Tagua – Sincronisia (Autoproduzione)

Rock tradizionale accompagnato da riff concentrici e di sicuro effetto capaci di penetrare la carne e stupire per originalità messa ad arte ed esperienza di fondo che non lascia nulla al caso, non lascia nulla alla banalità ma piuttosto si fa strada costantemente alla ricerca di un appiglio che tiene in vita e che ci fa respirare il tutto in una formula certo rodata, ma che in questo disco acquisisce particolare freschezza riuscita in grado di deframmentare l’etere in numerose particelle e assegnando a queste un nome e una diversificazione importante che si apre con Sincronisia per approdare a territori introspettivi, ma relazionali come in pezzi degni di nota da Immagini simboliche fino al finale Goccia passando per la bellissima ballata d’effetto Carillon dove arpeggi chitarristici si affacciano all’ineluttabilità del tempo che ci siamo lasciati alle spalle, raccontando anche un po’ del tempo che verrà, di ciò che ci ingloba e ci rende partecipi di un tutto che grazie ai Tagua trova nuove forme di espressione rimescolando le carte in tavola e donando freschezza a proposte che sembravano perse nei meandri di un mondo lontano.

Abusivi – Ancora Rock’n’Roll (Autoproduzione)

Abusivi @ Home Festival - Treviso, Italy

Ruvido energico, da ascoltare in un solo fiato, una catena di eventi che si fanno racconto e parlano di noi, parlano del nostro essere al mondo e tentano di farci smuovere le coscienze, di togliere gli ormeggi alla nave attraccata al porto, quella sostanza che deve essere portata dal mare, dalle onde che fanno parte di ognuno di noi, una musica che ci permette di portare il passato nel presente, quella musica che ad ascoltarla bene racchiude molto di tutto ciò che amiamo.

Gli Abusivi fanno un buon rock, incrociando FASK e Ministri, consegnando una prova che si ascolta tutta d’un fiato e si getta nell’oceano più impetuoso a raccogliere perle nei fondali marini, dove nulla è come sembra e il disorientamento iniziale via via procede lungo una strada incanalata che sa di aggressività genuina e vissuta.

Loro vengono dalla provincia di Padova e hanno calcato i palchi dei festival più importanti del Veneto con un rock senza frontiere, americanizzato che va diritto al punto della questione e grazie a testi sempre semplici e schietti sono capaci di entrare con prepotenza cavalcando l’onda del bisogno di partire.

Le canzoni si fanno presto ricordare da Ancora fino alla meraviglia di Piove Alcool passando per Neo Melodico e il finale denigratorio con Facebook e Tassativo.

Un disco che è il succo di un’energia che poche band sanno di avere, sentiremo parlare ancora di loro e quel giorno sarà un giorno importante, il giorno in cui anche noi salperemo.

SeaHouse – Cristalli (NewModelLabel/Rawlines)

Entrare in una grotta non riuscire a scorgere nulla e poi pian piano meravigliarsi della scoperta, del fragoroso suono che ammalia convince e si disperde per poi riprenderti ancora una volta per farti partecipe di un qualcosa di assolutamente imprevedibile è mutevole.

Dentro a questa grotta ci sono cinque ragazzi di Lecce, che abbracciando i loro strumenti, creano strutture dalle molte facce piene di sensazionale energia e spaventosa quiete, pronta a tramutarsi in tempesta e a cadere come pioggia delicata.

Le melodie che si sovrappongono sono frutto di una particolare ricerca toccando i Sigur Ros di Von, passando per Mars Volta fino ad arrivare a vette di funky psichedelico da cui non si può sfuggire.

Dieci tracce, dieci pezzi di cristallo in cui perdersi e lasciare che il nostro corpo fluttui nel vuoto più assoluto alla ricerca di un qualcosa che abbiamo perso da tempo e a cui non sappiamo più dare un nome.

