Michele Gazich – La via del sale (fonoBisanzio)

E’ il suono del tempo e dell’oscurità che avanza, del racconto di popoli al confine, di un lembo di terra baciato dal mare e da sassi a comporre case che come pensieri infrangono le barriere e irrompono prepotentemente le nostre vite in un fiume continuo, un’energia di ricerca che spazia e si ricompone, canzone dopo canzone, attimo dopo attimo, perduto amore in nome di un’era che non esiste più e che si ammira con malinconia lontana e con sentore comune di un mite e necessario risveglio da dove poter riaffiorare, da dove poter annusare l’essenza di un fiore tra le rovine, le biblioteche annegate dall’ignoranza quotidiana, il sentirsi appartenenti ad un qualcosa e non riuscire a darne il giusto significato.

Michele Gazich continua la sua ammirevole battaglia raccontando di generazioni ormai perdute nell’illusione delle sovrastrutture alienanti, un settimo disco che odora di rivoluzione silenziosa, capace di penetrare piano piano, come polvere bianca nell’acqua calda fino a mescolarsi, alla ricerca di un’essenzialità commovente che si muove tra ballate introspettive come la title track d’apertura a spiegare il concetto portante, arrampicando aspirazioni al crepuscolo in Viaggio al centro della notte, per inondare il Mediterraneo con la geografica Barcellona, Sicilia fino al finale di Fontanaingorda, strumentale per violino dedicata al poeta Giorgio Caproni.

Un disco nomade che abbraccia gli strumenti del folclore italiano e non, la tradizione e l’attualità sempre ben pesata ed espressa attraverso un essere caratterialmente errante in grado di fotografare perfettamente un’esigenza di ritorno alle origini prima che sia troppo tardi.

Al the coordinator – Join the coordinator (Gas Vintage Records/Lumaca Dischi)

Assaporare il canto di una terra lontana, abbracciando alberi secolari e storie di vita che si imprimono nella mente e non se ne vanno, una coesione con il passare vicino alla strada da seguire, abbandonando però il semplice cammino e inoltrandoci lungo sentieri che sanno di polvere amalgamati all’energia del tempo, del legno, un batter le mani su di una grancassa vuota di una chitarra sbilenca, il lisciare quelle stesse tavole al sole di un nuovo giorno, presto, all’alba, aspettando il tramonto per questo disco che sa di pura essenzialità esistenziale, che sa di terra americana e nel contempo di terra d’Albione, in un vortice mistico racchiuso da personaggi straordinari e quella voce a rimettere in sesto i nostri animi e le nostre aspirazioni future, per un album, il primo album di Aldo D’Orrico, in arte Al The Coordinator, a ricucire un cuore aperto, a ridare senso ad una realtà, usando la delicatezza e l’eleganza, usando la bellezza delle forme e del continuare a ricercare la purezza, seduto nel porticato di una casa abbandonata, lui solo con la sua chitarra a prendere posto nel cerchio, sotto quel porticato, tra il crescere dell’edera e i mondi nuovi da scoprire e da raccontare.

Dounia Marta Collica – Silent Town (Viceversa Records/Audioglobe)

Incontri acustici per palati sopraffini che si distendono a rimirare il mare che ci separa da un’altra terra così bella e così lontana, pezzi di vita raccontata che si lasciano trasportare dalle onde della comunicazione e del dialogo, l’incontro tra mondi lontanissimi e la facilità nel proporre sapientemente una world music stupefacente per gli italo-palestinesi Dounia e la cantautrice/strumentista Marta Collica, pezzi di cielo a ricomporre le distanze, mondi musicali assai diversi, ma incrociati per l’occasione in un folk d’autore ricco di aspettative e simbiosi letterarie, in grado di consegnare all’ascoltatore una prova di alto livello compositivo e d’atmosfera.

