Bridgend – Rebis (Orange Park Records)

Viaggio onirico e immaginario, in tre atti, che racconta le peripezie di un uomo alle prese con il proprio interno veicolato dalla conoscenza per raggiungere l’isola di Rebis, un viaggio di passione psichedelica che si trasforma in concept repentino sotto la buona stella di gruppi che hanno fatto la storia del rock come i Pink Floyd e lasciando in disparte le mezze misure per fiondarsi in un’opera che attinge elementi del post fino ad arrivare a dialoghi introspettivi e tipici del viaggiatore alle prese con la conoscenza di sé, un giovane Siddhartha lisergico che si abbandona a composizioni di mondi lontani per la costruzione intrinseca di un proprio io che scinde la realtà e si staglia nel territorio del concept, tra cavalcate progressive e ambient vissuto per una prova difficile al primo ascolto, ma pronta a veicolarti verso territori lontani, in cerca del sole? In cerca della luce o semplicemente alla ricerca di noi stessi?.

ELLA GODA- ELLA GODA (Bulbart)

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Il gusto per l’orecchiabilità e per i testi di certo non banali si assapora nel disco omonimo degli Ella Goda, band bergamasca che compie l’impresa di uscire dagli stereotipi moderni per dare giusta freschezza e risalto ad una prova in stile power pop piacevole e sicuramente alquanto riflessiva, capace di imbrigliare costantemente una tensione che esplode attraverso schitarrate d’oltremanica a comprimere gli spazi per esaltarne le parole e ambienti d’attesa tra  momenti della nostra vita in costante avvicendamento di citazionismo mosso da uno spirito kubrickiano che si assapora già nel singolo d’apertura La cura Schopenhauer fino ad approdare a terreni di delirio in prosa psichedelica in Uomo e cosa giusto compiacimento di natura filosofica che accompagna poi pezzi come Solo il silenzio o la finale Anni luce da te. Quello degli Ella Goda è un disco che riesce a mescolare le carte in tavola attraverso un uso di stile variegato e prontamente decisivo nello scegliere da che parte stare, dieci tracce orecchiabili che non tralasciano l’importanza testuale nel comunicare qualcosa che riguarda da vicino anche noi.

Tiziano Mazzoni – Ferro e Carbone (IRD/MRM Records)

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Il sapore dell’industria e del tempo che trascorre dentro di noi, cullati da una natura matrigna, madre, ma anche sorella, tra lo scontrarsi di un cantautorato che supera le attese e concentra le attenzioni attraverso una validità d’insieme che ha il profumo del bosco e delle cose migliori, delle cose semplici e di un mondo fatto di paesaggi più che da persone, da sentimenti puri e incontestabili dove la bellezza raccolta nel divenire si appropria di uno stile tipicamente americano, di chi è capace di scrutare da lontano emigrante, le porte per un possibile paradiso. Quello di Tiziano è un mondo adornato da testi densi e dal forte valore intrinseco, dove la poesia si scontra con l’inesorabilità della vita e dove l’energia si appropria dell’abbandonato per scavare in profondità e concedere attimi acustici e introspettivi che parlano comunque anche di noi, del nostro stato, del nostro essere, del nostro modo di far parte del mondo tra le montagne del folk d’oltreoceano e le pianure più vicine ad un gusto italiota e concentrico che raccoglie l’eredità del passato per consegnarcela così com’è attraverso le immagine e i suoni di Ferro e Carbone: un album complice di questo tempo che stiamo per vivere.

-LIVE REPORT- Afterhours – Castelfranco Veneto (TV) 17/03/17

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Locale disco liscio in quel di Castelfranco (TV) che per l’occasione ospita il concerto di una delle più rappresentative rock band che abbiamo nella nostra penisola dagli ’90 ad oggi, un live che vede di scena l’ultimo album della band milanese, Folfiri o Folfox, già recensito su queste pagine e che ha trovato, con piacere, un ritorno ad una musica viscerale, senza perdere la vena orecchiabile e diretta per suoni che si innestano a creare qualcosa di magico che resta lì sospeso e in bilico tra la vita e la morte.