Un viaggio nell’oscurità più profonda dell’anima, un passo verso l’ignoto che porta inevitabilmente alla bellezza della luce.

Limes – Slowflash (Autoproduzione)

I triestini Limes ci sanno fare e lo dimostrano nel loro secondo album, dopo l’esordio fortunato di Essential che li ha visti condividere il palco con artisti del calibro di Motel Connection e Mojomatics, i nostri confezionano un ottimo prodotto chiamato Slowflash.

Un mix, il loro, di brit pop che fonde e confonde Blur e Coldplay passando inevitabilmente per l’oscurità di una musica che ha le proprie radici negli anni ’80  dotata di quel carico di sfumature tipico della scena new wave con Cure su tutti a sbaragliare la strada.

E’ un disco introspettivo questo che proietta i tre a compiere l’impresa di creare un cerchio concentrico dove far partire un labirinto mentale che si appropria di suoni semplici, ma convincenti e dove la batteria portante si condensa dando forme ad un continuo cambio di espressione che si evince dalla sostanziale  necessità di dare quel tocco in più all’usuale già sentito.

Ecco allora che il tutto si apre in dilatazione con Plume passando velocemente alle sincope di Hunting Party, si apre la via per la ricercatezza sonora in Pressure Variation e cercando alberi sovrapposti in Wood, azzeccata poi la strumentale Noise’s Room che porta pian piano alla coda di Plume II.

Sperimentatori triestini crescono e questo album ne è la dimostrazione, un connubio di strumentale e cantato che ben si amalgama con il concetto del disco.

I confini ora non sono più segnati, non si possono paragonare a nessuno questi Limes, finalmente hanno trovato il cammino.

Ismael – Tre (Autoproduzione)

Al terzo album gli Ismael dipingono poesie impressioniste regalando attimi di luce in un buio che illumina le chiome verdeggianti degli alberi estivi, quasi fosse un’estate relegata al continuo mutamento, un’estate dal dolce sapore mescolato all’amaro dei testi di un cantautorato sbocciato in punta di piedi, pronto ad arrivare a scoprire che poi tutto il mondo ci appartiene e quello stato d’animo adolescenziale si ricopre di nuova linfa in un indie rock ricercato e trepidante con tamburi assordanti e vivace complessità.

Fitte trame si condensano tra le chitarre in leggero delay quasi ad evidenziare un sentiero che si ritrova in bilico tra una pischedelia non voluta e un passo verso il nuovo, atto alla costante ricerca e privo di fronzoli post rock.

Un disco curato, testi cantautorali ben incentrati su di un argomento e ciascuno con peculiare segno di distinzione, armonizzati da un suono Kuntziano primi ’90 contrapposto da scelte stilistiche che riguardano maggiormente gli ultimi Marlene, più evocativi e criptici.

Rabbia, dolore e senso di abbandono si scagliano tutti d’un fiato a ricreare nell’ascoltare un senso di smarrimento che in poco tempo ti fa catapultare nel pensiero di Sandro Campani autore delle musiche e dei testi di tutte le 11 tracce, quasi fosse un nuovo De Gregori alle prese con un cambiamento generazionale inevitabile.

Un disco maturo che alterna in modo deciso momenti di chiaro scuri esistenziali, pronti a colpire e a lasciare il segno.

The Doormen – Black Clouds (The Orchard)

Un lavoro importante contornato da matrice bulimica di suoni british senza scadere nella retorica qualunquista cittadina e creando spazi di riflessione post floydiana di sicura classe e impatto sonoro.

I giovani Doormen ravennati e ablack-clouds-the-doormenttivi dal 2009, dopo un ep autoprodotto e esaurito in poco tempo nel 2011 danno vita all’omonimo primo full length prodotto da Paolo Mauri (Afterhours, La Crus … ) che permette alla band di condividere i palchi con artisti del calibro di Ash e The Vasellines.

