Venus in furs – Carnival (Phonarchia)

Roboanti e menefreghisti, ma che sanno raccontare senza peli sulla lingua di circostanze astrali che rimandano alla vita di tutti i giorni, forse ci viene da associarli ai Ministri o agli Zen Circus dopo un primo ascolto anche se qui sparisce la spontaneità velleitaria atta a raggiungere un punk trascinante in quanto i Venus in furs intascano, da subito, una prova matura e costruttiva priva di orpelli inutili e diretta al nocciolo della questione, parafrasando egregiamente i vissuti di ogni giorno e trascinando con spirito unico undici tracce in bianco e nero tra distorsioni volute e testi sempre abrasivi.

I nostri parlano di noi e di quello che ci gira attorno, lo fanno prendendo sempre delle posizioni nette, spiegazioni per l’occasione accompagnate da una voce più incisiva che mai, merito del tempo, certo, merito anche della maturazione che non teme di calcare i grandi palchi senza far da spalla a nessuno.

Un disco da ascoltare tutto d’un fiato, con canzoni che ci accompagneranno ancora per un bel po’, a segnare quel cammino di solitudine e rabbia incastonato perennemente in una foto d’altri tempi e soprattutto con il coraggio d’altri tempi.

Music for eleven instruments – At the moonshine park with an imaginary orchestra (DeadPopOpera/The Orchard)

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Una favola orchestrale tarata nel tempo della vita che racchiude al suo interno le gioie e i dissapori, quel gusto salato che ci rappresenta e districa in maniera imprescindibile i nostri affanni, ma anche li crea, in un continuo andare e venire in preda a disperati tentativi di trovare una pace interiore.

Questo disco sa di tempi andati, se penso ai Music for eleven instruments, mi viene a mente una giostra di cavalli in un luna park abbandonato, che ha conosciuto i fasti del passato e del tempo e che ora giace lì pronta ad essere riutilizzata, per far felici altri bambini, per rendere l’esistenza un po’ meno amara, per dare ancora speranza in un concentrato di architetture ben pensate e soprattutto studiate per dare in primis spettacolo, una bellezza che non riceve, ma dona.

Ecco allora che i volti ottenebrati si fanno luce, ascoltando pezzi come l’apertura di Conspiracy over my head o Tunnel Vision o l’impressione edificabile di Fragile butterfly wings.

Un disco maturo e del tutto originale che incamera le lezioni di Bjork e di una certa musica nordica che accosta strumenti acustici a sessioni di fiati e di archi, certamente una cosa abbastanza inusuale in Italia che si fa speranza per ricordi da rievocare.

 

 

Jenny Penny Full – Eos (Autoproduzione)

Atmosfera creata e ridondante che si accatasta al suolo, nascosta nelle foreste di pini che coccolano la Lessinia e si concedono di trasformarsi in luogo di racconto per le narrazioni sonore dei Jenny Penny Full che stupiscono, nonostante il primo album, per scelta stilistica e capacità di ottenebrare un meraviglioso concetto di vita per consegnarcelo destrutturato e impacchettando per bene un disegno artistico di respiro internazionale.

Qui dentro ci sono i Portishead, c’è Joan as Police Woman, ma ci sono anche i Blonde Redhead e aggiungerei anche una spruzzatina di Low e degli italiani Amy can be per dare sfogo interpretativo ad una commistione di suoni che non si fa mai preponderante, ma risulta calibrata a dovere, intercettata e meravigliosamente scomposta per dare il via a pezzi come Freezing orchestra passando per Of oceans and mountais e Supernova fino al gran finale di Eos – Reprise.

La dea dell’Aurora quindi sta tornando, un disco sull’oscurità, ma anche sull’attesa di un giorno diverso che deve arrivare, un album sui costrutti introspettivi della vita e sul tempo che ci condiziona, ma allo stesso tempo che ci rendi vivi; sentiremo ancora parlare di loro o almeno lo spero.

