-LIVE REPORT- Esterina – Canzoni per esseri umani Tour – 10/03/19 – Cohen Verona

Svuotati e scarnificati del tutto o quasi questa sera al Cohen di Verona ci sono gli Esterina in versione duo acustico a presentare, in parte, il nuovo disco Canzoni per esseri umani. Fabio Angeli alla voce e alla chitarra. Massimiliano Grasso al glockenspiel, pianoforte, fisarmonica e cori per un concerto indispensabile oggi più che mai.

Esterina è il suono della bonifica, è la musica tra le più nascoste, segrete e nel contempo meglio conservate del panorama indipendente italiano. Suoni concentrici riempiono un locale in gran parte attento. Suoni che rimproverano parole e parole che accarezzano gesti si fanno largo tra il chiacchiericcio moderno e patinato. Frasi che sovrastano e abbagliano, racchiudendo all’interno di canzoni, di una bellezza immacolata, un senso necessario che si trasforma in stupore e inarrivabile solitudine. I brani degli Esterina si conficcano nello stomaco, non cercano mezze misure, ma piuttosto in questo post rock acustico concentrano esigenze e rimandi a una vita pienamente vissuta che nel suo lato dolce amaro coglie la radice più profonda ed essenziale di tutte le nostre esistenze.

C’è l’odore della terra, lo senti l’odore che ti penetra tra i quartieri di questa città. C’è il profumo e l’essenzialità degli ultimi di questo tempo. Il profumo di chi suda, di chi con coraggio trova una strada da seguire sempre e comunque, senza arrendersi mai, scavando nella carne vie d’uscita.

Le canzoni nuove come Chiamarsi, Santo amore degli abissi, Cometa, Esterno notte si alternano a brani passati da Dio ti salvi, Puta, Stesse barche, Canzonetta passando per La tua voce, Fero e una travolgente bombarda al fulmicotone fatta da Come vuoi che sia nel finale.

Gli Esterina conquistano. Valeva la pena fare tutta questa strada. Un’occasione unica per vedere una piccola parte di una grande realtà lontana da qualsivoglia forma di marketing mediatico, comunicativo, di facciata. Una band che ha riempito un locale attento, un locale così difficile da trovare di questi tempi. Uno spazio che ha saputo ospitare, di sua iniziativa, un segreto nascosto tra le pagine reali di questa nostra realtà virtuale. Un segreto nascosto capace di raccogliere canzoni che si possono toccare, vedere e accarezzare. Canzoni per esseri umani rappresentate in una forma e in una dimensione intima capace di donare nuova speranza e nuovi ricordi da custodire tra le cose migliori. Bravi davvero. 


The last drop of blood – The last drop of blood (VREC 239)

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Atmosfere desertiche abbracciate ad un rock che si spinge oltre i confini conosciuti atterrando granitico e nel contempo quasi psichedelico a rimarcare un territorio concentrico e a lento rilascio dove a farla da padrone sono i suoni provenienti da lontano, da un’altra dimensione. Le sette canzoni che compongono il disco dei The last drop of blood sono indice di una capacità intrinseca nel riuscire a creare brani dal forte appeal emozionale e a tratti distruttivo mescolando il rock più classico con l’elettronica e le atmosfere cinematografiche di un film che non vuole finire. Imponente e monumentale il singolo Thorn, senza dimenticare l’apertura affidata a Cut Wire e finendo un intenso lavoro con la title track che ridona emotività creativa ad un disco strutturalmente ineccepibile che scava nella memoria dei bisogni passati alzando la polvere della quotidianità e guardando oltre il disincanto della vita moderna in un’apertura sonora in stato di grazia pronta a lasciare il segno. 


