Pasquale Demis Posadinu – S/t (Desvelos)

Cantautore atipico sardo che estrapola la tradizione e la proietta nei nostri anni, aggiungendo un’elettronica che concilia e riempie, un utilizzo cospicuo di sintetizzatori che si innestano immancabilmente in testi che parlano di Noi, che parlano delle nostre speranze e aspettative, che parlano dei giorni che prima o poi cambieranno.

Il colore del mare a farla da padrone, si perché i testi sono delicati, ma sanno trasformarsi in parole impetuose capaci di cambiare in profondità gli abissi delle nostre coscienze e farci comprendere che tutto poi non è come sembra, è un cantautore che ci allena a guardare oltre, in cerca di speranza, in cerca di nuove attracchi nei porti dei nostri sogni, senza però dimenticare di porci davanti la realtà, quella dura realtà che ci fa tenere in vita.

L’approccio diretto è coadiuvato dalla produzione artistica di Giovanni Ferrario opportunatamente dispensatore di idee e capacità conoscitive fuori dal comune che rendono l’ascolto ancora più intrigante e capace di suscitare stati emozionali vivi e sinceri.

Dieci pezzi quindi che mescolano la realtà alla ribellione, notevoli brani quali musica TV passando per Michela o Più vecchi di Guccini a disegnare una dimensione in cui le nuove leve musicali crescono tra una bellezza omologata, senza più apporto originale, perdendo quella linfa vitale di protesta che caratterizzava i grandi degli anni passati.

La bellezza quindi che si perde e con la luce dobbiamo ritrovarla, un disco che affonda le proprie unghie dentro al substrato culturale di ognuno di Noi e cerca con inossidabile tenacia di trovarci qualcosa di buono e autentico.

Damien Rice – 30/07/15 Villafranca (VR) – Live Report

UN PALCO VUOTO E LA TESTA PIENA DI STELLE

Il Castello Scaligero di Villafranca dal 1200 segna il tempo sugli abitanti del veronese, rendendolo location affascinante per qualsivoglia concerto di musica internazionale e non, a ristabilire il contatto tra passato e futuro, in un’immacolata concezione di stabilità e gusto, un sussurro di maestosità e grazia, pronta ad ospitare quello che è considerato il cantastorie più emozionale dell’epoca musicale contemporanea.

Damien Rice non è una creatura sovrannaturale è una persona qualunque che sale su di un palco e canta l’amore, quegli amori relegati all’angolo di una strada buia e plumbea, quegli amori di terre verdi e trasparenti dove guardare l’infinito sulle scogliere e non chiedere nulla al futuro, sostanza e introspezione, il tono dimesso da menestrello vissuto con gli occhi di chi sa regalare emozioni ascolto dopo ascolto in un interesse collettivo che si fa applauso senza mezzi termini, uno scrosciare disteso di mani a cercare altre mani, lì, tra il cambiamento e un’acusticità imprevedibile, spoglia, nuda e cruda, dove i suoni sono sempre in funzione del racconto, suoni stabili, leggeri che hanno il colore dell’oro, un vortice continuo di intenzioni non troppo lineari a fare da sfondo al mondo che ci circonda.

Damien canta canzoni in cui ci rispecchiamo, canta la giovinezza che fa parte di noi, canta del passaggio della marea e di quell’acqua che cancella il passato, cancella ogni qualsivoglia forma di finzione per renderci naturali, come foglie di albero maestoso pronte a rinascere con la nuova stagione.

La naturalità negli intenti si evince sul palco come nella vita, definito incoerente io aggiusterei il tiro con reale, una persona fuori dal coro che fa parte di ognuno uno di noi, quel Damien che tanti anni fa partiva da Dublino con una Mini per vedere il suo gruppo preferito, i Radiohead, 11 giorni di viaggio imponendosi di scrivere una canzone al giorno per poi tornare e aprire i concerti di Cohen, un Damien pauroso della vita, ma che la affronta con noncuranza, la sfida e ne esce vincitore.