Chicken Queens – Buzz (La Clinica Dischi)

Duo spaccatimpani e psichedelico che spara a mille sui volti nascosti di chi tenta di osservarli, non si lasciano dietro nulla, non si lasciano dietro il tempo e creano una commistione di sudore e rumore che si avvicina per molti versi al primordiale rock sviscerato da Hendrix per passare al Jack White dei nostri tempi in un’altalena piastrellata di forme e colori dove la melodia non esiste, ma la forma e la sostanza sono elementi imprescindibili per la buona riuscita di questo disco.

Impatto notevole quindi che lascia lo spazio a qualcosa di primitivo che ti entra nel corpo e non ti lascia andare, quel qualcosa che sa di ruggine e tempo perduto, di maturità sonora, ma anche di punk alla vecchia maniera, quando il marcio che era dentro, si esponeva ed usciva con tutta la sua rabbia carica di significato e d’altronde i nostri non sanno contenersi e creano sfacciatamente un modo diverso di approcciarsi alla musica, un modo più diretto, meno elaborato, ma di sicuro effetto.

 

Blastema – Tutto finirà bene (Ostile Records)

E’ un rock elettronico che si ravviva con tocchi di cantautorato criptico quello dei Blastema ed è anche un moto ondoso configurato al nuovo sistema operativo che riesce a traboccare metadati in formato musicale e li considera parte vitale di un luogo inospitale in cui vivere, lasciando posto al futuro e alla ricerca che non si ferma, ma raccoglie eredità e ascolti del passato per riprendersi e lasciarsi trasportare in echi primordiali mai sussurrati piuttosto carichi di vitalità sin dalle prime battute.

Un rock pressurizzato che si ravviva grazie al colore della notte, un cantato vibrante attesa per dei veri e propri animali da palco che intravedono futuri roboanti grazie al connubio degli strumenti in scena e soprattutto grazie ad un misto rock che si fa onnipresente toccando punte alla NIN e A Perfect Circle in un continuo distruttivo, ma cantato in italiano, vera e propria sorpresa per il genere, sottolineando l’importanza di dare un contributo attivo e innovativo alla musica 2.1 dello stivale.

Si parte con La parte pure per scorrere la bellezza di Prima Che e Asteroide passando per Pastorale e Un modo semplice fino al gran finale affidato a Il destino del mondo per un disco ricco di sfumature, quelle sfumature che compongono la nostra vita e che i Blastema anche questa volta ci hanno raccontato.

Volver – Octopus (Autoproduzione)

Volver è prima di tutto passione per il cinema che si incanala in un suono di puro effetto tastieristico e ingombrante capace di rallentare il tempo e proiettarci lungo tutto ciò che è dissimile a noi per farcelo amare, apprezzare, anche perché le conseguenze in questo loro Octopus sono tutt’altro che prevedibili e sanciscono un connubio tra musica e arte visiva ben congegnata e sentita.

Un disco che cita Nosferatu nel loro video di presentazione dell’album, Octopus poi è otto simbolo dell’infinito, come otto il numero di tracce che spaziano e sconfinano tra rock, blues, psichedelia ed elettronica, ammiccando ai suoni perfetti dei rockers da stadio degli anni ’90 come U2 e Bon Jovi pur mantenendo una caratterizzazione del tutto personale, quasi analogica nel complesso mondo del digitale.

Un album ricco di anfratti, ma che suona aperto, ritorna e si trasforma, sempre in cerca di nuove attitudini, alla ricerca di quella canzone perfetta che fa da corollario ad un immaginario che è racchiuso nella nostra testa e che a fatica tenta di uscire.

Danio Manfredini – Vivi per niente (Sotto Controllo)

Messaggi di segreteria, racconti di vita vissuti appieno, un’anima grondante catrame nero che parla del tempo che ci siamo lasciati alle spalle, che poi, anche se ricco di rimpianti sarà sempre uguale, un giorno, al tempo che viviamo adesso in una continua ricerca dell’essere umano che va ben oltre la caverna racchiusa dentro di Noi, ma si fa carattere sociale nell’isolazionismo dei giorni nostri e che rende merito al bagliore di una luce fioca, che, a tratti, sembra ancora distinguersi.

Danio Manfredini è uno degli attori di teatro italiani più importanti e anticonformisti, la formula del già visto non esiste e la sperimentazione occupa un’esigenza di vita, quasi fosse insito coraggio per proseguire a esistere.

