Luigi Turra – Alea (Line)

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Abbandonando i flutti della ragione il vicentino Luigi Turra compone un quadro iperbolico di un colore rosso sfumato in divenire capace di compenetrare e stabilire un legame complesso e simbiotico con “L’amante della Cina del Nord” di Marguerite Duras rielaborandone suggestive impressioni che ammaliano e ridanno spessore ad un noise ricreato con strumenti naturali e brevi incursioni parlate, pezzi di testo in francese, pezzi di voci che alternano i silenzi alle note di piano discostanti, in quel gioco sulfureo di attesa e arrivo, di partenza e manierismo sonoro in grado di ottenebrare il velo oscuro della ragione e lasciandoci trasportare nell’impotenza dell’abbandono, nell’impossibilità di essere qualcosa per qualcuno, mantenendo una forte idea di conquista anche quando la stessa conquista si allontana, un primo amore raccontato nell’errare dell’essenza stessa che grazie all’uso di pause ad effetto ricrea momenti di intimità elastica, che si lancia nel vuoto del cuore e ritorna nell’antro della ragione.

In un processo nostalgico questo viaggio è in grado di approfondire una parte di noi celata e segreta, giustamente riscoperta grazie ad un comparto emozionale davvero notevole in un excursus fuorviante e a tratti allucinogeno per un racconto nel racconto; un’unica traccia di poco più di quaranta minuti imbottita a dovere di sogni sinistri rosso amore.

Davide Peron – Imbastir Parole (ProtocolloZero)

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Davide Peron, circondato dai monti che lo abbracciano, crea un disco che ha il sapore delle cose genuine, dei cammini impervi e della sostanza complementare che possiamo assaporare nell’attimo fuggevole, nel nostro incedere quotidiano, nella ricerca di una sostanziale rivincita nei confronti di un mondo troppo vasto e troppo difficile da comprendere, un album che porta con sé le caratteristiche di una forma canzone impegnata e sbattuta nella realtà, tra il rurale e le piccole cose della vita, quelle che fanno bene, quelle da cui non potremmo mai separarci e in tutta questa semplicità scoprire una forma canzone chiara e limpida dove gli arrangiamenti, le incursioni e le meraviglie sonore che si snocciolano pian piano lungo l’ascolto di queste dodici tracce, fanno da legame con la terra, con i nostri vissuti, completando un percorso integrandolo.

Ecco appunto la scelta di inserire alcuni pezzi appartenenti ad album come Aria buona e Fin qui: per creare continuità e questo disco è la prosecuzione naturale di un percorso che si apre con la bellissima Fortuna al fianco, prosegue con pezzi come Terramata per raggiungere il suo apice con il singolo di denuncia La pallottola; il tutto affacciandosi ad un album vero, che ha il sapore delle cose migliori, del tempo che passa e di qualche vecchio alla porta che scorge da lontano il mutare silenzioso delle stagioni.

Bea Zanin – A Torino come va (Libellula/Audioglobe)

Dopo l’omonimo ep autoprodotto del 2014 la vicentina di origini, ma torinese d’adozione, Bea Zanin, già violoncellista con Daniele Celona, Bianco e Luca Morino, solo per citarne alcuni, compie l’impresa di creare e dare vita ad un album multistrato in grado di essere diretto e nel contempo anche riflessivo, la nostra si abbandona a pensieri cittadini che inglobano l’energia di una città in costante e continuo cambiamento, raccontando di amori, disillusioni e speranze anticonformiste che superano la prova del già sentito per consegnare all’ascoltatore una poesia urbana deflagrante e nel contempo elegante, capace di coniugare le atmosfere elettroniche degli anni ’80 e ’90 in maniera sopraffina, tra ispirazioni analogiche e potenza espressiva cesellata a dovere da Diego Perrone già con Niagara, Medusa e Caparezza  la nostra si abbandona da Plaza Victoire, fino a Ci conosciamo già, passando per Ho nostalgia e Anni, in un disco suddiviso volutamente in tre capitoli: De Urbe/De Universitate, Ottimista mal ciapà e Musii o l’amore, tre capitoli che rispecchiano passati di vita che come un’illusione costante riescono a renderci più vivi e forse anche un po’ più liberi.

