal grande contenuto morale e addobbato da un packaging che fa gridare alla Meraviglia, frutto della collaborazione con lo studio Cikaslab di Riccardo Zulato dei  Menrovescio.

Quando si parla di rapporti d’amore, di rapporti sociali, di vita al limite e riprese considerevoli, idee che sembrano di tutti, quasi banali, ma che nelle corde di Corrado vengono sprigionate in maniera quasi perfetta.

Lontano dal disco precedente, il cantautore ci fa scoprire una forma canzone più compatta creando un appeal di gusto  sopra la media utilizzando una sensibilità tale da rimanere stupiti anche solo al primo ascolto.

In genere sono rari i momenti di catarsi in cui i musicisti riescono a mettersi a nudo  con poco più di 10 canzoni, riuscendo a creare con l’ascoltatore un tutt’uno di potenza e poesia; eh si perché di questo stiamo parlando, in poco più di mezz’ora ci sono chitarre malate, distorte che chiedono aiuto, quasi perdonando un male comune che porta al tracollo una società in bilico su di un dirupo, ci sono pianoforti elettrificati che suonano su mari quieti e carichi di nostalgia, ci sono chitarre acustiche a creare tappeti sonori mai scontati e ci sono voci che si fanno ricordare senza bisogno di chiedere altro.

Non servono paragoni perché “L’occasione” è un disco inclassificabile nel classificabile.

Se ai più sembra di sentire qualcosa di già sentito, io personalmente invito a un attento riascolto sottolineando le partenze agghiaccianti di “L’occasione” sussurrate parole ricche di immagini o le ironiche ballate “Vacanza” o la potente “La bella stagione” che con amarezza canta “Per quest’anno non cambiare, stessa spiaggia stesso male” e come possiamo dimenticarci di “Sam” dal sapore Trickyiniano come del resto delle sussurate “Luccica” e “Trasparente”.

Corrado regala all’Italia un album che deve essere ascoltato.

Un disco non per tutti o meglio un disco per chi vuole cambiare qualcosa.

 

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Andrea Carboni – Due [] (Autoproduzione)

Ci troviamo al cospetto di una meraviglia sonora.

Il cantautore approccia lo stile, legato il tutto da una parabola ascendente e elegante, dal gusto romantico e irrinunciabilmente nostalgico.

Ascoltando andrea-carboniAndrea Carboni non possiamo rimanere indifferenti ci sono i La Crus, Afterhours, Paolo Benvegnù e quel cantautorato-rock tanto caro al mood impegnato e fantasioso allo stesso tempo che incanala energia e underground pronto a sprigionarsi ad ogni singola nota.

Andrea è poliedrico musicista che in questa ultima prova è affiancato dalla capacità di Rodrigo D’Erasmo (Muse, Afterhours) nel fondere archi sovraincisi mentre la parte dei fiati è assegnata a Enrico Gabrielli (Afterhours, Calibro 35, Mariposa e altre decine di collaborazioni) altro musicista dallo stile imprevedibile e surreale.

12 in tutto sono le tracce millesimate nelle parole e nella sostanza che non concede spazi di disapprovazione, un lavoro dalla dinamica fresca e coinvolgente, un disco legato al ricordo, alla penna che scrive parole su diari segreti fintanto che il colore non si esaurisce lasciando in fondo una sola e piccola macchia d’inchiostro.

“L’amoredopodomani” è già un piccolo riassunto del disco “Ricordi ogni tanto del nostro amore che anche se non è mai stato detto sapeva di un fiore”.

“Lento” è ballata rock con voce semi distorta che si fa muro contro la società.

“Vinceremograzie” è canzone contro sogni da uccidere e ricreare come nei migliori film e dove il sequel di “Dove sarai” fa da trait d’union all’emblema dell’avere solo ciò che si vede.

“Mille” abbraccia la parte più sostenuta del disco mentre “La migliore che ci sia” ricorda i Marlene di “Senza peso” , la pioggia si fa sassi che cadono dal cielo ricoprendo ciò che è inutile.

