Boskovic – A temporary Lapse of Heaven (Autoproduzione)

Luca Bonini stupisce per scelte stilistiche che ammiccano al passato, ma che fanno sfoggio di uno stile che prende il sopravvento nella ricerca di un’unicità uscita a dismisura lungo le tracce di questo nuovo e primo disco d’esordio A temporary Lapse of Heaven.

Un disco dall’immaginario vivace che rievoca in modo naturale i fasti e le bellezze degli anni ’60 approdando ai ’70 toccando Pink Floyd e Beatles influenzando il tutto con un tocco personale e deciso già nell’apertura affidata alla strumentale Just in Town che segna l’approdo lisergico e psichedelico di Shine on you crazy diamond e della discografia più recente di Gilmour, echi di Deep Purple e The Who per far quadrare il cerchio e non concedere nessuna distrazione all’ascoltatore.

Un album che sa di storia, dieci tracce che aprono la via al cantautorato più sentito e in un certo qual modo si differenziano per grande maestria nel comporre sezioni ritmiche e arrangiamenti che danno un senso di maturità e completezza al tutto.

Un mix voluto e studiato di passato e presente, una reazione ben più grande nei confronti della vita e un senso dato alla natura che ci attrae e allo stesso tempo ci comanda, disinibita madre di tutti noi in costante cambiamento, tra un rispetto non sempre avuto e un futuro che la vuole ancora protagonista; non un disco naturalista, ma un disco che vuole bene all’umanità e per l’umanità.

River Jam – A band from a river (Autoproduzione)

Provengono dall’alta provincia di Vicenza e raccolgono l’eredità della natura per comporre canzoni lungo il fiume, dove l’improvvisazione sonora si staglia lungo le tracce che compongono questo disco autoprodotto in tutto e per tutto e dove strumenti tipicamente bluseggianti si confondono fino a creare alchimie sonore tra l’incastonarsi del sax, l’intreccio di chitarre e la generosa intensità live che in tutto e per tutto si evince dalla dimensione che i membri riescono a raggiungere, incanalando una jam session infinita tra i sassi bianchi che guardano il mare.

Una band che viene dal fiume, la connotazione geografica anche qui, il Mississippi trasportato in terra nostrana per calarsi in un mondo fatto di sonorità che abbracciano il delta sconfinato per renderlo sostanza viva, acqua che dona vita e potenzialità da affinare.

In questo disco ci sono buoni spunti sonori ci sono echi del primo Springsteen, Elmore James e Canned Heat, una composizione che arriva diritta al cuore, suoni che fanno vibrare tra My only dream passando per Confusion mind e The waterman, un album che come esordio ha tutte le carte in regola per innalzarsi in futuro, livellando la voce e dando più spessore ad un mix generale che non guasta, un suono che ha bisogno di quel tocco di scintilla maggiore per garantirsi un posto di genere.

Nonostante questo i River Jam fanno parlare di se, intascano una buona prova e guardano con occhio attento al futuro che verrà, tra concerti live e tanta sana improvvisazione frutto di creazioni non snaturate, ma reali e sincere.

Giovanni Dall’Alba – Once

Poesie crepuscolari in terra vicentina per questo lavoro del cantautore Giovanni Dall’Alba che raccoglie l’eredità di Glen Hansard e Sun Kil Moon per una manciata di canzoni introspettive fatte di chitarre prettamente acustiche e una voce ad impreziosirle, canzoni che parlano di amori lontani, dimenticati e strade da percorrere dove l’occasione persa è riflessa in un mondo in decadenza e da ricomporre.

Una stanza, il gatto sul tappeto e il pensiero che guarda oltre; le canzoni poi prendono forma lasciando tramonti dietro le spalle.

10426229_884808998218314_874631160961300229_nI silenzi sono vitali per accogliere i pezzi che arrivano, poche manciate di accordi e arpeggi, un lavoro home made dove la sostanza supera la qualità in cui i cuori infranti e da ricucire lasciano spazio a piccole incursioni sonore dove la dimensione cantautorale prende il sopravvento creando il nulla attorno e concentrandosi solamente sulle parole, poche parole sussurrate ed esposte alle intemperie del tempo.

