Figé de mar – Come un Navigante (Autoproduzione)

Omaggio nei confronti del luogo natio, omaggio a terre di mare e di conquista dove la barca della vita si inerpica lungo anfratti sconosciuti e pieni di di ricerca, pieni di attimi nel buio da dove poter concretamente sperare in una rinascita, in un cambiamento, in una costante illusione di bellezza che si affaccia prepotentemente e nello stesso tempo declina l’invito e scompare come illusione. I Figé de mar confezionano una prova assai interessante, niente di nuovo certo, ma nel loro suono colpisce la profondità nei testi per una così giovane band e soprattutto il desiderio di intraprendere il sentiero della vita attraversando una direzione concreta, cercando punti d’appoggio e velati rimandi al passato. In bilico tra canzone d’autore e pop radiofonico i nostri consegnano un EP leggero e nel contempo introspettivo già dalla prima e interrogativa Questa pelle passando per il singolo Boulevard fino all’interessante finale in La città coniugando suoni e ricerca, coniugando la passione per un tempo che non c’è più con un piglio di modernità, dagli anni ’70 ad oggi nella miglior tradizione della musica leggera italiana in evoluzione.

Padre Gutierrez – Addio alle carni (Autoproduzione)

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Rock convincente sporcato dal blues imperterrito che dopo sferzate di pura energia si quieta e accarezza canzoni sofferte, introspettive e a tratti malinconiche in grado di dare un senso ad un substrato di fondo fatto di vite arrovellate  e colori oscuri manipolati al bisogno essenziale di centrare l’obiettivo della comunicabilità. Padre Gutierrez, all’anagrafe Mattia Tarabini, ci regala un disco impattante e nel contempo diretto, schietto, dove le parole acquisiscono il giusto peso e nella solitudine del momento riescono a riempire vuoti cosmici di bellezza sostenuta in pezzi come La donna dal velluto nero o Della mia carne ad infrangere quel celato, a dare un senso nuovo al buio che avanza. Sono dieci tracce suonate a dismisura in cui l’amore si consuma e rende nuova ogni cosa intorno. Il nostro suona per se stesso, lo fa perché c’è qualcosa che gli brucia dentro, lo fa perché è la cosa più semplice e reale da fare.

Droning Maud – Beautiful Mistakes (I dischi del minollo)

Droning Maud

E’ la paura che ci assale e ci porta imperiosa a scoprire le parti più nascoste di noi, all’interno di buie caverne dove una dolce melodia culla le anime solitarie in gesti di affetto e senso onirico che avanza. Un disco completo e quasi etereo che abbraccia i suoni siderali del nord Europa incamerando la lezione del rock americano degli anni ’90 con stile e precisione, con passione che si evince e viene ben distribuita in contesti di solitudine che si amplificano e lasciano il posto a sferzate elettriche che non passano di certo in secondo piano, ma piuttosto intensificano le pressioni con l’esterno fino a farti entrare in una nuova dimensione ricca di pathos e atmosfera, una musica che ricerca testualmente gli errori bellissimi della nostra quotidianità, gli errori che ci appartengono e ci rinfrancano per arrangiamenti che valorizzano una voce importante in primo piano a sviscerarci dal di dentro. Le otto tracce che compongono l’album si muovono bene tra i parallelismi inevitabili con la nostra società e lasciano che la mente dell’ascoltatore entri in un incanto/disincanto infinito.