Questo Vivi per niente è la forma più alta di poesia scritta in questi ultimi anni, è un disco ispirato e a tratti indigesto, nel senso più commovente del termine, che ci fa entrare nel suo mondo che alla fine è quello di ognuno noi, quell’inquietudine fatta persona che si respira dinnanzi a un grattacielo o tra lo scorrere delle auto in città; quell’esigenza quasi mistica di ritrovare noi stessi in un bicchiere mezzo vuoto e l’incostanza umana di non essere reali fino in fondo.

E’ un disco, questo, di cuori spezzati, contro ogni forma di classificazione, una musica d’autore che si fa poesia quotidiana nel raccontare un mondo che purtroppo esiste.

Johnny Dal Basso – IX (BProduzioni/Goodfellas)

Johnny dal basso arriva direttamente dal Mississippi con suoni sporchi però, ruvidi, quasi indigesti, ma allo stesso tempo che sanno cogliere il momento, la tentazione di procreare un esercito di nuovi seguaci che sempre più in questo periodo vedono l’alternarsi della chitarra e della gran cassa in una commistione sonora del tutto analogica, tra overdubbing di voce e chitarra con grande impegno e dedizione a testimoniare un’indignazione verso la società moderna, a testimoniare un salto di qualità per le produzioni a venire.

Psychobilly in salsa blues quindi che racconta di donne non convenzionali, a testimoniarlo il singolo Isabella che racconta di una strega assetata di vendetta, ma poi donne ai margini e ingombranti, donne che rapiscono uomini e donne che non hanno paura di celarsi dietro a mariti troppo premurosi.

Un album dal sapore sociale, ricco di energia che ricorda il vicentino Tony la muerte, altro one man band, altro che con il sudore riempie il palco di nuove speranze e aspettative altro che come il nostro Johnny alza il volume della voce facendosi sentire; una voce fuori dal coro che canta le illusioni della vita.

Mikeless – Il maniaco (Taitù Music)

Cantautore dall’animo pop che incanta per ironia e voce soppesata, capace di capire i segreti del quotidiano sovvertendo le regole del pop radiofonico e approcciandosi alla proposta in modo immediato, sin dalle prime battute, tra chitarra acustica e voce alla Giovanni Gulino dei Marta sui tubi in un cantautorato sottile e quasi satirico che racconta i nostri giorni in modo quasi sbarazzino.

Michael Fortunati ama Britti e si sente, lo si sente nel modo di suonare la chitarra e le corde che si trasformano nelle dita mancanti, sospiro per un tempo ricercato, un sogno in divenire e realizzazione, un intimo approccio studiato per rivelarsi utile quanto basta per dare vita a otto composizioni che non sono altro che assaggi del proprio stare al mondo.

Tracce quindi senza sosta, da Anima fino a Funky Love passando per la title track Il maniaco e la riuscita Solstizio generazionale; un one man band capace di proporre con gusto un cantautorato attuale e moderno, mai scontato e a tratti ricercato.

Bright Lights Apart – As everything falls apart (Autoprduzione)

Rock che sposa l’elettronica e la new wave incantando per uso di synth e soppesando di buon gusto una capacità costruttiva che è pura geometria esistenziale in un buco nero, capace di esigenza sonora e di utilità nel reagire al mondo di tutti i giorni, al mondo come lo conosciamo in una tempesta di fulmini e luce che non lascia scampo alla tenebra che avanza.

I Bright Lights Apart sono una band di Rovigo capitanata da Miles T e come creatura cangiante fonde i suoni più cupi degli anni ’90 per investigarli al meglio e trarre un vantaggio, nel sospirato tentativo di dare nuova linfa vitale a questa commistione di big bang non solo pratico, ma anche teorico tra accozzaglie sonore di questi ultimi tempi.

I nostri ne escono vincitori; curioso di poterli assaporare in chiave live il loro rock fa presto centro nelle sensazioni dell’animo umano, un rock che prima di tutto parte dall’anima, la cosa più pura che abbiamo, pronta ad intercettare cavalcate sonore che si fanno attuali pur raccontando del tempo andato.