Alla strumentale “Rango” segue “Magari” canzone che racconta di chi fugge perchè ha vissuto troppo senza sapere dove la strada porta: “Magari mi piacerà, magari respirerò lo stesso…magari mi sono sbagliato sempre e forse questa vita non è mia”.

“Leinonsachisonoio” scivola come incroci di Brondi e Prince Billy mentre (Magari) è poesia notturna e silenziosa.

Il disco regala le ultime due ballate: “Il male minore” strizza l’occhio al Corgan migliore mentre “Bam” è buonanotte calda e avvolgente.

Nessuno può pretendere senza dare, nessuno può ricevere amore senza donarlo, il sole forse ci raggiungerà domani e noi attenderemo, perchè nessuno è più solo dopo l’ascolto di questo disco.

 

 

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Persian Pelican – How to prevent a cold (Autoproduzione)

Un abum che deriva dal compimento di un progetto straordinario coordinato da chitarre e strumenti acustici che segnano un inevitabile riordino interno e pulizia spirituale atte a indicare un percorso chiaro verso la via del cantautorato d’atmosfera e dalle parole che non sono lasciate al caso, ma che creano verità assolute sul mondo in decadenza dell’amore.

E’ un sussurro continuopersian_pelican_250_250 quello di Andrea Pulcini, un mescolare accordi a voci dimesse e sincere, un creare assieme agli altri Persian Pelican un’idea di accuratezza e completezza che a fatica si trova in album di gruppi italiani, ma che grazie al cantato in inglese trova vita propria e una visione di intenti sicuramente di ampio respiro.

Sembra un gioco semplice tante volte scrivere canzoni di questo tipo, ma è qui che la gente comune si sbaglia, questo è un genere alquanto difficile in quanto bisogna saper comunicare utilizzando la forma quasi scarna della canzone, pochi strumenti, ma dosati a dovere, creano quella magia che non si riesce a ricreare in altra musica.

Ecco che in pezzi come la title track o come “Glass fragments in the soup” ciò che precedentemente veniva spiegato ora prende forma: un’idea di sostanza stilisticamente essenziale, ma emozionante.

L’album poi si sofferma sul lato ironico del vivere l’amore, perchè questo in fin dei conti è un disco passionale che riflette un’indole tragica capace di trasformarsi, nei minuti, in triste fine sempre più tangibile.

Canzoni come “Dorothy” ne sono l’esempio “and there is a smile of love and there is a smile of deceit and there is a hummer”: pura decadenza coronata da cori e rumori sterzati.

Un disco di cori e malinconia, un discho di chitarre Hinsoniane e leggerezza nascosta fino a

profondità temibili.

Un disco cesellato con il cuore di chi riconosce la strada da percorrere custodendone tutto ciò che è utile e allo stesso tempo un percorrere a ritroso la via battuta per capire l’incompreso.

Un album in sostanza per chi cerca nuove strade nella semplicità e per chi non sa aspettare l’attesa di un nuovo giorno.

 

Drama Emperor – Paternoster in Betrieb (Seahorse)

Musica affilata e origini bucoliche per l’esordio dei Drama Emperor, questo splendore di lucente decadenza in cui a tessere trame per inserti psicadelici ci pensa il trio marchigiano che dopo l’ep di esordio targato 2010, si ripropone al grande pubblico con un disco bello e compiuto e che riserva al proprio interno sorprese a non finire con accostamenti di musica jazz all’industrial più pesante di matrice tedesca tanto in voga negli anni ’80 e che ha dato poi vitalità alla scena indipendente degli anni ’90 e dei giorni nostri.

recensioni_img_2470Le canzoni si concentrano quasi su uno strumentale – cantato poliglotta, dove a fondersi in un unico risultato finale troviamo l’inglese, il tedesco e l’italiano.