Otto pezzi quindi che si avvicendano in un chiaro scuro tra Out of the blue, Once, Johnny be good, il blues meritevole di Sleepless night blues e giù giù fino alla strumentale Lies.

Cantautore solitario il nostro, si concede in una prova che non è un vero e proprio disco, ma uno sfogo sul diario della vita, un raccontarsi concesso a pochi, un modo diverso di esprimere parole che altrimenti andrebbero dimenticate.

Furioous Goat – Other suns (Resisto)

Furious Goat è un progetto di musica cosmica che sperimenta anfratti sonori in grado di colpire in profondità e in grado soprattutto di altalenare con grande capacità poetica momenti di espressione interna con attimi di luce accecante uscita da altri soli che ci contagiano e rendono la nostra vita carica di speranze e di buoni propositi per il futuro.

Quello che però Mattia Cingano, onamanband del progetto, vuole farci capire nel suo disco è l’importanza del viaggio in qualsivoglia forma e dimensione, un viaggio che deve essere partenza versò ciò che è nuovo con l’intento di scoprire e soprattutto riscoprirsi, la forte capacità intrinseca dell’uomo di cambiare e adattarsi ad ogni mutamento.

Mattia utilizza un Chaoman Stick collegato a dei synth con basi di batteria elettronica, si odono voci e rumori in sottofondo, quasi a ricreare un ambient di forte impatto sonoro che si rende portatore di suoni che tentano di creare un equilibrio cosmico tra le capacità di ridare nuova speranza e la voglia ininterrotta dell’uomo di andare oltre il conosciuto.

Questo disco è un viaggio tra diversi nuovi mondi, un Cristoforo Colombo dei giorni nostri, che mescola Brian Eno ad una proposta molto più heavy, quasi da razzo cosmico in cerca di nuova vita.

Un viaggio fatto di undici pezzi partendo con il conto alla rovescia di Ground Control e arrivando diritti a Zen Garden, un viaggio verso la scoperta di un mondo senza limiti.

 

Oltrevenere – Oltrevenere (R)esisto

Luce e oscurità che attanaglia e segna il cammino, entrare in un tunnel, in un abisso fatto di passioni e di cause perse, di possibilità e di orrore, tra il sogno e l’incubo, l’onirico e il reale come uno schiaffo che ti riporta a considerare la vita ancora una volta, renderla tale, essenziale avamposto da cui scrutare la novità che ci permette di sopravvivere.

Miscuglio di rock alternativo tra Teatro degli orrori e Tre Allegri ragazzi morti in una commistione che intrappola l’ascoltatore nel concentrarsi in modo costante al divenire spaventoso che ci attende, un mondo parallelo raccontato, vissuto e decomposto da dove poter ripartire, un’immagine speculare di una realtà che non è più tale.

Oltrevenere quindi oltre i pianeti conosciuti, oltre lo spazio sconfinato e accecante per la propria oscurità, mondi diversi, lontani, impossibili solo da pensare, ma che rinvigoriscono l’idea che il tutto dentro di Noi sia finito, un vortice di infinitezza bellissima e concretezza tangibile.

Provenienti da Vicenza i nostri, dopo aver fatto da opening per band come The Zen Circus e Sick Tamburo, si contorcono nell’esaltazione del mistero e creano un album dai toni cupi e decadenti che colpisce fin dagli inizi e via via si inabissa nell’eclissi totale, cambiamento epocale di divergenza sonora che non lascia scampo.

Un disco ben congegnato e studiato che sa di pioggia autunnale e voglia di reagire perché l’emozione più potente è lo scopo di un istante.