Nove tracce in costante e mutevole cambiamento, ma legate tutte quante da un filo comune di integrazione e bellezza, da About anything fino alle splendente finale di Malatantafi, passando per Silent town e Wolves, il duetto imprevisto si batte per ricucire l’interiorità perduta, grazie ad un comparto tecnico di pregevole fattura, che riesce nell’intento di suscitare emozioni infinite, abbandonando le ombre del passato per rischiarare tutto il cielo sopra di noi in rappresentazioni esemplari di una musica sentita.

Un disco quindi che dona tanto e si pone nell’ottica di stupire grazie a sonorità acustiche e uso delle voci, contaminazioni che a lungo andare entrano nella nostra testa non lasciandoci più, oltre il cielo, oltre il mare a cui siamo solitamente abituati.

 

Fantasia pura italiana – Buffoni pecore e re (VREC)

La teatralità del  momento affonda le proprie radici lungo cinque pezzi che si muovono in modo assolutamente naturale tra folk, cantautorato, funk e ska alla ricerca del mood giusto per riuscire nell’intento di prendere alla leggera i grandi temi della vita, trasformando le aspirazioni del tempo in qualcosa di più concreto e sentito, disinvolto e ironico, in grado di entrare nella testa di chi ascolta, assaporandone versi, parole e concentrati di emozioni ben definite, da ballare, per un’estate che è emblema per questa musica, per un’estate che non vuole finire.

Loro sono toscani, ma trapiantati a Roma, hanno un nome da linea alimentare da supermercato, ma non per questo sono commerciali, anzi, la loro canzone pop è intrisa di significati congegnali ad ogni occasione, si passa facilmente dal singolo Piripì fino a Fette biscottate e Rock’n’roll, cambiando genere, sentendo il respiro della gente, il calore umano, necessario a questo tipo di band per progredire, un calore generato dalla commistione di più elementi in grado di apportare una formula tanto strampalata, quanto riuscita, in nome della musica, per la musica.

Questo è un disco che non è un riempitivo per l’aperitivo delle sei, anzi, questo è un album in grado  di far comprendere una musica che al primo ascolto sembra leggera come un vento primaverile, ma che nel profondo porta con sé le necessità del nostro vivere quotidiano.

Fabrizio Consoli – 10 (iCompany)

World music entusiasmante che canta il disagio esistenziale e il bisogno di partire in un mondo che non è fatto per gli ultimi, ma che ostinatamente sente il bisogno di questa musica per segnare il cammino da seguire, esigenza primordiale di lasciare la propria terra e sentirsi cullare da incursioni sonore che non sono propriamente nostre, anzi sono un contagio necessario per un bisogno ancora più grande nel trovare una nuova casa.

Un album sui dieci comandamenti rivisitato in chiave moderna, grazie alle parole di Fabrizio Consoli, egregio menestrello che attraverso la dura gavetta degli anni, ricordiamo l’attività di session man per, Alice, Mauro Pagani, PFM per citarne alcuni, nonché scrittore e produttore di diverse canzoni di gruppi come Dirotta su Cuba ed Eugenio Finardi, riesce il nostro nell’intento di proseguire, al quarto disco, quella strada della contaminazione che abbraccia il tango e il jazz, infarcendo il tutto con la musica latina e dell’est Europa per un risultato davvero notevole e soprattutto sentito.

Sono tredici brani di puro amore verso la musica, dieci brani che sono la summa di un intero periodo, basti pensare a Credo, La cultura, senza dimenticare Maria e L’innocenza di Giuda a dare un senso maggiore al quadro che ci troviamo davanti, nel cercare di trovare un punto di contatto, non con l’aldilà, ma piuttosto con tutto il tangibile che incontriamo ogni giorno.

Johnny Bemolle’s – Jb (LaFameDischi)

Raccontare attraverso la musica e le immagini un viaggio chiamato vita è opera assai ambiziosa e complessa che accende speranza in chi ascolta e permette di creare racconti che si inerpicano lungo solitari quadri e illustrazioni ammirevoli e commoventi.

