Woods of Karma – This has already been done (Resisto)

Wood of karma suonano un rock inglobato e incentrato sui passaggi di armonia e sulla capacità espressiva di creare e donare sfumature diverse alle quattro canzoni che compongono il loro EP This has already been done.

Il loro alternative rock sfrutta il passato anni ’80 per proiettarsi con tenacia e caparbietà suonata nel futuro odierno, tra sali scendi sonori che spiccano per internazionalità e capacità espressiva, un lungo viaggio tra gli anfratti sonori dell’anima, un essere accolti in un mondo privo di certezze.

Sfumature heavy contornate dalla melodia fanno di questa presentazione il cavallo di battaglia del gruppo che grazie ai cinque si contorna di velata introspezione.

Aubergine è riconducibile al sogno svanito, a quel sogno che rincorriamo e che non riusciamo a fare nostro, non riusciamo a renderlo reale e quindi siamo costretti a fingere che tutto ciò che abbiamo intorno sia quello che vogliamo.

Sinuasa poi The Model dei Kraftwerk, passando per il mare senza fine di Endlessea in una lotta tra uomo e natura che vede quest’ultima trionfare sempre e su tutto, finendo con August for the last time, dove i pensieri si fanno innocenza di gioventù vissuta.

Un bell’esordio che decolla fin dalle prime battute, lasciando sperare un approccio ancora più incisivo nei prossimi che verranno.

 

The Fence – 14 Ep (Resisto)

I The Fence sono un gruppo assai anomalo nel panorama della musica italiana, in quanto sanno confezionare un disco di rock velatamente pop ispirato alla musica dei grandi degli anni ’70, fin qui niente di speciale, il punto è che la forza del gruppo, oltre agli accurati arrangiamenti è una voce chiara e limpida che allo stesso tempo riscalda e riesce ad aggiungere al tutto gradi di sfumature che si concentrano sul caleidoscopio di colori che ci appartiene, dando al bianco e al nero un tocco di giallo che per assonanza e similarità ingloba un pensiero woodstockiano che lo rende presente e vivibile ancora ai giorni nostri.

Cinque pezzi tra ecletticità e libertà di espressione che concentrano i vissuti, addomesticandoli e successivamente consegnandoli come prova tangibile di un viaggio sonoro che non ha fine.

Brani dichiaratamente pop come All that matters to me e Dont be sad si affiancano efficacemente all’elettronica non conclamata di Nowhere land passando per l’elettrotango di Shame e chiudendo in bellezza con l’introspezione emozionale di Run and Hide.

Un disco carico di speranze, capace di trasformare una qualsiasi serata in un qualcosa di tangibile e concreto, cinque pezzi capaci di affermare la solidità della band, capacità intrinseca di uscire dalla moda del momento per creare un mood identificabile al primo ascolto.

 

Loro – S/t (red sound records, dio )) drone, in the bottle records, icore produzioni, cave canem)

Canzoni dirette che non lasciano scampo, non lasciano respirare e infrangono il muro del suono con capacità espressiva degna di nota, una carica di energia vitale pronta a sovrapporsi e amalgamarsi in un incedere che colpisce in modo esemplare quasi fosse una necessità, un costrutto di vita da lasciarsi alle spalle, abbandonarsi a distorsioni sonore che incanalano spazi vitali, una colonna sonora cinematografica da film horror di prim’ordine in cui gli incubi prendono vita e parallelamente alla nostra mente ricreano divagazioni contaminate da sintetizzatori dai suoni più diaboli, tra math-noise e rock sperimentale

Trio proveniente dalla provincia di Padova composto da Mattia Bonafini già presente nei Bruce Fisting tra gli altri, Alessandro Bonini nei Ten story Apartmen e Bright Lights Apart e Riccardo Zulato che ricordiamo non solo per il duo Menrovescio, ma anche per l’architettura composita nella creazione grafica e non di qualsivoglia oggetto utilizzato in ambito culturale.

Sua quindi la grafica e progettazione di un packaging alquanto inusuale, che scava nella materia e rende necessaria la presenza di un artefatto meccanico come il cacciavite per riuscire ad estrarre il disco e poterlo ascoltare.

