Union Drama – Union Drama (ALKA record label)

Progetto di respiro internazionale che sa di storia musicale degli ultimi anni, tra continui rimandi con un mondo in divenire e un suono che si fa portatore delle più buone contaminazioni, tra sintetizzatori che fanno la loro egregia parte e la scelta dei suoni che si divincolano in modo prepotente, ma sempre calibrato, tra una batteria che è una vera e propria drum machine a ricercare uno stile elegante e di sicuro impatto.

Loro sono gli Union Drama è questo è il loro disco d’esordio, tra elucubrazioni che si lasciano alle spalle ciò che non serve e influenze di electro-rock vissuto fino al midollo tra citazioni di Daft Punk, Muse, Editors in parte e Animal Collective, piacendo e creando nell’ascoltatore che medita e vuole analizzare i testi un concentrato quasi dissacrante e naif di contraddizioni sociali e amorose, a diventare forma e sostanza senza lasciare scheletri nell’armadio, ma proponendosi in tutta la loro capacità pensata.

Un suono che strizza l’occhio oltreoceano, pure decisioni che si aprono con Aristocratic Ego per finire con la riuscita Stay Here, vortice emozionale di introspezione acuta per dare vita ad un disco che si dipana tra passato e futuro con gli Union Drama a captare i segreti del tempo avvolti nell’ombra.

Muna – Sospesa in volo (Autoproduzione)

Testi che divagano tra i territori del rock di matrice italiana che attraverso arrangiamenti impostati si ritagliano un posticino di nicchia in sovente divenire, marchio di fabbrica dei Muna che raccolgono l’eredità di gruppi come Litfiba, per citarne uno a caso e sconvolgono, in parte, le carte in tavola, confezionando un disco dal sapore di già sentito se non per una predisposizione all’arrangiamento sonoro che crea continuità nella ricerca di un proprio stile, una ricerca che si imbatte oltre il rock più classico per toccare apici di progressione nel vero senso del termine amalgamando esigenze e ricostituendo uno stile che sembrava dimenticato.

I Muna vengono da Roma e grazie a questo disco ci regalano una prova onesta che si muove tra terra e cielo, tra una continua e costante ricerca di buone intenzioni che vengono calcolate in strutture solide e compresse con testi semplici e diretti, incorporati a tal punto da lasciare in disparte il citazionismo e andando diretti al nocciolo della questione in una sorta di trance eliocentrica dove il ruotare vorticoso è punto comune in tutti e dieci i pezzi.

Canzoni sull’attualità e canzoni sul domani, che parlano di amori che non ci sono più e rapidi cambiamenti umorali che nascondono al cuore ciò che più si desidera tra l’apertura in Sospesa in volo e il finale introspettivo di Aeroporto Falcone Borsellino.

Un album fatto di soggettività apparente che stabilisce i fondamenti del rock aggiungendo un tocco personale e carico di energia capace di incanalare i pensieri verso un qualcosa ancora di indefinito e lontano.

Bosco – Era (Autoproduzione)

Raccontare e raccontarsi, nudi allo specchio in un continuo nascondersi e celarsi attraverso i sogni che ci hanno costruiti, quei sogni che ci hanno fatto sperare di essere migliori, un continuo cercare il palazzo immaginario dalle enormi vetrate azzurre che in un attimo è pronto a crollare sopra di noi e sopra le nostre speranze.

I romani Bosco al loro esordio confezionano un disco fatto di sguardi alle finestre in una giornata di pioggia, una ragazza dai capelli lunghi che fissa il vuoto, là, oltra la brughiera, oltre il castello nel cielo, oltre l’immaginazione del tempo passato, un cercare luoghi migliori in cui stare grazie alla musica.

Una musica che fa ecco al pop sintetizzato dei primi Baustelle e notevole è l’avvicendarsi della voce maschile e femminile a rendere omogeneo quel tutto carico di significato profondo, quasi fosse una melodia proveniente da lontano dove le tastiere non predominano, ma fanno da sfondo autunnale al bel tempo che verrà.