Johnny Bemolle è un cantautore solitario, ma deciso, caparbio nel trovare un proprio posto nel mondo in cui abitare, in bilico tra viaggi infiniti nel treno della melodia e capace di scovare le emozioni dell’anima grazie ad una voce evocativa, alla ricerca di amici con cui condividere passioni, speranze e pura bellezza nel vedere oltre il buio; attimi di luce sfiorata per una musica che affonda la propria totalità  nella bellezza del folk passeggero e internazionale.

Nelle canzoni di Johnny si trova con facilità un certo amore verso cantautori come Damien Rice, Glen Hansard, passando per Tom Mcrae e qualcosa del nostrano Bob Corn, senza dimenticare il duo Rue Royale, un amore per la poesia in musica che accoglie attimi di respiro luccicanti e strumenti semplici a tessere melodie di immediata reperibilità, inossidabili, evocative all’ennesimo ascolto e portatrici di una struttura essenziale, ma allo stesso tempo indissolubile.

Le illustrazioni sono curate da Laura Re, il packaging è qualcosa di assolutamente meraviglioso, una valigia che si apre e dentro i nostri sogni di instancabili viaggiatori, qualcuno parte, qualcuno arriva, qualcuno non fa più ritorno, tra Parigi, Budapest, Granada e la Scozia il nostro Johnny o meglio i nostri Johnny Bemolle’s colpiscono al cuore e in modo del tutto inaspettato accendano una scintilla di bellezza.

Luca Burgio e Maison Pigalle – Vizi, peccati e debolezze (New Model Label)

La città misteriosa nascosta dalle ombre del fumo di strada, locali anni ’30 che suonano fino a tarda notte, tra balli consistenti ed evoluzioni ubriache in night soporiferi, lasciati ai vapori dell’alcol in balia delle donne e della musica folk che sbarca lungo le coste e riempie i bar di un’altra terra a raccontare peripezie e gesta di un’altra epoca con piglio scapigliato e bohémien in attesa che arrivi un nuovo giorno da ammirare, con il ricordo alle spalle delle ore vissute intensamente a giocare ad essere altri, a giocare a rincorrersi, ad essere forse in toto se stessi.

Luca Burgio e Maison Pigalle danno vita ad un disco ricco di rimandi letterari e musicali, incorporando nel proprio essere la lezione di Buscaglione e di De Andrè, proprio quest’ultimo portatore di una sentita influenza in alcune tracce del nostro, incrociando la spontaneità di Non al denaro, non all’amore, né al cielo con gli arrangiamenti sopraffini di Anime Salve il tutto condito da swing sferzato e jazz gitano capace di penetrare nelle vene e far muovere ininterrottamente gambe e mani in attesa che la notte divori la luce e il palco sia pronto ad accogliere una nuova ondata di calore umano.

Canzoni ben studiate e arrangiate in modo sopraffino permettono di entrare in un mondo tutto da scoprire, la bellissima apertura lasciata a 75cl di brindisi è un chiaro esempio di perfezione narrativa in rima capace di convogliarci fino a Buscavidas, degno finale per piccoli racconti vissuti in prima persona e capaci di creare nel nostro essere un bisogno d’avventura, un bisogno di muoverci prima che sia troppo tardi, un’esigenza reale e tangibile di vivere ogni minuto della nostra vita.

Renato Franchi & Orchestrina del suonatore Jones – Finestre (Latlantide/Edel)

Ciò che uno vede dalla finestra non è sempre uguale a ciò che vede un altro in quanto siamo esseri che mirano l’attenzione nel far si che l’apparenza alle volte inganni o più semplicemente il mondo che vediamo ogni giorno scorrerci davanti non è che un’interpretazione soggettiva di un mondo più grande che portiamo dentro.

Questa di Renato Franchi e dell’Orchestrina del suonatore Jones è una prova dal sapore d’altri tempi, è una musica prima di tutto che attinge la propria linfa vitale dalla conoscenza profonda del cantautorato italiano, partendo da Fabrizio De Andrè sino ad arrivare a uno dei suoi più importanti co – autori di musica e parole: Massimo Bubola, per un suono e un testo che si fa racconto in primis di situazioni di vita vissuta, malinconia cantautorale che divampa in note rock spruzzate dal suono che rimanda agli Stati Uniti desertici mescolati al folk delle nostre terre e dal carico emozionale dell’Orchestrina del suonatore Jones, che per l’occasione stende un tappeto sonoro fatto di chitarre, pianoforte, hammond, flauti, basso e batteria a dar spessore ad una prova, esaltandone di sicuro il messaggio che veicola, valorizzando la capacità del gruppo di trasportare l’ascoltatore lungo dodici tracce che in primis sono un viaggio a cui non possiamo rinunciare.