Un affermare quindi ancora una volta che questa musica non è una musica da downloading, ma si fa carne viva e pulsante, si fa toccare, si fa comprendere solo ai meno, ma forse questo è proprio l’intento del gruppo: ritornare alle origini, alla fisicità dei corpi che si amalgamano, al fondersi e confondersi in attimi di luce costante, integra e percepibile, il confronto con la realtà, che come un pugno allo stomaco lascia senza fiato.

Il Confine – Ctrl+Alt+Canc (AlkaRecordLabel)

Rock che mira alla conoscenza della natura umana, che si apre alla solidità melodica per dare nuova linfa ad un genere che sembrava decaduto, un album che si racconta e racconta le voci interiori, guardando in faccia la realtà con sguardo nuovo, carico di significato e immortalato dalla fine che si attacca alla nostra vita senza mollare la presa.

Il confine ci porta all’interno di un mondo, il nostro, che intraprende una strada sempre più in salita e sempre più sbagliata, abbandonando energia pura, sacrificando tutto ciò che abbiamo per un qualcosa a cui non siamo in grado di dare un nome, per un qualcosa che ci vede sempre più distanti e frenetici in una vita che non riusciamo a fare nostra, una vita che non riusciamo a riconquistare.

Sette tracce che sono immagini di un mondo in cambiamento, suonate con maestria e ammiccando ad un qualcosa di già sentito tra cavalcate di hard rock e un misto di pop consumato e levigato dal vento.

Siamo senza scelta, non possiamo fare altro che subire?No il punto d’incontro tra questo infausto pensiero si esprime in modo esemplare nei concetti che successivamente si aprono nel disco: noi uomini inermi dobbiamo combattere per essere diversi, affrontare la realtà Nello spazio e nel tempo per affondare le nostre radici in Paradisi complicati, lasciando Scie luminose e rimarcando la capacità e l’intenzione di compiere Sogni lucidi e concreti.

Un album di speranza e sogni da realizzare, un disco che si concentra sull’intenzionalità dell’essere diversi, tra reale decadenza e velata ironia, un album che conquista già dal primo ascolto, tra notti insonni e incubi da uccidere.

 

Furioous Goat – Other suns (Resisto)

Furious Goat è un progetto di musica cosmica che sperimenta anfratti sonori in grado di colpire in profondità e in grado soprattutto di altalenare con grande capacità poetica momenti di espressione interna con attimi di luce accecante uscita da altri soli che ci contagiano e rendono la nostra vita carica di speranze e di buoni propositi per il futuro.

Quello che però Mattia Cingano, onamanband del progetto, vuole farci capire nel suo disco è l’importanza del viaggio in qualsivoglia forma e dimensione, un viaggio che deve essere partenza versò ciò che è nuovo con l’intento di scoprire e soprattutto riscoprirsi, la forte capacità intrinseca dell’uomo di cambiare e adattarsi ad ogni mutamento.

Mattia utilizza un Chaoman Stick collegato a dei synth con basi di batteria elettronica, si odono voci e rumori in sottofondo, quasi a ricreare un ambient di forte impatto sonoro che si rende portatore di suoni che tentano di creare un equilibrio cosmico tra le capacità di ridare nuova speranza e la voglia ininterrotta dell’uomo di andare oltre il conosciuto.

Questo disco è un viaggio tra diversi nuovi mondi, un Cristoforo Colombo dei giorni nostri, che mescola Brian Eno ad una proposta molto più heavy, quasi da razzo cosmico in cerca di nuova vita.

Un viaggio fatto di undici pezzi partendo con il conto alla rovescia di Ground Control e arrivando diritti a Zen Garden, un viaggio verso la scoperta di un mondo senza limiti.

 

Don Rodríguez – L’Indimenticane (Dischi Soviet Studio)

Band travestita da cantautore e cantautore travestito da band per la nuova fatica della Dischi Soviet di Cittadella, Padova, che continua nella promozione di gruppi che si esprimono in italiano per cuori da marciapiede che si stringono, per guardare avanti con gli occhi tesi al futuro.