Kamera Kubica – Kamera Kubica (R)esisto

Kamera Kubica copertina

Linguaggio diretto, semplice e senza fronzoli che si apre a incursioni indie rock per sottolineare l’importanza di testi che parlano di abbandono e di totale menefreghismo verso una società che non ci appartiene e priva di qualsivoglia aspetto che ci mantiene in vita.

Vengono dalla provincia di Vicenza e sono i Kamera Kubica, band che rincorre il sogno di apostrofare il genere in innovazione sonora, concentrandosi su melodie pop dal piglio rock distorto, dove appunto quest’ultime la fanno da padrone passando per echi di sospirato suono che avanza e colpisce.

Peccano un po’ di ovvietà questo è vero, ma nel complesso il suono che ne esce è un incrocio tra i primi Afterhours e le lisergiche dicotomie dei Marlene abbracciati per l’occasione da un’ubriacatura contorta in simil Muleta, dove il bicchiere mezzo pieno porta il gruppo a sali scendi emozionali.

Si parte con l’esistenziale Sono solo per finire con l’altrettanto esistenziale Io sono qui, passando per i viaggi Se Salperai e Budapest.

Suono distorto e contemporaneamente melodico, dieci pezzi che si concentrano sul ciò che abbiamo avuto dalla vita  e su ciò che ancora possiamo spendere, una direzione sonora ben precisa che, senza fronzoli, mette al tappeto per vivacità della proposta, con l’augurio che questo sia solo l’inizio.

Polar for the masses – Una giornata di merda (Tirreno dischi)

unagiornatacoverCV_PFTMUn disco pieno e intenso che ti fa correre lontano alla ricerca di sinuose strade che si divincolano lungo spiagge semivuote, dove a farla da padrone è un mare cristallino che però nasconde non poche insidie.

Questo nuovo disco dei P4TM suona proprio così, è un amore che all’apparenza sembra tranquillo, ma già dalle prime note all’alba si concede un confronto netto e deciso dall’attitudine punk e dal massiccio rock cadenzato tipico di un power trio capace di meraviglie sonore.

A stupire il tutto è la forza compressa in ognuna delle 10 canzoni presenti nell’album, quasi a delimitare un territorio di caccia apparente dove la fuga è sinonimo di paura, ma anche di libertà.

Intenso quanto basta questo disco ci racconta i drammi della nostra società, in modo schietto e diretto, che ti entra e non ti lascia, non stanca e procede nel suo incedere profetico.

Abbandonata da un po’ la scelta di cantare in inglese per i nostri è il tempo di raccogliere i frutti sperati, con un cantato italiano che convince e una linea sonora capace di terremoti d’oltreoceano che estingue l’inestinguibile e fa rinascere ciò che si pensava fosse morto.

The fangs – The fangs (Autoproduzione)

Prendete la scena di Seattle più sporca e cupa ricca di improvvisazioni sonore e cataclismi rivoluzionari che caratterizzavano il continuo divenire di un’epoca.

Prendete un po’ di britpop, si proprio quello, la facilità di ascolto dei ritornelli e quello stile che si intreccia a convenzionali che non sono più convenzionali assoli di chitarra gainizzata e niente di più.

Prendete infine tre ragazzi che la musica la masticano a pranzo e a cena con del buon vino e un sorriso ironico che rende tutto più semplice, pacato ed espressivo.

Ecco allora che nascono i The fangs, gruppo vicentino che al loro primo demo intona un grunge vivo più che mai, contaminato da gruppi come QOTSA e A perfect Circle non dimenticando le origini Pearliane sorrette da un cantato che ricorda per certi versi il compianto Layne Staley.

Un mix di colori che si sovrappongono al grigiore, un impasto sonoro che si fa carne viva pulsante in pezzi come l’energica Fingerz, la sincopata Sheriff, il delirio di Bukkake, passando per la Bluriana Behind the camel e finendo con le improvvisazioni sonore di Root, incisiva come i solchi di un aratro che si fa ancora pulsante in un mare di corpi che affogano, ancora di una nave  pronta a solcare, lasciando alle spalle i giorni che non funzionano, i giorni andati a male.