Il periodo di grazia si protrae tutt’oggi, Aprile 2013, con l’uscita del nuovo miracolo di casa-circuito Audioglobe, un lavoro quasi maniacale che punta molto non solo sulla qualità estetica, ma soprattutto su di una qualità pratica e stilistica di ampie vedute internazionali.

Le influenze stagionali sono rielaborate in chiave ludico – malinconico ed ecco quindi che troviamo Editors e Audioslave, con punte subsonichiane nei ritmi sincopati del battere e levare della batteria: precisa samurai di casa Emilia.

Un piccolo gioiello ricoperto di sole e d’avorio che vede nel singolo “My wrong world” un incontro tra sonorità fine 80 e ritornelli claustrofobici a segnare inizi di una fine impossibile.

La dimensione del loro suonare prende forma in pezzi chiave come “Father’s Feelings” e “We are the Doormen” perché se l’incipit strizza l’occhio oltremanica il resto è vanità stilistica che i 4 riescono a esaltare al meglio grazie anche alla voce di Vincenzo Baruzzi che ricorda un malato Ian Curtis in pezzi lisergici come “Staring at the Ceiling” e “Silent Suicide”.

“Nuvole nere” potrebbe essere la colonna sonora di un tempo, il nostro tempo, che privo di colonne portanti emana capacità e pathos che conglobano il pensiero in un unico mondo possibile dove tristezza è sinonimo di perfezione.

Claudio Palumbo – Fa che mi spii dalle finestre (Autoproduzione)

Claudio Palumbo è un cantautore che va diritto al punto.
Una scrittura immediata, gettata in superficie su dei tronchi da levigare giorno per giorno con passione verso la musica d’autore che poco spazio trova in Italia e dove ancora i cantautori degli anni zero pensano di aver scoperto come gira il mondo senza sostanzialmente dire nulla.
Claudio ci mette passione e stile, il disco è completamente registrato in presa diretta chitarra acustica e voce senza chiedersi troppo, senza curare voce, arrangiamenti, è un impulso che esce dal cuore, la musica che piace a Noi, quella suonata e vissuta, magari lontana dai palchi che esce timida, ma che evidenzia un’esigenza di dire e di raccontare storie nuove, da nuovi punti di vista.
13 sono le tracce, il disco apre con la ballata “Egocentrismi” firmata dalle parole “Gran testa di cazzo mi saluta allo specchio”, bello il folk and roll di “Mi do del tu” con l’incipit “Tu che mi hai insegnato che un vaffanculo detto bene è come una poesia”; “Tutto quello che io voglio è una capra gialla che si illumini al buio” è il titolo della successiva canzone, forse il più originale mai letto .
Il disco scivola abbastanza simile in tutte le sue parti fino alla fine, lasciando sprazzi di cielo che fanno sorridere in numerose canzoni.
La prova nel complesso è una buona prova, lontana dai canoni standard del cd da classifica, ma molto vicina a una delle caratteristiche principali che si devono trovare in un cantautore cioè la capacità di raccontare.

Preti Pedofili – Faust (Autoproduzione)

Segui il detto antico di mio zio serpente; verrà certo un giorno in cui la tua somiglianza con Dio ti farà paura.

Questo è un disco oscuro.

Si entra in un mondo di certo non semplice. I preti pedofili, azzardando già nel nome, nel loro secondo EP Faust si rifanno liberamente al romanzo di Goethe.

Qui però c’è qualcosa in più, i tre foggiani si dedicano a denunciare una realtà molto ostile e spesso mascherata dalle finte preghiere.

Caronte traghetta anime in un universo cupo, suoni lisergici, claustrofobici, granitici, muri di chitarre pronte a distruggere l’apatia.

Morc e Manson che dialogano in queste quattro canzoni senza dimenticare le due strumentali di testa e di coda.

Un tunnel che parte dall’ “Impero” della forza dell’essere onnipotente fino al cambiamento in “La sera del 15 ottobre” passando per essere “Feccia” e accorgendosi di avere un corpo dilaniato dal tempo in “Streben” .