LIVE REPORT – Paolo Cattaneo – Una piccola tregua tour – Teatro fonderia aperta Verona – 05/03/17

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Da una Fonderia didattica unica in Italia viene ricavato un luogo ideale, nel cuore pulsante di Verona, per mettere in scena e rappresentare l’arte nella sua più totale diversificazione attraverso forme moderne e sempre nuove, attraverso una ricerca costante che stasera vede la musica d’autore essere al centro di un percorso che trova proprio in questo spazio, il luogo ideale per raffigurare il bello nella sua forma più alta, mai effimera o legata alle mode del momento, ma piuttosto una forma concreta lontana dalle mercificazioni artistiche in sintonia con il tempo che portiamo singolarmente nel nostro dentro.

Paolo Cattaneo, con il tour di sei date che posticipa il disco Una piccola tregua, uscito a Novembre 2016, si cimenta attraverso un set d’atmosfera in bilico con le introspezioni dell’animo umano e capace attraverso giochi di luce soffusa di convogliare energie in sintonia con il numeroso pubblico accorso per la serata costruendo architetture di rara intensità che proprio nella dimensione acustico-elettronica trovano il proprio percorso di uscita dopo un album così importante per la musica italiana degli ultimi anni.

Ad accompagnare il nostro nella difficile impresa di tradurre in modo empatico le emozioni intercettate nel disco ci sono musicisti di grande levatura con esperienze più o meno importanti nella musica indipendente e non italiana, da Fidel Fogaroli alle tastiere, ad Andrea Lombardini al basso, passando per Andrea Ponzoni all’elettronica fino alle chitarre e ai cori di Nicola Panteghini il tutto sotto il controllo dei suoni curati da Ronnie Amighetti per una prova d’insieme capace di dare un senso assolutamente percepibile a quella serie di emozioni che in Una piccola tregua sono come un fiume di bellezza mai gridata, ma regalata e concessa in dosi misurate.

Ciò che ne esce è un live che sfiora la perfezione, dove canzoni del nuovo e dei vecchi dischi si alternano in un concerto meraviglia e dove i suoni sono in funzione di un momento magico difficile da replicare e che di certo sono la dimostrazione reale che tante volte la qualità non è sinonimo di dischi venduti o di passaggi radiofonici azzeccati, ma piuttosto una ricerca che trascende il materiale per avvicinarsi ad una dimensione onirica che trova nella bellezza del sogno un ponte con la realtà che ci circonda e dove le parole acquisiscono significato proprio quando sono lì lì per svanire tra l’amore per le cose belle e i momenti che portiamo con noi.

Setlist

  1. Se io fossi un uomo
  2. Il miracolo
  3. Mi aspetto di tutto
  4. 2905-Trasparente
  5. Non ho rabbia non ho pietà
  6. Ho chiuso gli occhi
  7. Come per miracolo
  8. Se qui per me
  9. Bandiera
  10. Due età un tempo
  11. Confessioni per vivere
  12. Sottile universo
  13. Tarda pure
  14. Il gioco
  15. L’uomo sul filo

Passenger Side – It means a lot (Cabezon Records)

E’ un viaggio dentro a noi stessi, un viaggio che ci permette di riscoprire punti di vista differenti, nuovi e stimolanti, abbracciando la lezione del tempo e concatenando fatti e avvenimenti con un qualcosa che sentiamo vicino a noi, lo accogliamo, lo accarezziamo, lo facciamo nostro e nel contempo lo lasciamo andare al suono indistruttibile di noi stessi, delle nostre aspirazioni, per creare strutture multiformi, colorate, in un divenire coscienzioso e sperimentando approcci nuovi per conquiste future.

Mario Vallenari, assieme ad altri fidati musicisti del veronese, da vita ad un progetto molto interessante che in qualche modo si lega al neo folk dei giorni moderni, strizzando però un occhio di riguardo a tutte le produzioni degli ’90, ricordando, per sonorità, Badly Drawn Boy per appigli sonori per così dire vintage in tutte le canzoni e un’attenzione a questo che si immedesima molto bene con la complessità e gli arrangiamenti della band in questione con l’intento di lasciarsi alle spalle vecchi ricordi e dar vita ad un disco, tra l’altro di notevole spessore artistico, leggero e impegnato allo stesso tempo.