Cinque pezzi che racchiudono un mondo, il mondo di Diego Zandiri, Paolo Facci e Michele Petullà, un microcosmo di vibrati virali che racchiudono un urlo che sentirete ancora per molto.

Virgo – L’appuntamento (Autoproduzione)

Una discesa nell’oscurità, un salto nel buio del rock più oscuro e concitato, acclamato solo da sospiri e fuochi che si accendono illuminando grotte e anfratti sperduti, dove l’uomo può perdersi per poi ritrovarsi ad un appuntamento tanto sperato quanto poco vissuto.

I “Virgo” band vicentina ex “Papataci” regala un disco che incanala atmosfere dark che si incontrano con il rock d’atmosfera, brillando per scelte stilistiche inusuali il tutto impreziosito da una voce unica, quella di Daniele Perrino, già presente nell’ultimo album “Due” di Mario biondi, dove è interprete, ma anche autore del pezzo “Lullaby”

Le dieci tracce scivolano via in modo rapido lasciando un groviglio allucinato di impressioni da imprimere su una tela a cornice di una cena illuminata da candele.

Proprio questo è lo scopo dell’ “Appuntamento”: unire chitarre taglienti che ricordano il suono di “Estra” e “Mistonocivo” alla leggerezza di una voce soul che comprime un mondo in eterne figure oniriche.

Un disco in stato di grazia, un disco che segna una maturità inaspettata, un album da ascoltare più volte per capirne l’essenza nel cambio di stagione, dove tutto può sembrare diverso e migliore.

Limone – Spazio, tempo e circostanze (Dischi Soviet Studio)

Limone non è solo giallo, ma racchiude al proprio interno i colori più variegati dell’arcobaleno.

Il cantautore vicentino al suo disspazio-tempo-e-circostanze-limoneco d’esordio, dopo svariate esperienze con gruppi rock locali, vede la sua maturazione nel 2011 quando da verde passa a un giallo maturo del sole d’estate.

10 pezzi che racchiudono un mondo intimista e adatto a pochi, dico io per fortuna, in cui a prevalere sono gli arrangiamenti sintetizzati dalle tastiere di Leslie Lello e la voce asciutta e disincantata-naif di Filippo Fantinato.

Eco della poetica è racchiuso in quel cantautorato di stampo elettronico che ricorda Samuele Bersani, Tricarico e una strizzatina d’occhio alle band radiofoniche dell’ultima ora.

Qui però non parliamo di semplice musica pop, ma di un mondo silenzioso, un mondo blu notte in cui la miglior offerta indie si incrocia con l’io di un ragazzo che vuole raccontare storie partendo dalle storie, raccontare una vita, partendo dalla sua.

Ecco allora che in Aperitivo? crolla un mondo che già di per se era costruito su castelli di carta, mentre Assomigli a Marte ci porta su terre lontanissime ricordando Il piccolo principe.

Lettera ad un produttore è sarcastico bagliore contro la multinazionale della musica e dello spettacolo, Proiettile di lana cavalca melodie Brittiane lasciando il posto alla delicata Chi sono io?, il pezzo più marcatamente radiofonico di tutto il disco.

In Luce d’Agosto Limone canta: ti ho incontrata sopra una luna dorata, La Festa di San Menaio ricorda Branduardi alla Fiera dell’Est con Battiato che, seduti ad un tavolino, parlano di un’Italia vuota.

Per tre è poesia introspettiva che raccoglie l’entrata di Beatrice.

Suo figlio è pazzo è la partenza in astronave di un ragazzo che non è di qui, lontano musicalmente di certo ma ricordando SpaceBoy , rock siamese di Corghiana memoria.

Un disco, che come album d’esordio, regala emozioni a non finire, con la capacità di suonare pop più di qualsiasi altra produzione, conservando una vena indie spiccata e presente, quasi a riempire vuoti incolmabili da entrambe le parti.