Un album quindi fatto si sogni perduti e amori lasciati, dove il raccontare la vita di periferia è un modo raffinato e sincero per chiudere il proprio spirito dentro a un cuore solitario che si sta ancora cercando, remore del vuoto che gira attorno e dove il domandarsi è costrutto necessario per costruire e costruirsi.

Dieci canzoni che parlano di amori e di viaggi Me ne andrò a Berlino, perché così mi piace chiamarla, anche se il vero titolo è Il disertore, parte sulla scia dell’abbandono per concedersi poi aperture nel meraviglioso singolo La mia armata, via via Amòr e il Tempo per la dolce timidezza di Il susseguirsi degli eventi e poi ancora il viaggio, le vacanze estive con Malaga, passando per Se e finendo con l’ineluttabile Esedra.

Parlare di raffinatezza non è sempre facile ai giorni nostri, anche perché con i potenti mezzi che abbiamo per fare un buon disco ora più che mai contano le idee e l’idea di eleganza non strillata in questo album ricopre gran parte delle tracce e lascia quel senso di appartenenza simile a un ricordo lontano, a un’immagine di un tempo passato, dove le giornate duravano una vita.

Damien Rice – 30/07/15 Villafranca (VR) – Live Report

UN PALCO VUOTO E LA TESTA PIENA DI STELLE

Il Castello Scaligero di Villafranca dal 1200 segna il tempo sugli abitanti del veronese, rendendolo location affascinante per qualsivoglia concerto di musica internazionale e non, a ristabilire il contatto tra passato e futuro, in un’immacolata concezione di stabilità e gusto, un sussurro di maestosità e grazia, pronta ad ospitare quello che è considerato il cantastorie più emozionale dell’epoca musicale contemporanea.

Damien Rice non è una creatura sovrannaturale è una persona qualunque che sale su di un palco e canta l’amore, quegli amori relegati all’angolo di una strada buia e plumbea, quegli amori di terre verdi e trasparenti dove guardare l’infinito sulle scogliere e non chiedere nulla al futuro, sostanza e introspezione, il tono dimesso da menestrello vissuto con gli occhi di chi sa regalare emozioni ascolto dopo ascolto in un interesse collettivo che si fa applauso senza mezzi termini, uno scrosciare disteso di mani a cercare altre mani, lì, tra il cambiamento e un’acusticità imprevedibile, spoglia, nuda e cruda, dove i suoni sono sempre in funzione del racconto, suoni stabili, leggeri che hanno il colore dell’oro, un vortice continuo di intenzioni non troppo lineari a fare da sfondo al mondo che ci circonda.

Damien canta canzoni in cui ci rispecchiamo, canta la giovinezza che fa parte di noi, canta del passaggio della marea e di quell’acqua che cancella il passato, cancella ogni qualsivoglia forma di finzione per renderci naturali, come foglie di albero maestoso pronte a rinascere con la nuova stagione.

La naturalità negli intenti si evince sul palco come nella vita, definito incoerente io aggiusterei il tiro con reale, una persona fuori dal coro che fa parte di ognuno uno di noi, quel Damien che tanti anni fa partiva da Dublino con una Mini per vedere il suo gruppo preferito, i Radiohead, 11 giorni di viaggio imponendosi di scrivere una canzone al giorno per poi tornare e aprire i concerti di Cohen, un Damien pauroso della vita, ma che la affronta con noncuranza, la sfida e ne esce vincitore.

Damien su quel palco il 30 Luglio ci è salito e ha raccontato la sua storia, a tratti, soprattutto nella prima parte del concerto un po’ freddo, relegato al suo mondo intriso di misticità e in grado di comunicare non sempre alla perfezione, poi grazie alla loop station e a improvvisazioni sonore ha trasformato la sua chitarra acustica in qualcosa di elettrico e distorto, mandato in progressione artificiale, rendendola partecipe di qualcosa di più grande.