Questa volta è il turno di Don Rodríguez, band proveniente dal Piemonte orientale che lega in modo indissolubile un cantautorato leggero e ispirato dai momenti della quotidianità, alle divagazioni pop alternative che si aprono al rock naif, quasi improvvisato e dimesso, in grado di regalare emozioni a non finire, concedendosi in arrangiamenti essenziali che strizzano l’occhio all’indiepop degli ultimi anni.

Definirli comunque non risulta impresa facile e nemmeno lo ritengo degno per qualsivoglia band o musicista che sia, il tutto suona ovattato e pronto ad esplodere, un implodere ed esplodere che non lascia scampo, attimi di meditazione per affilare le dita in refrain dal sapore convincente e incisivo, sonicità ribadita in tutto e per tutto da una potente base ritmica e precisa che permette alla chitarra di fare il proprio corso senza chiedersi troppo, ma concentrando l’obiettivo più sul connubio voce/testi che cerca di creare all’unisono 14 pezzi legati da un filo, composti di un puzzle da ricostruire per fondare memoria.

Ecco allora che le tracce compongono un quadro non troppo definito, ma che lascia all’ascoltatore la capacità di immedesimarsi nei racconti che il trio piemontese lascia intuire, l’inizio è affidato alla proverbiale Primo Carnera per proseguire poi con le allucinazioni cosmiche di Per combinazione e via via all’essenzialità di L’amore al tempo di Hitler, chiudendo il cerchio con le riuscite La stagione degli Alisei e Stazione 28.

Un disco che sa di dipinto astratto, che sa di pioggia d’autunno e fiori di primavera, un album per tutte le stagioni da ricordare nel tempo, lasciandoci il cuore.

Monolith – EvenMore (Autoproduzione)

Disco granitico e melodico che si staglia  all’orizzonte come un cielo da imparare, attingendo con forza e capacità ad un substrato culturale musicale che si innesta prepotentemente tra overdrive e compressori che intersecano la barriera del suono e si lasciano andare a qualsivoglia nuvola di polvere che sta per arrivare.

Quello dei Monolith è un rock tutto d’un pezzo che si stringe e strizza l’occhio ai compiacimenti eterei senza fronzoli del post grunge fine ’90 per raccogliere eredità del dopo e traendo beneficio da una formula che viene rivista e confezionata per l’occasione scavando gli anfratti della coscienza e cercando dentro di noi il modo per sopravvivere al domani.

La band modenese vede alla voce e alla chitarra Andrea Marzoli, Massimiliano Codeluppi all’altra chitarra, Enrico Busi al basso e Riccardo Cocetti alla batteria, una formula classica per far esplodere il necessario, per arrivare diretti al punto senza mezze misure.

Ecco allora che le canzoni scivolano via, grazie ad un approccio immediato che non guasta, nove pezzi condensati, in un viaggio fatto di sensazioni partendo con Overload e abbracciando nel finale Orange Moon.

Un disco dal sapore leggermente retrò, che raccoglie i fausti di una grande giovinezza, la nostra, che al solo pensiero ci riporta la mente, ancora là, quando il necessario non era altro che una speranza per un futuro diverso.

Massimo Donno – Partenze (Autoproduzione)

Raccontare storie nel 2015 non è facile, anzi, è sempre più difficile, perché l’ondata pseudo cantautorale non sense dilagante, ha annullato la forma classica di cantautorato, relegando il tutto a futili parole lasciate al vento prive di incisione.

Massimo Donno si promette di ridare un senso alla forma canzone italiana più introspettiva e intima confezionando un album che sa di terra e radici, tanto il legame si è fatto unico e irripetibile con gli elementi della natura, tanto il nostro attraverso immagini di vita si concentra nel creare e dare forma e sostanza agli attimi vissuti creando un ponte, un tramite, con il passato, con le cornici del tempo assiepate su credenze polverose.

Luce fioca, chitarra acustica in primo piano e arrangiamenti sempre nuovi e che stupiscono per varietà, fanno di questo album uno scavare nella terra della nostra anima, un ricongiungere parole e musica in un’unione che deve restare indissolubile.