Pezzi degni di nota sono le aperture lasciate a Last night alive e Black Dawn, passando per le riuscitissime Pieces e Out per arrivare al finale consegnato alla Title track, un finale che garantisce un nuovo inizio, con la consapevolezza che un seme è stato piantato, un seme splendente luce in giorni bui.

Stefano Ferro & Band – Il mercante di pensieri (UDU Records)

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Cantautore dell’animo umano capace di dipingere con soppesate parole una situazione in divenire che abbraccia la nostra terra, le nostre speranze e i nostri modi di dire e di vivere, attraverso una voce profonda e incisiva, da cantautore con la C maiuscola, attraverso testi che parlano di noi alle prese con le verità trasposte nell’assurdo del nostro venire gettati al mondo, per suoni acustici impreziositi dalla presenza di un comparto stilistico affidato ad una band puntuale e precisa formata da Francesco Turlon alla batteria e alla percussioni, da Angelo Nacca al basso elettrico e da Luca Maragnoli alla chitarra acustica ed elettrica, per un disco fatto d’amore e di rose pronte a sbocciare in incursioni poetiche dove l’analisi del testo fa comprendere ancora più in profondità quanto il nostro sia attaccato a grandi della musica italiana, De André e Bubola su tutti, soprattutto nel cercare conforto grazie alle parole e ad esprimere attraverso la voce, il bisogno di interpretare la vita, da Il mercante di pensieri fino alla bellissima e toccante 1915 Stefano Ferro crea una prosecuzione naturale con gli stati d’animo di ognuno di noi, rendendo famigliare ogni filo d’aria che respiriamo, rendendo unico  quel vento del raccontarsi che accomuna ognuno di noi.

Disperato Circo Musicale – Super Bomba (Azzurra Music)

Secondo disco festante d’apparato circense che si muove tra le emozioni della strada e quelle dello spettacolo, unendo sapientemente l’arte per il gusto mai banale e per il godereccio in divenire che riempie le piazze e fa sognare, donando concretezza alla proposta e parafrasando in mood riuscito tutti quei gruppi che fanno dell’irriverenza folk il loro marchio di fabbrica dai Gogol Bordello fino ad arrivare agli italiani Bandabardò, permettendo paragoni intuitivi e di facile appeal immortalati quest’ultimi in collaborazioni come con Furio degli Ska-j nella diametralmente opposta, ma di assonanza esplicita, 54-56 Porto de Garda, fino a inglobare la natura in festa delle composizioni che sfiorano il tema sociale in Metro per poi condurci fino alla fine in uno scoppiettante cielo illuminato a giorno da fuochi d’artificio  che ammantano quella Botte botte a chiudere il disco; un vorticoso arcobaleno di colori che fa dello scuotersi su di una pista baciata dal mare, il proprio motivo di esistere, la propria esigenza nel dichiarare nuovi sogni da costruire, una band che è la summa dell’allegria, concentrata per l’occasione all’interno di un album esageratamente floreale.

Cafe Desordre – Disordinazioni (Autoproduzione)

Progetto musicale che mescola sapientemente e in modo devo dire alquanto inusuale il cantautorato con le influenze jazz, passando per la psichedelia e il suono prog a noi più caro in un connubio che si fa racconto di polvere e sostanza che lascia l’ascoltatore interessato per la tecnica utilizzata, una formula vincente e priva di artifizi in bilico tra immediatezze e cura dei dettagli, dei particolari.

Per originalità della proposta ricordano i vicentini CASA, meno sperimentali certo, ma sicuramente in grado di creare emozioni sonore che vanno in netto contrasto con le produzioni attuali, alla ricerca di una propria via da seguire nello sterminato panorama della musica italiana odierna.

Si perché fare musica oggi, nel 2016, significa soprattutto avere i piedi per terra e i nostri veronesi psycho folk Cafe desordre insegnano tutto questo; la sperimentazione parte in primis dalla consapevolezza delle proprie capacità mantenute e implementate nel tempo, ma mosse sostanzialmente da quell’energia interiore che si chiama musica e che ne raccoglie il significato più profondo.