Gli Afterhours, inutile dirlo, sono sempre e comunque sinonimo di garanzia, vuoi per la capacità di Manuel e famiglia di restare sul palco, vuoi per una cura musicale davvero notevole e invidiabile che ci troviamo alla fine dei conti, davanti a musicisti di grande talento e caratura, già presenti in band che hanno fatto la loro parte nella storia del rock nostrano degli ultimi anni e che dimostrano, come questa sera, la loro bravura nel ricreare dal vivo un disco stratificato, composito ed essenziale nel suo insieme.

Ad aprire il concerto il cantautore Andrea Biagioni, voce intensa, musiche e testi sofferti per nostalgici paesaggi da Terra d’Albione che non passano inosservati ma delineano una garanzia commovente che fa presa grazie a note acustiche e tanta sostanza espressa nelle composizioni che fanno parte dell’EP Il mare dentro, disco quasi interamente composto da cover, ma che evidenzia le capacità del cantautore/interprete toscano di delineare con bellezza d’insieme la totalità degli elementi che compongono la sua persona.

Afterhours eccoli sul palco, affiatati e intensi, capitanati dal carismatico Manuel Agnelli per un live impeccabile che attinge tutta la propria forza vitale dalle composizioni dell’ultimo disco più i classici senza tempo che oramai fanno parte degli ascolti necessari per comprendere cos’è e cos’è stato il rock in Italia. Una musica abrasiva e contorta che lascia spazio a ballate di rara intensità dove le parole e la voce graffiante del frontman sono coadiuvate dalla presenza indispensabile di Dell’Era al basso, D’Erasmo al violino, Iriondo e Pilia alle chitarre e Rondanini alla batteria, musicisti capaci di dare il giusto proseguo ad una band che si è saputa evolvere anche dopo i cambi di line up degli ultimi anni.

Ne esce un concerto davanti ad un pubblico carico e consapevole di essere davanti ad una band dal forte impatto emozionale che dopo i tentennamenti degli ultimi dischi ritorna in gran spolvero a segnare il cammino in rock troppe volte ultimamente soppiantato dal folk non sense italiano, lasciando presagire una maturità non solo estetica e d’insieme, ma dai forti contenuti intrinseci dove la poesia si trasforma in rabbia, una rabbia capace di cullare le nostre molteplici realtà.

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Foto: Raffaella Vismara

Set List:
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Cruel Experience – L.O.U.D. (Santavalvola/Brigante/Hopetone/Boscow)

Disco punk immaginario che abbraccia sonorità altamente lo-fi e trasformazioni acide per dare luce a canzoni dal forte appeal concentrico create ad arte, ma nel contempo senza preoccuparsi troppo in nome di un suono non curato, ma violentemente reale, in un comunione d’intenti che vede il Do it yourself prendere prepotentemente posizione per scaraventare al suolo gli orpelli di genere e per concentrarsi sulla sostanza materica espressa nelle forme e nei colori di queste otto tracce ad intensificare un rapporto con una musica che non c’è più, contro l’usa e getta dei tempi moderni e parallelamente, per attitudine, un suono che ha una bellezza quasi intrinseca e che ricorda tutte le produzioni di fine anni ’70 quando il punk sembrava nascere e dissolversi nello stesso tempo a ristabilire l’immaginato con il reale, come costante ripresa di un tempo che non c’è dove la necessità e l’urgenza lottano quotidianamente contro le mode del mercato.

Spleeners – A storm from a butterfly (Autoproduzione)

L’angoscia esistenziale cantata dagli Spleeners è un toccasana ai nostri tempi, è un modo per comunicare un disagio mettendolo in musica e odorando il tempo che passa partendo proprio dalla polvere che abita a terra e ci ammanta in modo da non farci vedere tutto quello che c’è dopo, tutto quello che possiamo immaginare. La band milanese confeziona un disco interessante sotto molti punti di vista, dai testi quasi nichilisti passando per una musica che abbraccia le chitarre di fine anni ’80 primi ’90 ricordando band come i The Smiths o i Rem riuscendo a variegare la proposta con un’interpretazione personale attraverso poesie di colori che stentano ad uscire e si dipanano nell’orizzonte del grigio e del nero per una prova dal sapore internazionale che attinge all’esperienza personale il proprio punto di partenza e che esplode in valvola di sfogo attraverso queste canzoni. Ciò che ne esce è un disco pensato dove il cantautorato va a braccetto con il rock d’oltremanica e in canzoni come la title track sa dare il meglio di sé in una continua evoluzione che porta appresso il sapore della pioggia e dell’abbandono.