Michele Caserta, Cristiano Ballarini e Simone Levantesi costruiscono palazzi in decadenza che brillano di luce propria, grazie al contributo di ospiti come GianMaria Annovi, Stefano Zoppi e il produttore Martin Bisi già al lavoro con Sonic Youth e Swans tanto per citarne alcuni.

Il concetto del disco racchiude un po’ quello trasmutare di un popolo assuefatto al quotidiano; entrando nell’artwork dell’opera si vedono condomini che attendono una tempesta, il cambiamento, il grigio con le macchie di azzurro quasi ad indicare che infine prima o poi siamo destinati a morire e a lasciare al nuovo l’ineluttabile compiersi.

“Other side” è annuncio di tutto questo, attimi di riflessione che si aprono a forme di un battere ultraterreno, “Teknicolor” è lezione di stile, qui ci immergiamo nel profondo del genere fino a riscoprire radici di pura psicadelia e rumore uniti in modo esemplare.

“Sing sing sing” ricalca per certi versi una “messa solenne” dove il cantato “se l’oblio è una forma di libertà, ci sono quasi…” fa da apripista corale a riff strutturati e precisi.

“Aber” ricorda CCCP, mentre “Phrase Loop” sente il bisogno di un recitato estraneo compiuto da un “poeta maledetto”.

“Dead of Technology” è riflessione sulla struttura economica pensata per i pochi e causa di morte diretta e indiretta di intere popolazioni.

“Riversami” è invece elettronica compensata da una forte dose di calibrazioni e mescolanze che incede fino al capolavoro di “Second Floor” pianoforte pozzo – profondo ad aprire, raggiungendo tonalità di acqua pece e rinascite sperate.

Un album affascinante e ricco di insenature che ci porta a scoprire la fine di un impero come non l’avevamo mai sentita; la ricerca del trio attinge di certo a pagine già scritte, ma a mio avviso queste 8 tracce sono fonte di rivisitazioni tecnologiche e personali, vicine ad una “No Wave” di gusto e carattere.

 

Crimea X – Another (Hell Yeah Recordings)

Crimea X sembra ormai un nome una garanzia.

Vale di certo il motto per questo progetto nato nell’entroterra emiliano,  che dal 2010, anno dell’uscita del primo disco, Prospective, in poi, coniuga l’amore per certe sonorità con gli spiriti di due figure importanti e direi inquiete della scena elettronica vale a dire DJ Rocca (Ajello, Maffia Soundsystem) e Jukka Reverberi che dal 2001 milita anche nei Giardini di Mirò.

Another-290x290Il valore aggiunto però lo dona con uno stile ricercato Bjorn Torske, personaggio della cultura elettro house, electronica che già si era distinto in patria norvegese per aver portato a battesimo gruppi come Royksopp e creando un genere dal legame molto forte con le atmosfere malinconiche e crepuscolari che caratterizzano i paesaggi scandinavi.

Il tutto suona come un infinito correre lungo terre abitate da personaggi – automi legati dall’operosità del vivere e dall’ansia del procedere verso il nulla.

Una vastità infinita di giochi elettronici, campionamenti, quasi a ricordare Kraftwerk, ma anche incursioni stilistiche alla Amon Tobin per questo album che di certo non risparmia sorprese.

Essential apre i battenti, quasi silenziosa e impercettibile, differenziata dalla melodica anni ’80 Haunted Love, I feel Russian crea legami con Marx e il suo pensiero, A present regala emozioni a non finire con la voce intrecciata alla suadente melodia, Summer Rain sembra elettronica free-jazz.

New wave mescolata al cantato Bowiano e precise intromissioni alla Modeselektor portano i Crimea X ad uno stato di grazia assoluta, dove melodia si intreccia alla sequenzialità del dub e del battere sincopato di pulsioni che non sono classificabili; si perchè il tocco magico di Torske sta nel regalare la sua capacità di fondere sintetizzatori di vario genere puntando ad un suono puro e immateriale.

Un’atmosfera lounge scalzante che di certo può fare la differenza nei club di tutto il mondo.