Un disco sulle disordinazioni del nostro io, sui viaggi cosmici, interstellari e sui momenti di follia che ci richiamano ad essere diversi in un’eterogeneità che ci appartiene fin dal principio.

Jenny Penny Full – Eos (Autoproduzione)

Atmosfera creata e ridondante che si accatasta al suolo, nascosta nelle foreste di pini che coccolano la Lessinia e si concedono di trasformarsi in luogo di racconto per le narrazioni sonore dei Jenny Penny Full che stupiscono, nonostante il primo album, per scelta stilistica e capacità di ottenebrare un meraviglioso concetto di vita per consegnarcelo destrutturato e impacchettando per bene un disegno artistico di respiro internazionale.

Qui dentro ci sono i Portishead, c’è Joan as Police Woman, ma ci sono anche i Blonde Redhead e aggiungerei anche una spruzzatina di Low e degli italiani Amy can be per dare sfogo interpretativo ad una commistione di suoni che non si fa mai preponderante, ma risulta calibrata a dovere, intercettata e meravigliosamente scomposta per dare il via a pezzi come Freezing orchestra passando per Of oceans and mountais e Supernova fino al gran finale di Eos – Reprise.

La dea dell’Aurora quindi sta tornando, un disco sull’oscurità, ma anche sull’attesa di un giorno diverso che deve arrivare, un album sui costrutti introspettivi della vita e sul tempo che ci condiziona, ma allo stesso tempo che ci rendi vivi; sentiremo ancora parlare di loro o almeno lo spero.

Iacopo Fedi & The family Bones – Over the nation (Cabezon Records)

Cantautore post moderno che raccoglie la pesante eredità di Lou Reed e Bruce Springsteen per mettere in musica un blues contaminato dal rock anni ’70, tra un’oscurità che avanza e ci ingloba, raccontando di un mondo teso a comprendere culture, relazioni e vivere quotidiano.

Proprio di questo parla il nostro e la sua è una ricerca che parte dal basso, dalle radici di una musica dannata che si contorce e rende l’esperienza del cercare abile ragione intesa come passo necessario per scoprire e riscoprire qualcosa che è andato perduto, l’idea dell’ interrogarsi, quel bisogno intrinseco di scoprire e dare un senso maggiore all’esistenza trasformando un’abbozzata idea in un vero e proprio concept di un Don Chisciotte errante che cerca la verità, cerca di capire quella vita fatta di sogni infranti e futuri ancora da visionare.

Le canzoni allora prendono forma in un eco floydiano fatto di cori e ricordi, un disco solista che attendeva di uscire, attendeva l’attimo propizio per segnare la via con pezzi come la title track Over the Nation, fino a Sr Napoleon passando per l’incisiva, in grado di raccogliere la sfida per comprendere l’ignoto, This hard War.

Facciamo parte di una guerra quotidiana che ci vede unici protagonisti in grado di cambiare quel poco che abbiamo.

La nostra vita come una dura lotta per la sopravvivenza, in un mondo dove purtroppo i sentimenti sono sempre meno importanti e dove il nostro Iacopo cerca di ridare valore e senso ad un qualcosa di perduto per far riflettere, per farci sembrare migliori.

Damien Rice – 30/07/15 Villafranca (VR) – Live Report

UN PALCO VUOTO E LA TESTA PIENA DI STELLE

Il Castello Scaligero di Villafranca dal 1200 segna il tempo sugli abitanti del veronese, rendendolo location affascinante per qualsivoglia concerto di musica internazionale e non, a ristabilire il contatto tra passato e futuro, in un’immacolata concezione di stabilità e gusto, un sussurro di maestosità e grazia, pronta ad ospitare quello che è considerato il cantastorie più emozionale dell’epoca musicale contemporanea.