Sono rimasto stupito e lo dico davvero, stupito dalla meravigliosa title track: A soli quarant’anni di distanza, la stanza di mio nonno era la mia, io facevo la dieta, lui faceva la fame ed il suo cinema era la ferrovia.

Entrare quindi in un mondo fatto di migrazione, di sottili dispiaceri e rughe scavate fin da subito come solchi sulla terra; l’anziano che combatte e crede, crede in un ideale, con lo sguardo proteso in avanti, oltre le montagne verso il futuro.

Tra Guccini e De André, questo album, ha molto da insegnare, è un disco che serve per fare ordine dentro di noi, un disco che più di qualche persona dovrebbe ascoltare, un caldo abbraccio verista nella solitudine fredda del futurismo.

Shapeless Void – Oberheim (Autoproduzione)

Copertina che sembra uscita direttamente da un artwork di Stanley Donwood, disegnatore e scrittore che ricordiamo per la collaborazione con Yorke dei Radiohead, nella creazione delle opere d’arte a cui siamo abituati, packaging essenziale, ma elegante, tonalità fortemente cupe segno dei tempi, carta riciclata e leggermente ruvida che ti fa percepire il passaggio tra passato e presente e un nome, Oberheim, che fa presagire qualcosa di incontrollabile e privo di certezze.

Il disco però, all’ascolto, crea un diverso effetto, ci muoviamo in spazi meno angusti, che si concentrano sull’impatto sonoro, tra chitarre pesanti e distorte che accompagnano un cantato velato di malinconia e sottoposto al continuo incedere di ritornelli ammiccanti che si concedono e lasciano presagire una strada aperta per il futuro.

Stiamo parlando dei Shapless Void, band nuova nuova, formata ad inizi 2014, dedita da subito alla creazione di canzoni inedite, nell’ottica di un’autoproduzione consapevole e ragionata e dando alla luce a un piccolo disco di quattro pezzi, tutta sostanza e caratterizzato da piccoli rimpianti per l’alternative degli anni ’90 spruzzato qua e la da un garage rock che strizza l’occhio a White Stripes  del primo periodo.

Incisivi in primo luogo, i nostri bresciani si lasciano trasportare tra le profondità dei mari con A drop in the ocean, per passare alla concretezza di Stuck in the Queue e al basso dominante di Assassin, finendo con il cantato in primo piano di Reckless.

Un buon esordio capace di intrappolare in una fotografia formato polaroid il nostro tempo, senza forzamenti e senza chiedersi troppo, con la mente legata al presente e i sogni protesi al futuro.

Discoforticut – Femmes (Autoproduzione)

Un viaggio nell’universo femminile fatto di musica che si ingloba poeticamente alla frenesia dei giorni lasciando evaporare concettuali astrazioni in divenire che sono esemplificazione totale di un’elettronica studiata fino ai minimi particolari, che si racconta e si lascia raccontare.

L’esordio del prima trio torinese rimasto duo affascina per concretezza e solidità di base, ascoltare Femmes è come entrare all’interno di una colonna sonora di un film inglobante che mescola culture diverse, dai freddi polari ai deserti colmi di siccità, trasportando un sentore comune, un desiderio non innato, ma maturato con l’intelligenza: quello della condivisione di spazi e di esemplificazioni sonore che divagano tra lounge soul e chill out da atmosfera, uno spaziare tra territori inospitali per concedersi ancora una volta e facendo del citazionismo per immagini una strada da seguire.

Due quindi le attuali menti del progetto Discoforgia, già produttore di musica elettronica su label inglesi e americane e Ut! polistrumentista e videomaker, due anime quindi che fondono e confondono le proprie sapienze per dare un giusto significato al contesto in cui viviamo, raccontando una società, mettendosi in gioco.

Ecco allora che osare sembra rimasta la sola e unica cosa da scegliere e da fare, in un progressivo innalzamento dei costrutti le vicende sonore raccontate si dipanano tra chiaro scuri esistenziali che parlano della donna, in modo disinvolto; una musica per l’anima e un sospiro al cielo, disegnando nuvole di immacolato candore e di immacolata bellezza.