Gospel – Gospel (Costello’s Records)

gospel

Rock di costruzione importante e di sicuro impatto che mescola la melodia al cantautorato in blues con chitarre acide e lisergiche che affondano le proprie radici nel garage di Jack White a comprimere gli spazi di realtà con i sapori d’altri tempi, ma riportando il tutto ad una modernità d’insieme che si accosta facilmente con le potenzialità espressive di band italiane come i Public, ad innovare un territorio con testi nostrani impreziositi da una formula internazionale dal forte spessore musicale. I Gospel sanno il fatto loro e ce lo fanno capire attraverso un indie rock davvero importante, dove le parole suono acquisiscono necessità vitale nel delineare quadri d’insieme che si stagliano all’orizzonte in maniera quasi comprimaria alla luce che emanano le canzoni stesse in un divenire che tesse le trame per soddisfazioni future e riesce ad imbrigliare nel cielo un rock mai scontato sottolineato dall’importanza dei testi, una scrittura che si fa veicolo emozionale, dalla bellissima Ogni piccola guerra fino a La mattina di Natale i nostri confezionano un disco che parla di umanità e di piccole cose mantenendo nel tempo i sogni inespressi.

We fog – Float (Autoproduzione)

Inclassificabile gusto per le sonorità anni ’90 che riempiono l’atmosfera di tappeti sonori che si dipanano in un mondo fatto di concentrazione intellettuale toccando suoni minimali dal gusto post rock che si affacciano alle produzioni math di stampo americano e costruiscono un’architettura capace di creare diverse sovrapposizioni artistiche che non sono di certo classificabili, ma che sono e che fanno da base per canzoni identitarie e che vivono di vita prova, tanta è l’eterogeneità artistica, tanta è l’originalità espressa in questo disco che alterna il cantato allo strumentale in contesti asettici pronti ad esplodere grazie ad un’energia vitale che fa da connubio ideale ad una ricerca stilistica che non si ferma alle apparenze, ma che piuttosto trova il proprio punto di sfogo nell’esigenza di dare un senso ad un qualcosa di mai sentito attraverso il vocoder, attraverso il sintetizzato ad arte, per una soddisfazione che coglie lo sperato non solo nell’immediato, ma anche nella complessità del futuro che abbiamo davanti.

The cat and the fishbowl – Feels like home (Autoproduzione)

Folk della pianura padana che si muove tra le nebbie di un’ubriacatura memorabile, punto d’incontro per due giovani musicisti che hanno fatto della strada della musica minimale una strada in salita e ricca di atmosfere vintage e curate, una strada creata con leggerezza e disimpegno per una bellezza che riempie stanze di pochi metri quadri e illumina con gli antinebbia le mancanze dei nostri giorni intessendo e intrecciando un EP semplice, ma dal forte impatto emozionale, mescolando il punto d’incontro dell’improvvisazione con qualcosa di studiato a tavolino per pezzi che sembrano nascere da un’associazione di idee per poi concentrarsi nel particolare per ricreare attorno a se un mondo di indie folk cantato senza prendersi troppo sul serio, ma conoscendo profondamente il cammino da intraprendere da Can I kiss your cheek? fino a Betrayal. Possiamo quindi dire che il nostro gatto e il nostro pesce nell’acquario stimolano l’appetito e ci riescono con gusto estetico mai banale.

Wicked Expectation – Folding Parasite (Autoproduzione)

Essenzialità elettronica che copre tappeti sonori innovativi pur mantenendo una certa passione per il passato di qualche anno fa e per la costruzione geometrica e simultanea di moltiplicatori cosmici e musicali che ci permettono di entrare all’interno di un mondo fatto di sovrapposizioni e sostanza, per un disco, quello dei torinesi Wicked Expectation che sembra voler attingere il meglio dalla musica di Thom Yorke solista intrecciando la coralità degli Atoms for peace in una musica d’insieme che travalica le capacità intellettive del singolo per approdare a livelli tecnologici che si interrogano sulle questioni vitali e fanno della robotica minuziosa un punto focale per parlare di noi, di ciò che ci sta attorno e di quella sostanziale esigenza intrinseca di essere noi stessi nell’interpretazione personale di poesie allo stato primordiale che prendono lo spunto di partenza da una collisione di beat e asteroidi ad intrecciare sangue e cuore pulsante.