Plastic Lungs – Chameleon (Autoproduzione)

Dimensione elettronica in beat ponderati che regalano emozioni camaleontiche ricche di fascino per la scena d’oltreoceano intrecciando arditamente l’Europa di Lali Puna e Air per un suono esigente e ricco di spettacolari improvvisazioni, capaci di ricreare un ambient atmosferico penetrante e mai banale, con forti debiti nei confronti di un’internazionalità mai sospinta, ma allo stesso tempo esigente nei confronti di una scena, la nostra, priva tante volte di una sostanziosa memoria da annoverare tra i ricordi.

Questo primo EP dei vicentini Plastic Lungs finalmente consegna ad una provincia votata al punk rock, al metal e alle sue banali derivazioni, un attimo di respiro e di originalità, quell’originalità capace di conquistare ad un primo ascolto, con canzoni abbastanza eterogenee che permettono l’ascoltatore di entrare e farsi un’idea sentita di un genere che risulta essere alle nostre orecchie alquanto inusuale.

Quattro pezzi che si muovono rapidamente dall’iniziale Chameleon fino alla bellissima Song for a mother, apice del disco, che racchiude le sperimentazioni dei Radiohead dell’ultima fatica a Moon shaped pool; un disco d’esordio per palati raffinati, che spero si imponga presto come utile alternativa ad una musica territoriale poco originale, una speranza quindi per i nostri quattro, una speranza da curare giorno dopo giorno, tra le fatiche e i sogni da conquistare.

Opificio del dubbio – Epico (Autoproduzione)

Sperimentazioni sonore che toccano gli ellenici del passato in un vortice continuo frammentato da canzoni e poesie, tre a tre, un raccontare di un mondo svanito e della bellezza che questo raccoglieva in antichi splendori ormai perduti, alla ricerca di un legame profondo con la nostra cultura e la nostra capacità visionaria di proiettarci ancora, per un momento, a comprendere i sospiri degli occhi, vicini al cuore, in una terra che è  stata culla di civiltà e che continua ad esserlo oggi più che mai.

La band vicentina, Opificio del Dubbio, incarna la complessità con questa nuova prova intersecando strumenti inusuali, ma marchio di fabbrica del loro appeal, come il flauto traverso e il bouzouki, amalgamando testi ispirati con le basi ritmiche di basso, batteria e chitarra ricreando la continua ricerca sonora che li caratterizza da tempo e che soprattutto in questo disco si guadagna un posto nelle produzioni nostrane grazie ad uno stile deciso che conduce ad un’armonia di forma congeniale al loro modo di essere.

Mi hai dato le ali, Era troppo bello , Non ti voltare, Icaro, Narciso, Orfeo, Aria, Acqua, Terra: elementi vitali e indistinguibili, punto di ricerca per ciò che verrà e narrazione che assesta con supporti prog in divenire, costrutti epici e racconti mitologici di una terra lontana, ma ancora vicina, modernità quindi che si esprime in un post modernismo contemporaneo e di impatto; formula vincente per futuri di luce.

 

Marco Lucio – Come non mai (Latlantide)

 

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Album diretto e senza fronzoli che arriva al nocciolo evitando testi criptici o fantascientifici, ma che si adopera nel raccontare una realtà immediata che si domanda nella quotidianità e nelle vicende di ogni giorno, lasciando da parte gli orpelli leziosi, confezionando una prova di puro rock maturo con l’occhio tendente ai vecchi Litfiba, a Grignani e su tutti al Vasco nazionale, per pezzi che hanno il sapore del già sentito, ma non troppo, in un vortice di sensazioni che stabiliscono il confine non sempre lineare tra originalità e stereotipo preso in prestito.

Marco Lucio, con i musicisti di sempre, si destreggia bene nel raccontare le proprie abitudini e le proprie aspirazioni, il rocker vicentino si dimena in emblematici vocalizzi per una voce che è veicolo e trasporto, gancio di traino per una sessione ritmica impegnata nell’accompagnare il nostro in pezzi di vita da Sei andata via fino a Mia età: allusioni costanti all’amore, ai sentimenti e a qualcosa che non c’è più.

Il disco della maturazione artistica per Marco, nella speranza che possa proseguire questo cammino in musica che rispecchia una percezione delle cose che si fa reale nel tempo e mattone importante per la propria crescita musicale.

Virgo – Virgo (Alka Record Label)

I Virgo aprono le danze con questa prova dal sapore del tutto personale, frutto di un’evoluzione sonora compressa e ben riuscita, capace di far vibrare concitazioni e speranza in sonorità stoner rock che aprono a nuove possibilità e aspirazioni, una musica che acquista maturità fin dalle prime note del singolo Danza di corteggiamento.