Damien Rice non è una creatura sovrannaturale è una persona qualunque che sale su di un palco e canta l’amore, quegli amori relegati all’angolo di una strada buia e plumbea, quegli amori di terre verdi e trasparenti dove guardare l’infinito sulle scogliere e non chiedere nulla al futuro, sostanza e introspezione, il tono dimesso da menestrello vissuto con gli occhi di chi sa regalare emozioni ascolto dopo ascolto in un interesse collettivo che si fa applauso senza mezzi termini, uno scrosciare disteso di mani a cercare altre mani, lì, tra il cambiamento e un’acusticità imprevedibile, spoglia, nuda e cruda, dove i suoni sono sempre in funzione del racconto, suoni stabili, leggeri che hanno il colore dell’oro, un vortice continuo di intenzioni non troppo lineari a fare da sfondo al mondo che ci circonda.

Damien canta canzoni in cui ci rispecchiamo, canta la giovinezza che fa parte di noi, canta del passaggio della marea e di quell’acqua che cancella il passato, cancella ogni qualsivoglia forma di finzione per renderci naturali, come foglie di albero maestoso pronte a rinascere con la nuova stagione.

La naturalità negli intenti si evince sul palco come nella vita, definito incoerente io aggiusterei il tiro con reale, una persona fuori dal coro che fa parte di ognuno uno di noi, quel Damien che tanti anni fa partiva da Dublino con una Mini per vedere il suo gruppo preferito, i Radiohead, 11 giorni di viaggio imponendosi di scrivere una canzone al giorno per poi tornare e aprire i concerti di Cohen, un Damien pauroso della vita, ma che la affronta con noncuranza, la sfida e ne esce vincitore.

Damien su quel palco il 30 Luglio ci è salito e ha raccontato la sua storia, a tratti, soprattutto nella prima parte del concerto un po’ freddo, relegato al suo mondo intriso di misticità e in grado di comunicare non sempre alla perfezione, poi grazie alla loop station e a improvvisazioni sonore ha trasformato la sua chitarra acustica in qualcosa di elettrico e distorto, mandato in progressione artificiale, rendendola partecipe di qualcosa di più grande.

Suoni non sempre calibrati rendono l’ascolto a tratti troppo distorto, soprattutto nelle retrovie, anche se il risultato complessivo è buono, grazie alla capacità del menestrello di stare sul palco e di intrattenere il pubblico ironicamente.

A parte la nota stonata di una Britney Spears di turno chiamata sul palco da Damien per cantare Volcano le perle scorrono ininterrottamente e si lasciano ammirare Delicate in apertura così dal nulla, Coconut skins, Woman like a man, l’harmonium di Long long way, la sempre affascinante Amie fino alla bellissima My favourite faded fantasy dell’ultima fatica, toccando la bellezza in The great bastard e lasciarsi andare alla perfezione in moto perpetuo di It takes a lot to know a man.

Bis affidati a Cannonball, Nine Crimes e nel finale tutti sotto al palco a rendere omaggio con Blower’s daughter, diventata ormai classico senza tempo.

Niente foto per questo live report, ne circolano ben troppe in rete, voglio ricordarlo così, un palco vuoto e la testa piena di stelle, l’esigenza iniziale di spegnere i telefonini, gustarsi lo spettacolo, cosa che in gran parte il pubblico educato ha fatto, nel rispetto della bellezza sfiorata; un palco vuoto e lui forse dopo poche ore fuori, con il pubblico, in un aftershow ancora più emozionante, un cantautore plasmato non per le masse, ma solo per chi sa riconoscere al primo sguardo chi trasmette ciò che la stragrande maggioranza degli artisti odierni sa solo immaginare.

Marco Zordan – IndiePerCui

SetList

  1. Delicate
  2. Coconut skins
  3. Woman like a man
  4. The box
  5. Long long way
  6. Volcano
  7. Amie
  8. MFFF
  9. Elephant
  10. I remember
  11. The greatest bastard
  12. The professor e la fille danse
  13. It takes a lot to know a man

Encore

Cannonball / Nine crimes / The blower’s daughter