Damien su quel palco il 30 Luglio ci è salito e ha raccontato la sua storia, a tratti, soprattutto nella prima parte del concerto un po’ freddo, relegato al suo mondo intriso di misticità e in grado di comunicare non sempre alla perfezione, poi grazie alla loop station e a improvvisazioni sonore ha trasformato la sua chitarra acustica in qualcosa di elettrico e distorto, mandato in progressione artificiale, rendendola partecipe di qualcosa di più grande.

Suoni non sempre calibrati rendono l’ascolto a tratti troppo distorto, soprattutto nelle retrovie, anche se il risultato complessivo è buono, grazie alla capacità del menestrello di stare sul palco e di intrattenere il pubblico ironicamente.

A parte la nota stonata di una Britney Spears di turno chiamata sul palco da Damien per cantare Volcano le perle scorrono ininterrottamente e si lasciano ammirare Delicate in apertura così dal nulla, Coconut skins, Woman like a man, l’harmonium di Long long way, la sempre affascinante Amie fino alla bellissima My favourite faded fantasy dell’ultima fatica, toccando la bellezza in The great bastard e lasciarsi andare alla perfezione in moto perpetuo di It takes a lot to know a man.

Bis affidati a Cannonball, Nine Crimes e nel finale tutti sotto al palco a rendere omaggio con Blower’s daughter, diventata ormai classico senza tempo.

Niente foto per questo live report, ne circolano ben troppe in rete, voglio ricordarlo così, un palco vuoto e la testa piena di stelle, l’esigenza iniziale di spegnere i telefonini, gustarsi lo spettacolo, cosa che in gran parte il pubblico educato ha fatto, nel rispetto della bellezza sfiorata; un palco vuoto e lui forse dopo poche ore fuori, con il pubblico, in un aftershow ancora più emozionante, un cantautore plasmato non per le masse, ma solo per chi sa riconoscere al primo sguardo chi trasmette ciò che la stragrande maggioranza degli artisti odierni sa solo immaginare.

Marco Zordan – IndiePerCui

SetList

  1. Delicate
  2. Coconut skins
  3. Woman like a man
  4. The box
  5. Long long way
  6. Volcano
  7. Amie
  8. MFFF
  9. Elephant
  10. I remember
  11. The greatest bastard
  12. The professor e la fille danse
  13. It takes a lot to know a man

Encore

Cannonball / Nine crimes / The blower’s daughter

Antonio Fiabane – Torna di moda il binocolo (Lavorare stanca)

Cantautore introspettivo che raccoglie l’eredità dei tempi per trasformarla in un campo di grano estivo da dove poter raccogliere le migliori spighe per rendere il raccolto un frutto da scoprire giorno dopo giorno in una malinconia che accenna ad aperture velatamente cantautorali di un tempo passato con contrapposizioni eleganti e soprattutto coraggiose.

Antonio Fiabane è un cantautore con la C maiuscola, uno che da senso alla parola, al substrato che essa contiene per consegnare agli ascoltatori una prova dove la voce, di un Gaetano Curreri malinconico, si scontra con la realtà moderna, creando un post cantautorato che si discosta notevolmente dalle proposte di queste annate; Antonio guarda più al passato che al futuro, questo continuando a mantenere un legame con ciò che lo circonda, essenziale per la sua poetica.

Proveniente da Belluno, il nostro non condivide soltanto, con la band per eccellenza della provincia i Non Voglio Che Clara, l’amore per il tempo che fu, ma il disco è co prodotto dallo stesso Fabio De Min esponente di spicco del gruppo.

Gli arrangiamenti sono delicati, quasi in secondo piano e lasciano una visione d’insieme che lascia trasportare il suono lontano e in primo piano una voce personalissima e penetrante, esigenza e caratteristica essenziale per l’attesa che avanza fino al gran finale.

Torna di moda il binocolo è un disco che ci permette di vedere con altri occhi ciò che è lontano, è tanta sostanza, è un amarcord perpetuo, una fotografia di quelle a grana grossa, pastose, di un bianco e nero oltre l’apparenza e il cliché, oltra la moda: una nostalgia per i tempi migliori che non torneranno più.