Renato Franchi, per l’occasione, è affiancato da numerose collaborazioni come Marino Severini, voce dei The Gang, per passare alla presenza scenica del batterista Gianfranco D’Adda già con Battiato, fino all’armonica di Fabrizio Poggi, tra i più importanti armonicisti italiani.

Un disco che parla della nostra Italia, un album che si apre con Finestre e chiude il cerchio con Trasteverina, un album che narra di sacrifici, di giusti ideali e di speranza, speranza per chi verrà e per un Paese anche solo un po’ migliore.

Nashville and Backbones – Cross the River (Autoproduzione)

Un suono che arriva da terre lontane e si innesta tra svariati generi e dimensioni in una sperimentazione che va oltre il country come si potrebbe pensare dalla copertina e dal nome della band, un suono che spazia egregiamente dal folk al blues, fino al rock accennato e alle spruzzate reggae che intercorrono a ricreare una sintonia di immagini evocative che rendono il pensiero dei Nashville and Backbones, un pensiero più tangibile, ma allo stesso tempo onirico, tra territori inesplorati del Nord America fino alle latitudini meridionali della nostra terra, per una musica che non chiede di essere al centro di un pensiero soggettivo, ma piuttosto entra a pieno diritto in un progetto lontano dall’individualismo, in nome di una partecipazione attiva senza confini.

E proprio di confini che non esistono si parla in questi 14 pezzi, si parla di libertà da raggiungere ed esigenza nel ricreare una comunione, un legame con la nostra terra e con le nostre aspirazioni, un legame che ci concretizza prendendo spunto dai grandi della musica come gli America, gli Eagles, i Counting Crows fino raggiungere il folk d’oltreoceano dei nostri giorni.

Un disco per ballare e per riflettere, canzoni che permettono di fare un giro rapido del mondo, comodamente seduti sul divano di casa, in cerca della libertà sperata che attende oltre la nostra visione di civiltà.

Bifolchi – Mi fai schifo ma ti amo (Audioglobe)

Si raccontano le storie di tutti i i giorni in questo disco e le contraddizioni di una società malata, il dare e il ricevere e la nostra capacità che si esemplifica in un’incomunicabilità che porta l’individuo sempre più ad isolarsi con i mezzi di non comunicazione, facendolo sentire come dentro ad una gabbia priva di vie di fuga e lontano da una scelta, in primis, di condivisione futura.

I Bifolchi al loro secondo lavoro, dopo solo un anno dal precedente Diario di un vecchio porco, ci regalano un disco immediato e sicuramente riuscito, formato da canzoni scritte durante il tour precedente e spruzzate di quell’energia contagiosa che fa ballare, divertire e pensare, una capacità quasi istintiva di entrare in comunione con l’ascoltatore, allacciando i legami, i rapporti e valorizzando il minimo gesto per essere sicuri delle proprie capacità e dei propri risultati.

Un album che vede la partecipazione di molti musicisti della scena maremmana/livornese da Francesco Ceri dei I matti delle Giuncaie a Fabrizio Pocci fino a membri dei Malamanera passando per Lelio e Davide Michelini dei 21 grammi per arrivare a Riccardo Nucci de La bottega del ciarlatano.

Sono otto tracce che vanno in controtendenza con il messaggio ironico e volutamente sarcastico del titolo del disco, una comunicazione esemplificata alla realtà, quella dei Bifolchi, che dona condivisione e richiede bellezza e sostanza, un’unione che fa la forza è proprio il caso di dire, un’unione che rende più semplice la realizzazione dei sogni migliori.