Breaking the fence – Niente Rimane (Chains)

Esclusiva: Breaking The Fence – Niente Rimane EP (full streaming)

Sostenuta potenza che si evince da subito nei pochi fraseggi che fanno da aperture del disco carico di marcia rabbia dei padovani Breaking the fence, un album composito che accompagna grida di dolore nei confronti di una società che non vuole cambiare. Grida laceranti che in Niente Rimane assumono la connotazione di poesie moderne da cantare tutte d’un fiato, da far assaporare istante su istante all’interno di una scatola chiusa e pronte ad uscire quando meno te lo aspetti. L’Ep dei Breaking the fence, formato da sei canzoni, è la summa di un percorso di ricerca che trova come spiriti affini band della caratura di Ministri e FASK e che nei contrappunti sonori proposti si fa tangibilità esigente da apprezzare soprattutto in chiave live. Le multiformi Che ne sai, Santa Marta aprono ad un finale e ad un intero disco che sa di già visto, di già sentito, ma che non disdegna certo l’immaginazione sempre fervida di nuove strade, preponderanti e personali, da seguire. 


Killer Sanchez – Pneuma (Autoproduzione)

Ricerca musicale sospinta a creare nell’etere ambienti opprimenti e disturbanti, una ricerca che si fonde e confonde con la materia attorno attraverso un respiro che racchiude al proprio interno sostanze mutevoli capaci di accorpare un bisogno di aria che esplode e poi si quieta in un moto ondoso ricco di stratosferiche visioni oltre il grunge e lo stoner, oltre il rock, in giochi di psichedelia che danno la possibilità di creare forme musicali e idee tangibili al quartetto milanese.  Pneuma è un soffio di vento che inganna l’ascoltatore e lo trasporta lungo i flutti della coscienza, lungo l’esasperato vivere che si dipana in pezzi come l’apertura malata di Signor Avvoltio, passando per Bianco, la title track e il finale dirompente e nel contempo meditativo Immobile, un tuffo nel buio più profondo che regala e si apre a spiragli di luce quando meno te lo aspetti, un gruppo che fa della ricerca un’essenzialità intrinseca da portare fino a mondi sempre nuovi e perennemente da scoprire.

Slowtide – Slowtide (Prismopaco Records)

Suoni che si confondono con il crepuscolo serale e lasciano spazio ad un’introspezione di fondo che si sposa bene con le note di elettronica mai conclamata, ma piuttosto lasciata a fermentare come un buon vino raggiungendo apici notevoli proprio quando l’indietronica passa ad un trip hop emozionale che ricorda per certi versi la musica degli italiani Amycanbe in una cura del suono e degli spazi aerei circostanti in grado di mantenere una certa tensione di fondo capace di penetrare nella carne e non lasciarci più. Quello degli Slowtide è un disco altamente contagioso, in grado di catturare l’ascoltatore al primo ascolto, complici le melodie portanti, complici le voci che percorrono, come un brivido lungo la schiena, le nostre vertebre dorsali, fino a salire nel punto di contatto con il nostro cervello, tra le pulsioni e la realtà da affrontare. Undici tracce di puro stampo internazionale che intensificano rapporti e capacità per una prova d’esordio davvero notevole e curata che si merita i primi posti tra le produzioni di genere in un sali scendi condiviso ricco di spunti e innovazioni in chiave pop.

Palinurus Elephas – Fame di niente (Autoproduzione)

Nessun testo alternativo automatico disponibile.

Giovani alle prese con il proprio scavare dentro per rilasciare pian piano una musica fatta di sogni e di speranze, improntata su di un indie rock che amplifica aspirazioni e volontà di costruire qualcosa di innovativo partendo dalle soggettività, dall’essere parte di un qualcosa che in queste otto tracce di annientamento cerca di trovare un proprio mondo, una propria via costruita ad arte e rilasciata pian piano per dare un senso diverso a tutto ciò che li circonda. Sono in quattro, provengono dall’Oltrepò pavese, si chiamano come gli antichi definivano l’aragosta mediterranea anche se abitano ai piedi delle montagne, fanno un indie rock genuino spruzzato dalle mode del momento stabilendo, attraverso testi  mai banali, una costruzione di forma canzone che si apre con Testa bassa e finisce con Secondo cervello, parlando di piante, di dio e di creazione, di mondi da comprendere, da allargare, trasformando tutto ciò che è banale in un qualcosa di necessario di cui nutrirsi, quasi fosse un respiro a cui non possiamo rinunciare.

Lekka – Lekka Ep (Autoproduzione)

Martellante autoproduzione che spicca per notevole risultato di fondo mescolando la scena indie rock con quella dance, soffermandosi forse maggiormente su quest’ultima e raggranellando un interesse per le commistioni davvero notevole e necessario per garantire un risultato sorprendente come questo. Ci si muove in modo sopraffino partendo da quella Following Euphoria che ricorda gli Air dei tempi migliori proseguendo attraverso una dance che non è di certo banale, ma piuttosto si sofferma sulla ricerca e sul giusto tramite tra già sentito e innovativo, aprendo porte sempre nuove e valorizzando l’intelletto musicale stuzzicandolo a dovere in un ep che raccoglie tre tracce originali e prosegue con la finale Lekka Rework che racchiude composizioni di Boys Noize e Gesaffelstein. Un disco che non è un punto d’arrivo, ma piuttosto è un insieme di brani che si fa ricerca mutevole in continua evoluzione e contaminazione senza dare mai nulla per scontato.

