Shapeless Void – Telema (Autoproduzione)

Con gli Shapeless Void il rock del passato si raffina in maniera esemplare trasmutando l’interesse per i suoni sporchi degli esordi in nome di un approccio più dinamico e per così dire pop, anche se la sostanza qui è di casa nel confezionare un mini Ep che abbraccia le attitudini dell’indie americano con un brit sound ben suonato e calibrato a dovere, sempre alla ricerca di un attracco, di un punto fermo esistenziale dove far correre i propri pensieri fluidificanti, tra chitarre in strutture vintage dove passato e presente si ripercorrono, si fondono e si ricreano, pur mantenendo una forte connotazione istintiva e del tutto personalissima che si evince tranquillamente in tutti i pezzi proposti da Black candles, passando per Feelings, Crawling walls fino alla bellissima, nel finale, White pond per un disco compresso, ermetico e ben suonato che dimostra la capacità della band di saper percorrere strade alquanto battute con una forte dose di coraggio e di originalità.

Shapeless Void – Oberheim (Autoproduzione)

Copertina che sembra uscita direttamente da un artwork di Stanley Donwood, disegnatore e scrittore che ricordiamo per la collaborazione con Yorke dei Radiohead, nella creazione delle opere d’arte a cui siamo abituati, packaging essenziale, ma elegante, tonalità fortemente cupe segno dei tempi, carta riciclata e leggermente ruvida che ti fa percepire il passaggio tra passato e presente e un nome, Oberheim, che fa presagire qualcosa di incontrollabile e privo di certezze.

Il disco però, all’ascolto, crea un diverso effetto, ci muoviamo in spazi meno angusti, che si concentrano sull’impatto sonoro, tra chitarre pesanti e distorte che accompagnano un cantato velato di malinconia e sottoposto al continuo incedere di ritornelli ammiccanti che si concedono e lasciano presagire una strada aperta per il futuro.

Stiamo parlando dei Shapless Void, band nuova nuova, formata ad inizi 2014, dedita da subito alla creazione di canzoni inedite, nell’ottica di un’autoproduzione consapevole e ragionata e dando alla luce a un piccolo disco di quattro pezzi, tutta sostanza e caratterizzato da piccoli rimpianti per l’alternative degli anni ’90 spruzzato qua e la da un garage rock che strizza l’occhio a White Stripes  del primo periodo.

Incisivi in primo luogo, i nostri bresciani si lasciano trasportare tra le profondità dei mari con A drop in the ocean, per passare alla concretezza di Stuck in the Queue e al basso dominante di Assassin, finendo con il cantato in primo piano di Reckless.

Un buon esordio capace di intrappolare in una fotografia formato polaroid il nostro tempo, senza forzamenti e senza chiedersi troppo, con la mente legata al presente e i sogni protesi al futuro.