Salvario – Duemilacanzonette (Beta Produzioni)

Musica d’autore in grado di raccontare anfratti di vita necessaria tra ballate acustiche e introspezioni che scavano all’interno del proprio io per tirarne fuori la parte migliore, quella essenziale a cui non possiamo rinunciare e che lo stesso Salvario, all’anagrafe Salvatore Piccione, tenta di ricucire addosso alla sua pelle di cantasorie raffinato che si muove egregiamente tra la musica passata e il post duemila, ad intrecciare i suoni dei Perturbazione, dei Mambassa, dei Nadàr Solo presenti quest’ultimi nella grandissima Dinosauri a raccontare di un mondo amoroso in estinzione e a cercare nella grotta dentro di noi un barlume necessario per ricominciare. Tutta la poetica di Salvario si muove tra un dare e un ricevere, la voce calda riempie l’intero disco e le stratificazioni rock necessarie sono parte fondante di un tutto che si appresta ad incoronare canzoni come l’apripista Caro amico, Una parte di me, Lasciami così e il finale sospeso in Deja vu come pezzi di gran classe che rendono omogeneo l’intero album in un’intenzione che parte dal cuore e si solleva a ricoprire le nuvole sopra di noi.

Granada – Silence gets louder (Autoproduzione)

Quello dei Granada è un suono che proviene da lontano, è un suono glaciale che si interrompe con visioni di new wave ad accarezzare poesie musicali che rendono l’atmosfera in divenire continuo ad accennare sprazzi di luce dove la luce sembra non accoglierci in parallelismi con quello che è stato e quello che deve ancora succedere. I Granada sono una band romana che in questo disco Silence gets louder riesce a ricomporre una smisurata capacità di pensiero oltre le aspettative, utilizzando un comparto musicale davvero notevole e consegnando agli ascoltatori nove tracce che si muovono gran bene tra le sonorità di Editors e Interpol in scosse elettriche ben mixate tra di loro che rendono questo disco un piacere per le orecchie tanto da sembrare un’amalgama, un flusso continuo che porta con sé un indelebile sapore internazionale. La title track è apripista strumentale capace di veicolare la conoscenza della materia sonora in tutte le sue sfaccettature fino a ricomporre un quadro d’insieme che nel finale I can take care of you dona un’oscura speranza di vita per canzoni che non sono poesie fini a se stesse, ma piuttosto incorporano un bisogno, un’urgenza di uscire allo scoperto mostrandoci, velatamente, le nostre introspettive nudità.

Modena City Ramblers – Mani come rami, ai piedi radici (Modena City Records)

Li senti provenire da lontano con quel suono di flauto che accompagna una produzione dopo quattro anni di silenzio, una musica composita d’insieme che spazi tra i generi e abbandona spesso le strade del folk per intersecarsi con un suono più moderno e generazionale dove la canzone si sposa con immagini, riflessioni di vita, sostanza e sudore del tempo che verrà. Mani come rami, ai piedi radici è il nuovo disco dei Modena City Ramblers, un album che parla di orizzonti indefiniti e di un errare che ingloba l’intero mondo che ci accomuna, dimenticando i fatti di cronaca che caratterizzavano il precedente lavoro e tornando sui passi di musiche contaminate dove il dialetto, l’inglese e lo spagnolo sono lingue necessarie di comunicazione e dove l’atmosfera desertica che si respira nella bellissima My ghost town assieme ai Calexico ridefinisce una sostanza che va a recuperarsi nella terra, da quelle radici che sono i nostri punti d’appoggio, ma anche il nostro bisogno di arrivare in alto, non per prevalere, ma piuttosto per respirare un cielo condiviso. Notevole la concessione del diritto musicale sul retro di copertina: “Riproducetelo, prestatelo, fatelo suonare in pubblico e trasmettetelo. La musica è come il vento, fa ondeggiare i rami, nutre le radici” e come, dico io, dargli torto?