Carmen Consoli: il canto del cigno – Live Report – Sherwood Padova – 3 Luglio 2015

Sherwood festival al Park Euganeo di Padova è sempre una garanzia in fatto di qualità e offerta dei live proposti, con l’aggiunta di un contorno fatto da incontri, bancarelle artigianali e non e quell’idea che si percepisce solo qui: far parte di un mondo diverso, una città nella città dove la comunanza di intenti vince contro qualsivoglia forma di mercificazione della proposta in atto, facendo da capofila a molti altri festival italiani.
Con difficoltà si comprende la grandezza della folla accorsa per vedere dal vivo l’aggraziata rocker siciliana, data la grandezza del luogo e la presenza di persone non solo sotto al palco ma anche nella zona antistante, popolando i tendoni/ristoranti e i vari punti d’incontro.
Ad aprire la serata la vicentina Elli De Mon che con chitarra dobro e sonagli, scuote la gran cassa facendo tremare palco e oggetti attorno, sporcando di blues la sua timidezza e incrociando l’India con sitar e musicalità d’altri mondi.
Una musicalità che trae ispirazione soprattutto nel delta del Mississippi, un genere contaminato dal punk che sa osare senza chiedersi troppo.
Buona prova tra nuovi e vecchi pezzi, conditi dall’attenzione di un pubblico numeroso e partecipe.

IMG_0556Puntuale alle 22.00 entra Carmen Consoli.
Gonna nera, maglia bianca, chitarra rosa e tacco alto, lei davanti a tutti, lei davanti al mondo, poche note e via via il suo stare sul palco cambia, è mutevole, ritrae i colori di un quadro rock perfetto che vorremmo continuare ad ammirare, Geisha, Mio Zio, Sentivo l’odore e poi la title track dell’ultimo album L’abitudine di tornare, finalmente la meravigliosa Ottobre e La Signora del Quinto Piano, i toni si incupiscono in vorticose parabole elettriche con Matilde odiava i gatti per viaggiare nel lontano oriente con il ritmo di Per Niente Stanca.
Il concerto si muove molto su tonalità che non lasciano tregua, soprattutto nell’ ascolto dei vecchi pezzi come Fiori d’arancio, Contessa Miseria, Venere per un finale che vede alternarsi l’esuberanza di AAA Cercasi ai classici Parole di Burro e al solitario epilogo nel secondo bis affidato ad Amore di plastica.

IMG_0581Carmen ama i Sonic Youth e ama alla follia gli Smashing Pumkins si percepisce quella carica e rabbia malinconica che è pronta a tagliare il bambino dentro di noi, quel bambino che con forza si ripropone in ogni momento della nostra vita lasciando le tracce per la scoperta, per il costruire, per l’abitudine di tornare.
Altre due donne sul palco con lei, Melissa Auf … no scusate Luciana Luccini al basso e la dirompente Fiamma Cardani alla batteria, praticamente un nome, una garanzia.
Un trio al femminile che non ha bisogno d’altro e che fa scuola, dirompente e preciso più che mai.

IMG_0621Carmen non fa più suonare i violini dal vento, ha un volto nuovo, più elegante e quasi immacolato, una grazia che esplode in elettricità compressa e la timidezza e la naturalità che la rincorrono nei momenti di pausa è ben bilanciata dalla forza portante nei momenti più rock del concerto, una veste acustica che non esiste più, lasciando i suoni a rincorrersi come farfalle, in un pop alternativo ben confezionato che vede la voce della nostra, profonda come non mai, penetrare nei sogni di Orfeo e vaneggiare ancora una volta lungo sentieri sincopati, tra le sue Jaguar taglienti in un continuo andare e venire, concitato e rarefatto, atteso, ma mai accolto con forza.
La sostanza c’è e anno dopo anno quella totale capacità espressiva che si esemplificava in testi e musiche da lasciare il segno, ma troppo ammiccanti e sentimentali, lascia il posto a vissuti narrati che vedono come protagonista una società che non cambia e non vuol cambiare.
Carmen si lascia raccontare come in un libro aperto, ripercorrendo una carriera che la vede ancora protagonista dopo 20 anni a segnare e ad insegnare la strada: dalla polvere di Catania ai grandi palchi italiani e non, una garanzia in fatto di professionalità, capacità espressiva e savoir faire emozionale, caratteristiche assai difficili da mantenere nel tempo, ma che la nostra coltiva giorno dopo giorno come fiore raro da proteggere.