DadaTra – Sequoya (Autoproduzione)

Un album affascinante e suadente, una camicia aperta in piena estate che raccoglie ogni sorta di soffio di vento, questo è Sequoya il nuovo album dei DadaTra promettente band che dopo numerose esperienze soliste dei vari componenti decide nel 2010 di fondere il proprio suono in unico esperimento musicale.

Esperimento riuscito seg1359548442_Dadatra-coveruendo le orme lasciate soprattutto da Jeff Buckley e i Cousteau.

I componenti sono Camillo Achilli al basso elettrico, Stefano Battiston alla voce, chitarra e tastiere, Corrado Campanella alle chitarre, Stefano Gilardone alla batteria e gege Piccolo alle chitarre.

Sequoya è una continua ricerca, da testi e musiche lontane con cantato in inglese, fino alle radici più profonde del cantautorato italiano che inonda prati di un folk verdeggiante.

I 5 mutano stile in ogni brano toccando vertici di prog-rock in canzoni come la bellissima “Percepitium” o tocchi di vena pop-rock come nella “Greiseggiante” 1000 Street.

Arpeggi di disincantata maestria si ascoltano in “Di pancia vestita (Marta)”, mentre la chitarra di Clapton incontra Demis Roussos in “Oltre”.

“Recovery signs” è una classicheggiante melodia rock, tranne il ritornello che porta appresso canti e controcanti degni di un grande gruppo gothic-rock.

“Grand Wormwood” precede il capolavoro di “Afa” una ballata malinconica dal gusto dolceamaro in cui “dare la voce a un colore” è divenuta essenza vitale.

L’album si chiude con le chitarre sferzanti di “The golden ass” brano in cui il miglior rock seventy incontra gli anni 80 per un finale in dissolvenza.

Una prova sicuramente molto matura sotto numerosi punti di vista: cambi di ritmo, tonalità, sonorità; la facilità con cui i Dada Tra passano da un genere all’altro è notevole e sicuramente ammirevole, un album che porta con se personalità e dolcezza, melodia e dissonanza, una prova che merita di essere ascoltata più e più volte per comprendere appieno il loro modo di vivere. E scusate se è poco.

Là-bas – Là-bas (Lavorare stanca)

Una band che raccoglie perle nei fondali marini, cercando solo le migliori e consegnandole come un dono a noi ascoltatori intenti ad assaporare qualsiasi sfumatura della bellezza.

Una bellezza che si fa ecoverco poetico e portavoce di un’analisi della parola amore che, svalutatasi nel corso di questi anni, rinvigorisce come pioggia leggera a bagnare un popolo poco attento a questi interventi raffinati, sperando invece nella rima facile e nella canzone usa e getta da consumare durante l’acquisto della maglietta di moda.

I Là-bas non sono questo anzi sono tutt’altro: sono una band presente da molti anni nel panorama della musica underground italiana, una band che con questo disco omonimo e grazie alla collaborazione di Fabio de Min (Non voglio che Clara) segna una traccia importante nel panorama della musica cantautorale.

Ci si possono ascoltare I Perturbazione che dibattono Sartre con Francesco Bianconi, tanto è il simbolo perduto, il concetto predominante da rincorrere e tenere a se, tanto è il senso della vita, quella vita che non ha senso a priori se non è vissuta, ma acquista valore in base al senso che sceglieremo per essa.

Le canzoni dell’album sono un concentrato di amori e illusione, di apparire lontano, in fondo, per non rischiare di avere ragione; l’essere umili già nelle piccole cose il significato forse più vero del disco che in canzoni come “La fine dei romanzi” , “La sera” e “Il nostro periodo americano” raggiunge un infinito ipotetico di immagini e parole da ricordare.

Una prova di notevole struttura che mi auguro possa fare emergere questi ragazzi piemontesi all’attivo dal 2003, un album questo che dovrà raccogliere il giusto consenso all’occhio degli esperti di settore per lanciare in aria questo aquilone cullato dalla magia del vento, laggiù sul mare.