Volemia – Eh? (New Model Label)

Volemia è la locuzione sospinta ad arte che imprigiona parte di noi attraverso la durezza di uno stoner tipicamente italiano che nel bene o nel male si scontra ed incontra le produzioni dei bergamaschi Verdena in un flusso concentrico in grado di costruire comunque, attraverso una ricerca originale, un suono che abbraccia la pre Seattle, la fine degli anni ’80 e la culla del grunge in contrapposizione sostanziale all’indie folk moderno e cercando di ottenere da questa produzione una fantastica panoramica grazie ad incrociatori sonori che fanno di questo rock alternativo un punto di partenza per un album davvero notevole e pieno di passione che porta con sé un dichiarato intento di valorizzare soprattutto il live, il palco, il sudore, grazie a canzoni che sprigionano energia vitale registrate in presa diretta, canzoni che entrano come un lampo nella nostra mente e a fatica ci abbandonano. Si parte con la trepidante Mammut si passa poi per L’ebrezza del vuoto, E’ colpa mia fino a Dammi un la in un disco che ha i volti di un rock compatto e potente, fragoroso quanto basta per farci sentire il richiamo concentrico di una ricerca rumorosa che proprio nella parola suono trova il suo punto di valore più alto.

Spleeners – A storm from a butterfly (Autoproduzione)

L’angoscia esistenziale cantata dagli Spleeners è un toccasana ai nostri tempi, è un modo per comunicare un disagio mettendolo in musica e odorando il tempo che passa partendo proprio dalla polvere che abita a terra e ci ammanta in modo da non farci vedere tutto quello che c’è dopo, tutto quello che possiamo immaginare. La band milanese confeziona un disco interessante sotto molti punti di vista, dai testi quasi nichilisti passando per una musica che abbraccia le chitarre di fine anni ’80 primi ’90 ricordando band come i The Smiths o i Rem riuscendo a variegare la proposta con un’interpretazione personale attraverso poesie di colori che stentano ad uscire e si dipanano nell’orizzonte del grigio e del nero per una prova dal sapore internazionale che attinge all’esperienza personale il proprio punto di partenza e che esplode in valvola di sfogo attraverso queste canzoni. Ciò che ne esce è un disco pensato dove il cantautorato va a braccetto con il rock d’oltremanica e in canzoni come la title track sa dare il meglio di sé in una continua evoluzione che porta appresso il sapore della pioggia e dell’abbandono.

Skymall Solution – Skymall Solution (VREC)

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Abissi aperti per il gruppo romano che incasella perfettamente la lezione di tutto quel post grunge sorto dalle ceneri dei primi anni ’90 per confezionare a pennello un disco ben suonato e vissuto, stratificato e coeso, creante continuità con uno spirito, un punto fermo, un cardine in grado di approfondire il passato lasciando in disparte le tendenze e toccando vertici di alto lirismo alternative americano tra Deftones, A perfect Circle, Staind e Tool, un sodalizio energico che non perde di originalità e cerca di ricavarsi un porto sicuro dove poter approdare con canzoni simbolo/singolo come Cold war o Touch me senza dimenticare lo spessore di Running Reflection o di Eyes in un suono dolce e nel contempo aggressivo, tecnico e sospeso, puntuale e mai banale dove l’apoteosi sembra sempre essere lì in procinto di prendere il sopravvento, ma nello stesso tempo si affievolisce in attimi meditativi in un moto ondoso che non trova pace.

MUTO – Independent (Prismopaco Records)

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Viaggio nello spazio profondo alla ricerca del beat giusto il beat perfetto in un anfratto stilistico che ricava la propria dimensione, la propria dimora attraverso le costellazioni e il buio in un divagare senza meta che costringe l’ascoltatore ad entrare in una purificazione fatta di luce e ombre misteriose, tra le compenetrazioni dei momenti e gli abbagli della vita quotidiana, per questo progetto di suoni e molteplicità che avanza, un nuovo disco che si fa percorso all’interno di una società automa alla ricerca del nostro essere veri e reali, esseri indipendenti e capaci di conquistare quelle piccole parti di vita che in verità ci appartengono fino nel profondo, per un album fatto di otto incursioni paranormali che rendono meno sfocata quell’idea di musica che si fa mezzo per comunicare attraverso ogni latitudine terrestre, un viaggio elettronico in balia del vento e del mare tra isole da conquistare e porti/canzoni in cui riposare.