Marco Zordan – IndiePerCui

IMG_0664Setlist:

  • Geisha
  • Mio zio
  • Sentivo l’odore
  • L’abitudine di tornare
  • Ottobre
  • La signora del quinto piano
  • Matilde odiava i gatti
  • Per niente stanca
  • Fino all’ultimo
  • Bonsai #2
  • Sintonia perfetta
  • Stato di necessità
  • Esercito silente
  • Fiori d’arancio
  • Contessa miseria
  • Venere
  • Oceani deserti
  • Parole di burro
  • Confusa e felice
  • AAA Cercasi
  • Amore di plastica

Shapeless Void – Oberheim (Autoproduzione)

Copertina che sembra uscita direttamente da un artwork di Stanley Donwood, disegnatore e scrittore che ricordiamo per la collaborazione con Yorke dei Radiohead, nella creazione delle opere d’arte a cui siamo abituati, packaging essenziale, ma elegante, tonalità fortemente cupe segno dei tempi, carta riciclata e leggermente ruvida che ti fa percepire il passaggio tra passato e presente e un nome, Oberheim, che fa presagire qualcosa di incontrollabile e privo di certezze.

Il disco però, all’ascolto, crea un diverso effetto, ci muoviamo in spazi meno angusti, che si concentrano sull’impatto sonoro, tra chitarre pesanti e distorte che accompagnano un cantato velato di malinconia e sottoposto al continuo incedere di ritornelli ammiccanti che si concedono e lasciano presagire una strada aperta per il futuro.

Stiamo parlando dei Shapless Void, band nuova nuova, formata ad inizi 2014, dedita da subito alla creazione di canzoni inedite, nell’ottica di un’autoproduzione consapevole e ragionata e dando alla luce a un piccolo disco di quattro pezzi, tutta sostanza e caratterizzato da piccoli rimpianti per l’alternative degli anni ’90 spruzzato qua e la da un garage rock che strizza l’occhio a White Stripes  del primo periodo.

Incisivi in primo luogo, i nostri bresciani si lasciano trasportare tra le profondità dei mari con A drop in the ocean, per passare alla concretezza di Stuck in the Queue e al basso dominante di Assassin, finendo con il cantato in primo piano di Reckless.

Un buon esordio capace di intrappolare in una fotografia formato polaroid il nostro tempo, senza forzamenti e senza chiedersi troppo, con la mente legata al presente e i sogni protesi al futuro.

Moustache Prawn – Erebus (Piccola Bottega Popolare/MarteLabel)

Questa è musica che viene dal mare.

Fuori da ogni etichetta di genere in un cantato beatlesiano targato 2.0, tra un susseguirsi di cambi di tempo, maestose variazioni e incontri sonori che ammiccano in modo evidente, ma anche personale, ai mostri sacri della musica rock targata ’70.

Beck sarebbe felice di questo lavoro e ancora di più lo siamo noi, perché questo album, è maestria calcolata e nessuna nota è lasciata al caso o al tempo che verrà, ma ingloba e ci rende partecipi di quel tutto, un tutto capace di scuotere e oltretutto convincere.

I Moustache Prawn convincono a dismisura grazie a questo Erebus che sembra la colonna sonora di un racconto fantasy fuori dal coro, non allineato, poco propenso all’orecchiabilità, ma che nella sua varia natura ci regala emozioni che non sono da pagare con quattro miseri soldi, ma ad ogni ascolto ci fanno comprendere in modo evidente l’originalità della proposta e la fatica di promuovere musica di così alto livello, strutturata e incorniciata a puntino.

Su tutti pezzi come Something is growing, la sbilenca Solar e la floydiana Eating plants suonano come una cena tra orpelli da disintegrare e buon gusto da dispensare ancora.

Loro sono pugliesi, di Fasano, sono però animali che provengono dal mare, sono usciti dall’acqua qualche anno fa e con il tempo hanno potuto condividere palchi di tutto rispetto con artisti del calibro di  Hugo Race, Zen Circus, Bud Spencer Blues Explosion…tuffati nell’inesorabilità dell’esistenza i nostri però si vogliono ancora cercare il giusto spazio tra la folla che li circonda, in attesa di ritornare nelle profondità marine, nel felice vivere dentro ad una conchiglia.