Spegniamo lo stereo e la voglia di reagire a tanta indifferenza persuade l’ascoltatore, che tornato da un mondo lontano riceve speranza per un diverso futuro; quasi un disco di denuncia, di protesta sessanttottina proiettata nel 2012.

Confusional Quartet (Hell Yeah/Goodfellas)

Che suono.

Che elettricità.

Che energia.

Dire che il Confusional Quartet è semplicemente un gruppo che stanco di aspettare i tempi del cambiamento, si è messo a creare nuovi suoni, è riduttivo.

L’ascoltatore in questo album di prog, new wave, indie rock, samba, jazz, bossanova elettrizzata e chi più ne ha più ne metta, è coinvolto in un vortice di suoni potenti e dirompenti.

Questi giovincelli non più giovani portano con sé ancora la necessità di fare musica ad alti livelli.

A tratti PFM a tratti Eterea PBB, tra i primi Devo e gli Area, si possono scoprire echi di rinascita in quella Bologna confusionaria dove tutto è nato.

Il Confusional Quartet è nato nel 1977 e tra il 1979 e il 1981 realizza alcuni album e tanti live, collaborando con l’Italian Records di Oderso Rubini. Poi il silenzio fino al 2011.

Ora però sono tornati con una nuova band: la musica si è fatta più matura e vissuta, meno ironica e più incisiva, dove tutto è possibile, dove l’inesplorato non esiste e dove vince la cura dei suoni e dei ritmi che conducono a spazi di creatività infinita.

La formazione con Lucio Ardito al basso, Gianni Cuochi alla batteria, Enrico Serotti alla chitarra e Marco Bertoni alle tastiere è accompagnata al mixer da Giugno Ragno Favero (Teatro degli Orrori, One Dimensional Man).

Ricordo che non c’è il cantante nel Confusional Quartet.

Non una sola parola in queste canzoni.

A cosa servono poi le parole?

Buon Ascolto.

Astolfo sulla luna – CancroRegina (MiaCamerettaRecords)

Astolfo sulla luna è:

Lei – Divagazioni in delay, sfoghi letterali e sottofondi synthetici Lui – Catenelle a caso su piatti ben precisi L’altra – Reazioni calcolate ad overdrive costante

Astolfo ruba pezzi di Letteratura per renderli propri. Astolfo inventa bpm a Tempi dispari. Astolfo ricopre il tempo con un basso Incostante. Astolfo synthetizza la realtà per poi Sputarci sopra con distorsioni in delay. Astolfo è antipatico, antisettico, matematico, irrequieto, irreale, malvagio, tenero. Astolfo non sa cantare nè parlare, però si veste bene. Astolfo è postneoclassicismorealista qualcosa. Astolfo si vede una volta si e 364 no. Astolfo va sulla luna a riprendere il Senno perso, lo riporta Qui. Sotto forma di Rumore.

Concentrato di affanni in delay, sontuose cavalcate attorniate da epiche parole, quasi un poema, quasi un Ariosto del XXI° secolo a scandire il tempo in una giornata di pioggia dove il nulla sembra essere al suo posto.

Ed ecco la rabbia scatenata, momenti di acuto silenzio e sana recitazione contrapposti allo scatenarsi della tempesta inondante. Recitato Offlaghiano, struttura compatta, quasi sensuale carezza, quasi stucchevole ragione dell’intendere.

Trio di batteria chitarra e basso che raccoglie spunti dalla tradizione post rock, per dilatare il tutto con stile.

4 Canzoni che destrutturano la forma canzone, citando anche Dante e il passato, un’anima tormentata quella che canta, un’anima che raccoglie le ore dove la mezzanotte scuote la memoria, dove ci sono anni per costruire e attimi per distruggere, i nostri sogni in un unico sogno. Sono felice per Astolfo, felice che abbia trovato la sua strada.