Suoni non sempre calibrati rendono l’ascolto a tratti troppo distorto, soprattutto nelle retrovie, anche se il risultato complessivo è buono, grazie alla capacità del menestrello di stare sul palco e di intrattenere il pubblico ironicamente.

A parte la nota stonata di una Britney Spears di turno chiamata sul palco da Damien per cantare Volcano le perle scorrono ininterrottamente e si lasciano ammirare Delicate in apertura così dal nulla, Coconut skins, Woman like a man, l’harmonium di Long long way, la sempre affascinante Amie fino alla bellissima My favourite faded fantasy dell’ultima fatica, toccando la bellezza in The great bastard e lasciarsi andare alla perfezione in moto perpetuo di It takes a lot to know a man.

Bis affidati a Cannonball, Nine Crimes e nel finale tutti sotto al palco a rendere omaggio con Blower’s daughter, diventata ormai classico senza tempo.

Niente foto per questo live report, ne circolano ben troppe in rete, voglio ricordarlo così, un palco vuoto e la testa piena di stelle, l’esigenza iniziale di spegnere i telefonini, gustarsi lo spettacolo, cosa che in gran parte il pubblico educato ha fatto, nel rispetto della bellezza sfiorata; un palco vuoto e lui forse dopo poche ore fuori, con il pubblico, in un aftershow ancora più emozionante, un cantautore plasmato non per le masse, ma solo per chi sa riconoscere al primo sguardo chi trasmette ciò che la stragrande maggioranza degli artisti odierni sa solo immaginare.

Marco Zordan – IndiePerCui

SetList

  1. Delicate
  2. Coconut skins
  3. Woman like a man
  4. The box
  5. Long long way
  6. Volcano
  7. Amie
  8. MFFF
  9. Elephant
  10. I remember
  11. The greatest bastard
  12. The professor e la fille danse
  13. It takes a lot to know a man

Encore

Cannonball / Nine crimes / The blower’s daughter

3CheVedonoIlRe – Un uomo perbene (La Zona/La Grande Onda)

Secondo disco in studio per il quartetto romano che per l’occasione si concentra sull’analisi sistematica e migliorativa della società dal punto di vista del comportamento e dell’appartenenza ad un gruppo che nel bene o nel male stabilisce l’impegno e le forze da dedicare al nuovo che avanza.

Un disco di pop rock ben suonato direi dove a far parlare di se sono i testi diretti in italiano che ci raccontano e si lasciano raccontare non verso fini sconclusionati, ma alla ricerca costante di un approccio chiaro e netto che si fa distinzione assoluta nei confronti del pop  italico in circolazione.

Responsabilità individuale quindi che si fa forza dominante e allo stesso tempo racchiude la volontà di cambiare sottolineando in modo inequivocabile che ad ogni nostra azione corrisponde una contropartita che il più delle volte passa in secondo piano, in sordina; un muto declino verso l’inesorabile abisso.

Il gruppo romano racconta di un’Italia che non conosce più la parola collettività, racconta della caduta, racconta degli sguardi pronti a virare dall’altra parte, racconta di quel precario equilibrio su cui si basano i rapporti umani, una finalità sentita e vissuta, con l’intento di far rinascere l’uomo responsabile di una terra che appartiene a tutti.

Potenza rock quindi, condita dal pop e attitudine punk che nei live trova una dimensione ancor più dirompente; dieci tracce partendo con la storia di Dario, per finire con Lascia andare, tra incursioni sonore che si fanno ricordare e testi taglienti che lasciano il segno.