Spleeners – A storm from a butterfly (Autoproduzione)

L’angoscia esistenziale cantata dagli Spleeners è un toccasana ai nostri tempi, è un modo per comunicare un disagio mettendolo in musica e odorando il tempo che passa partendo proprio dalla polvere che abita a terra e ci ammanta in modo da non farci vedere tutto quello che c’è dopo, tutto quello che possiamo immaginare. La band milanese confeziona un disco interessante sotto molti punti di vista, dai testi quasi nichilisti passando per una musica che abbraccia le chitarre di fine anni ’80 primi ’90 ricordando band come i The Smiths o i Rem riuscendo a variegare la proposta con un’interpretazione personale attraverso poesie di colori che stentano ad uscire e si dipanano nell’orizzonte del grigio e del nero per una prova dal sapore internazionale che attinge all’esperienza personale il proprio punto di partenza e che esplode in valvola di sfogo attraverso queste canzoni. Ciò che ne esce è un disco pensato dove il cantautorato va a braccetto con il rock d’oltremanica e in canzoni come la title track sa dare il meglio di sé in una continua evoluzione che porta appresso il sapore della pioggia e dell’abbandono.

We fog – Float (Autoproduzione)

Inclassificabile gusto per le sonorità anni ’90 che riempiono l’atmosfera di tappeti sonori che si dipanano in un mondo fatto di concentrazione intellettuale toccando suoni minimali dal gusto post rock che si affacciano alle produzioni math di stampo americano e costruiscono un’architettura capace di creare diverse sovrapposizioni artistiche che non sono di certo classificabili, ma che sono e che fanno da base per canzoni identitarie e che vivono di vita prova, tanta è l’eterogeneità artistica, tanta è l’originalità espressa in questo disco che alterna il cantato allo strumentale in contesti asettici pronti ad esplodere grazie ad un’energia vitale che fa da connubio ideale ad una ricerca stilistica che non si ferma alle apparenze, ma che piuttosto trova il proprio punto di sfogo nell’esigenza di dare un senso ad un qualcosa di mai sentito attraverso il vocoder, attraverso il sintetizzato ad arte, per una soddisfazione che coglie lo sperato non solo nell’immediato, ma anche nella complessità del futuro che abbiamo davanti.

Wicked Expectation – Folding Parasite (Autoproduzione)

Essenzialità elettronica che copre tappeti sonori innovativi pur mantenendo una certa passione per il passato di qualche anno fa e per la costruzione geometrica e simultanea di moltiplicatori cosmici e musicali che ci permettono di entrare all’interno di un mondo fatto di sovrapposizioni e sostanza, per un disco, quello dei torinesi Wicked Expectation che sembra voler attingere il meglio dalla musica di Thom Yorke solista intrecciando la coralità degli Atoms for peace in una musica d’insieme che travalica le capacità intellettive del singolo per approdare a livelli tecnologici che si interrogano sulle questioni vitali e fanno della robotica minuziosa un punto focale per parlare di noi, di ciò che ci sta attorno e di quella sostanziale esigenza intrinseca di essere noi stessi nell’interpretazione personale di poesie allo stato primordiale che prendono lo spunto di partenza da una collisione di beat e asteroidi ad intrecciare sangue e cuore pulsante.

theNEMO – Dagli Snap! Al Crack (Discipline)

Nessun testo alternativo automatico disponibile.

Dal cantautorato tradizionale fino agli abissi raggiungibili dell’elettronica moderna dove il passato e il presente si fondono tra organismi in evoluzione e sostanza da consegnare al tempo che verrà in una piccola prova d’esordio che racchiude al proprio interno un intrinseco bisogno di comunicare esperienze di vita e istantanee futuribili di nuove ricerche sonore ben delineate già nella traccia d’apertura Lavorare di notte dove le chitarre in distorsione si sposano bene con l’elettronica dei sintetizzatori che pian piano si mescolano e destrutturano un ambiente che lascia posto a brani che chiudono il cerchio da Mi ricordo fino a Grazie lo stesso passando per Teca, quasi a voler imbrigliare, in un solo attimo, la bellezza iridescente di una musica colorata e intima da preservare nell’istante e nei ricordi migliori, dove le luci delle auto di notte ci fanno, forse, sembrare un po’ più vivi di quello che siamo e dove una natura oscura ci sa prendere per mano verso l’ignoto in evoluzione.

Elk – Ultrafan sword (Niegazowana Records)

Band inclassificabile per gusto musicale egregiamente sopraffino che non si ferma alle apparenze, ma suda ricerca condivisa in momenti di pura allucinazione spaziale e ben amalgamata con un tutto che sorprende imbrigliando attimi di luce eterea in altri momenti più drammatici e introspettivi capaci di ridare un senso ad una produzione alternativa che spicca per bellezza dei suoni e costante bisogno di abbandono e ritorno, tra The National incastrati a Placebo che riflettono le concezioni astratte di David Sylvian in un viaggio allucinante senza ritorno che ben si apre con M.Dugall, per proseguire la corsa con The Thaw passando per Tu Fi Pu fino a raggiungere le rare intensità di What’s below, per un album, questo degli Elk, che racconta di invasioni aliene e di mondi dominanti, alla luce però di un’esaltazione di fondo che proprio in questa musica stratificata ricopre un ruolo dominante e soprattutto una sfida per attendere un futuro diverso, un futuro forse complementare, fatto però di sensazioni da vivere e farsi vivere, prima che sia troppo tardi, fino all’ultima luce dell’ultima stella che potremmo ancora vedere.