E’ un concept album questo, per la band vicentina, capace di fondere l’idea di distruzione in un qualcosa del tutto personale e contorto, una visione d’insieme di notevole costrutto, amplificando ciò che si vorrà ottenere per raccontare ossessioni del tempo che fu e di ciò che viviamo, uno sgretolarsi meditabondo del nostro io che si lascia alla sensualità; un’apertura eterea al graffiante che ci circonda.

Dodici tracce che parlano dei desideri più oscuri, canzoni che sono resoconti della nostra anima mortale, tralasciando l’inutilità della fisicità per puntare dritti alla sostanza, tra mirabolanti peripezie e atmosfere, da Selene a Bianca ombra fino al finale in Trasparenze a rimarcare una scelta che non c’è.

Continua il percorso di maturità dei Virgo che hanno saputo, nel corso del tempo, far proprio un genere, divincolandosi dalle etichette di facciata per seminare uno stile che può fare scuola.

Le cause perse – Amplesso (Autoproduzione)

Le cause perse ci portano a riflettere sul mondo che ci circonda grazie a testi penetranti e allo stesso tempo coinvolgenti che non ci rendono dei semplici spettatori immobili, ma attenti critici di una società che ci vuole e ci rende diversi; un romanticismo disincantato espresso in un vortice di sensazioni intrise di significato che ricordano l’infanzia, il bambino che è in noi, l’esigenza di fare pace con noi stessi tra territori acustici sovrastati da un piglio cantautorale che rende bene quell’idea di necessità e volontà di dare spazio alle emozioni; un turbinio concentrico che si muove tra la voce del cantante e chitarrista Yuri Duso e l’elettrica di Enrico Marangonzin fino alla collaborazione con la precisa e velata batteria di Daniele Carollo.

Un disco che parla con la voce dei tempi moderni, un disco sulla fame di sapere nel raggiungimento di uno stato di grazia che culmina nella rabbia, intesa come parte negativa di noi e capace di disfare quel bene creato e voluto che prima o poi tornerà a colmare quei colori dentro al nostro cuore.

Duvalier – Hay Lobos (Red Eyes Dischi)

Non è un paese per vecchi e lo sappiamo molto bene, tra desertiche e ataviche sensazioni che ci imprigionano al suolo, sotto la terra, nella miriade sconfinata di territori e lande desolate dove gli approcci costruttivi si aprono quasi a comparse di sogni/incubi in oasi solo immaginate e lontane, fuori dal tempo e dai vincoli futuri, ma dentro all’ingestione di sostanze mascherate, che alterano la percezione in una visione annebbiata e sudata.

Sono tornati i vicentini Duvalier e grazie a questo disco, il loro quarto disco, inglobano l’oscurità del mondo tra chitarre sgangherate e giustamente distorte per l’occasione che filtrano il passo a ritornelli poppeggianti e refrain che si fanno ricordare concessi all’apertura di Black is the sun che si lancia poi in voli pindarici nella fuzzeggiante presenza di Tony La Muerte, compagno di etichetta, in Il vecchio del monte, rivisitazione dello stesso one man band in chiave sonora assai differente.

Un disco di introspezione in stato di grazia, non definitivo e completo per fortuna, ma sempre  alla ricerca di quell’energia primitiva che ci incolla al terreno e ci ricorda prepotentemente il nostro essere materia in decomposizione con un’anima da preservare.

Fall of Minerva – Portraits (Overdrive Records, Basick Records)

La rabbia lacerante che va oltre l’orizzonte e si staglia di energia dalle viscere che implementano l’odio di una generazione per tutto quello che li circonda, presi sul serio dalle spallate della vita in frantumi, orgoglio per chi sotto il palco non smette di gridare una musica sostenuta da un cantato urlato screamo che concede spazi di dilatazione in pezzi in cui trova spazio un cantato italiano, quasi incomprensibile, a manifestare una forza di volontà incompresa dai più, ma di sicuro effetto, tassello dopo tassello, in un vortice sostanziale, sostenuto da una notevole base ritmica e chitarristica, sostenuto da quell’esigenza di urlare al mondo la propria esistenza.

Loro sono i Fall of Minerva, vengono da Vicenza, ma la loro musica ha poco a che vedere con le produzioni locali, hanno invece una forte connotazione internazionale che li porta a collaborare con distribuzioni che si trovano fuori dai confini italiani a sancire un sodalizio e una speranza di essere luce nel buio che avanza, ritratti del tempo che viviamo, ritratti di un mondo in decadenza.