Lo Spinoso – La mia nuova vita leggera (Autoproduzione)

Lo Spinoso è quel timido riflesso di luce nascosto dietro la copertina del disco, è introspezione degna della terra d’Albione, è Nick Drake che canta in italiano e che ci consegna una prova meditata e arpeggiata, dove non è stata usata nessuna distorsione e dove i puliti dell’elettrica e dell’acustica si fanno interessante avvicendamento per un nuovo corso di cantautorato che unisce la tecnica alla poesia.

Dimentichiamoci i testi non sense che accostano parole strampalate, il nostro in questa occasione si regala una vita si più leggera, ma anche carica di attese, capace di conferire alle nuvole un tocco di veridicità e dove la pioggia scesa dal cielo è pronta ad incanalarsi e offrire all’ascoltatore attimi di vita vissuta, concitata e profonda.

Uno stile, il suo, inconfondibile, che si esprime in tutto il suo splendore, Fermi come noi passando per la meraviglia di Piovono bugie confessandosi in Il mio recinto e creando un appeal con chi ascolta in canzoni come Statue di polvere e firmando la decadenza in Armature.

Noi così distratti da non capire al primo ascolto, ci avviciniamo alla bellezza di questo cantautore con sguardo attento e forte capacità di apprendere, tra fingerstyle d’alta quota e parole soppesate e digerite, che raccontano di una vita, la nostra, che deve venire sempre a patto con qualcosa, fino alla fine dei giorni, in un vortice continuo, che Tiziano Russo, in arte Lo Spinoso, ha contribuito a ricreare.

I topi non avevano nipoti – I topi non avevano nipoti (Volcan Records)

Sembrano i tre da Pordenone, gli allegri ragazzi morti che in qualche modo hanno fatto, nel loro piccolo, la storia della musica indie italiana, sembrano appunto, ma non lo sono, oggi su IndiePerCui passano I topi non avevano nipoti, il palindromo per eccellenza, dove al proprio interno risiede un’anima rock ribelle nello specifico e forte capacità di raccontare.

Raccontare quegli anni che ci hanno attraversato, quegli anni carichi di rimpianti e la voglia di cambiare, un prima e un dopo fatto sostanzialmente con la capacità di chi ha vissuto in prima persona il cambiamento e da chi con coraggio ha preso ispirazione per creare un qualcosa, per dare un senso al già scritto, per compiere il salto nel vuoto necessario per essere diversi.

Sono 11 canzoni queste, 11 canzoni che reinterpretano i suoni puliti delle chitarre e lo fanno con una forte capacità intensiva, mi piace pensare che attorno a queste canzoni ci sia un prima e un dopo, cosa eravamo e cosa saremo, tante idee nelle testa, ma l’insicurezza che qualcosa vada storto, che qualcosa non sia come ce lo siamo immaginati.

Ecco allora che  i nostri romani non parlano di sogni o di sterili lontananze, ma si fanno veicolo per raccontare una realtà, quella dei trent’anni, l’avere trent’anni ora e vivere in un mondo affossato al suolo, sottolineando dubbi, debolezze e verità.

Siamo visti come Cavie, in Quartieri affollati, tra Radiazioni e Inquinamento e poi la Fretta ancora che ci attanaglia per poi non cambiare e restare Uguali.

Il pensiero si fa vivo, gli strumenti iniziano a suonare e forse un pezzo di adolescenza che racchiude l’illusione di cambiare ce la siamo già mangiata, non ci resta che uscire, ora, dalle nostre case e ricostruire con umiltà un mondo in rovina.

Don Juan and the Saguaros – Don Juan and the Saguaros (Goodfellas)

Rock and Roll mescolato al country folk rincorrendo serpenti lungo le vie infinite e desertiche che rapiscono per afosità giornaliera e strati continui di calore sovrapposto, un ballo infinito lungo le strade del tempo, sotto quel sole che non ama nascondersi e che direttamente fa capolino per riscaldare eccessivamente i volti di sudore e di storia vissuta.

Don Juan assieme ai Saguaros confeziona una prova in bilico tra un Johnny Cash meno introspettivo, un Micah P Hinson in stato di grazia e il classico Dylan assieme alla The Band.

Un disco dal sapore polveroso, ma che si insinua piano piano fino a farti scordare tutto ciò che è inutile per condurti in luoghi lontani fatti di arroccamenti legnosi e  pietre lasciate scolpire dal vento, da quel vento che ha cambiato la storia ancora una volta, una sostanza fatta di libri che narrano la vita, racchiusa, riscoperta e immolata.

Un album che non si lascia dietro troppi pensieri, non si rifà ad una ricerca vera e propria, ma si fa portatore di nuovi attimi di vita rimescolando le carte in tavola di un saloon dimenticato e trasformando il già sentito in un qualcosa che affascina, porta in alto il sapore e il valore di un ballo che non vuole mai finire, su assi scomposte e ricche di spessore.

Musica quindi che rapisce dalla prima all’ultima traccia che riesce a creare un vortice sovrapposto che per metafora si accosta alla gonna della ragazza che ti è sempre piaciuta e che si lascia andare vorticosamente in una danza che non ha fine.

Neodimio – Urla Dentro (Autoproduzione)

Cantato italiano per un rock dal sapore d’oltreoceano che infrange le proprie onde su scogli impetuosi, granitici e stilisticamente vicini a suoni che rimandano a Foo Fighters in primis pur mantenendo una forte dose di personalità incendiaria che trasforma il tutto in un qualcosa di energico e positivamente inglobante.

Un disco schietto e diretto per la band composta da Francesco Cremisini, Alberto Sempreboni e Simone Gerbasi che lascia intendere nuovi orizzonti capaci di confondere e infondere in modo del tutto naturale e senza cercare mezze misure, nuovi suoni e colori da distribuire e gridare al mondo.

I romani con questa prova si lasciano alle spalle le troppe influenze musicali per dare un senso al tutto e stupendo ancora una volta con l’oscura cover di Elisa: Luce.

Pretenziosi quindi, ma anche portatori di umiltà i nostri si lasciano andare creando canzoni simbolo come Impossibile e Il frammento, episodi di certo riusciti, con un buon appeal di base caratterizzato da un’immediata orecchiabilità.

Disco pieno quindi e carico di energia, che sa dosare e in certi momenti si lascia anche andare al giorno che verrà, tra post grunge e rock del nuovo millennio con aspirazioni future e gioie da raccogliere.

Le Malanime – La cura, il male e l’estasi (VREC)

Un disco rock ben confezionato e tenuto in piedi da un piglio alternativo e grintoso che comunque relega il tutto ad un rock teen emozionale, suonato e selezionato per entrare in tutti i sensi in quel progetto di concept album tanto caro alla musica degli anni ’70.

La cura, il male l’estasi è un percorso non solo sonoro, ma un percorso dentro ognuno di Noi, un strada da seguire non sempre facile, ma che porta ai risultati sperati solo dopo aver lottato con tutte le forze per un qualcosa di migliore, per un qualcosa che ci fa stare meglio.

Strizzando l’occhio all’altra band loro conterranea i Velvet, i nostri si lasciano ad incursioni sonore in un cantato Verdeniano dei primi album e sorpreso da fulmini chitarristici che donano elasticità e deflagrazione sonora, incendiando sapori melodrammatici da film americano degli anni ’30.

Un disco quindi che va oltre l’idea del commerciale, del facile e del già sentito, 10 canzoni che si distruggono per un’ideale e nella ricerca fanno si che il risultato sia migliore di ciò che potrebbe essere sperato.

Buona prova quindi per questa giovane band, che sa fin dove osare, sa che cosa vuole e certamente utilizzerà ciò che di meglio ha nel proprio dentro per regalarci ancora una volta attimi di introversione e lontananza, paura e morte, momenti di angoscia profonda prima del grande salto.