Alessio Ivan – Viola (La fame Dischi)

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Viola è il colore di chi vuole apparire, ma anche di chi vuole essere accettato, il colore che porta con sé sfumature di vita che parlano da vicino all’orecchio dell’ascoltatore intavolando sensazioni uniche grazie ad un’elettronica mescolata ad un cantautorato congegnato e pronta a divincolarsi dal nulla intorno per farsi veicolo, trasporto di comunicazione. Alessio Ivan catalizza i bisogni e le sensazioni del momento per dare alla luce il suo primo disco d’autore dove suoni moderni si ripiegano alla bellezza della poesia e scaldano di intenzioni i rapporti conquistando di energia al primo ascolto. Viola nasce spontaneo, nasce e cresce attraverso canzoni come Freddissima Anima, Questi miei limiti, La mia creatività a raccontare attimi di vita che nella biografia dello stesso cantante diventano momenti importanti che costruiscono e imbrigliano attese. Alessio Ivan, con questo disco, porta su musica una vita intera. 


The Bronze Bananas – The Bronze Bananas (Autoproduzione)

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Affezionati al rock ‘n’ roll degli anni ’60 quando le balere si riempivano al suono di vespe strillanti e serate che si lanciavano in balli sfrenati, affezionati ad un appeal essenziale, senza troppe ricerche, ma con un bisogno di esprimere sensazioni grazie ad una musica debitamente convogliata nell’attimo che fugge e nel rincorrere la gioia della singola nota pronta a farci ballare all’inverosimile. Loro sono i The Bronze Bananas, vengono dalla romagna, patria del folclore musicale da serate danzanti, un gruppo capace di confezionare un album carico di quel desiderio quasi imprescindibile di ritrovare punti di contatto con un tempo che non c’è più, incrociando beat dal sapore vintage riproposto in chiave, a tratti psichedelica, da Cliff Richard, passando per i The Beach Boys in uno scuotere l’interno per dare senso diverso al nostro intorno ecco allora che i nostri riescono nell’intento di registrare questi undici pezzi in lingua inglese, tranne che per una comparsa in lingua madre con la ballad Controtempo uno dei brani più riusciti dell’intera produzione proposta. Che sia un segnale questo? Di certo l’atterraggio sul pianeta della lingua italiana riesce a comunicare maggiormente e trovo che ci sia una forte musicalità nel tutto che ben si sposa con il sound in questione; spero che i nostri riescano a trovare una strada da percorrere più vicina a quest’ultima possibilità, la stoffa c’è e magari potremmo avere un gruppo come I Ribelli o I Corvi attualizzato e integrato nel nostro tempo.

La Madonna di MezzaStrada – Crono (La Fame Dischi)

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Paesaggi sonori cupi che si aprono pian piano verso un cantautorato di stile eccentrico che amalgama la lezione del prog per intersecarsi in modo naturale con un folk condito da spruzzate lisergiche di assoli d’arco per un post rock dove le parole diventano poesia e dove l’affascinante uso di sintetizzatori e importanti passaggi cosmici da vita ad un excursus sul tempo e sulla sua molteplice ineluttabilità, toccando argomenti metafisici con la passione di chi, al terzo disco, ha tutte le carte in regola per rientrare in quella cerchia di band che sanno suonare, ma che sanno anche usare le parole.

Bellissima la traccia d’apertura Albero che via via apre la propria chioma in modo da far scoprire un paesaggio di colori che passano dal rosso al verde, toccando il blu e le moltitudini di necessità che guardano il cielo in Dirigibili e atterrano nella vita di tutti i giorni con Cesare per una compiutezza che ritroviamo nelle poche parole di Crono, outro visionario di pregevole effetto.

Un disco da scoprire che mi auguro sia un passaggio essenziale per una band che non ha mai smesso di cercare la propria strada tra le moltitudini di percorsi presenti, con coraggio e determinazione, con fame d’aria e parole nuove.

LinFante – Piccolo e Malato Ep (LaFameDischi/Sinusite Records/Winter Beach)

Scaraventato nel mondo quotidiano, dopo peregrinazioni europee, il cantautore lo-fi LinFante ci permette di entrare nel suo mondo in punta di piedi tra chitarre sghembe e sperimentazioni da cameretta per un album che vede la luce dopo il disco d’esordio Non mi piace per niente, cinque canzoni per un Ep in grado di portarci a ritrovare una via di fuga dalla città, in maniera diretta e allo stesso tempo dimessa, raccontando di luoghi che non esistono più o che sono frutto di una fantasia leggendaria, capaci questi, di infondere una storia dentro la storia, passaggio necessario per comprendere una poetica che narra l’amore come causa di una sofferenza interiore che ha bisogno di uscire, di penetrare e di renderci partecipi di tutto questo, dalla notturna Serenata ai grilli, passando per la città attuale dove il nostro vive, Roma, le allucinazioni di Una pianta carnivora mi ha detto che non mi ami più fino alla conclusione di L’amaro e della poetica title track per un disco che ha il sapore fanciullesco di una larva che può e che deve diventare farfalla.

Anonima Noire – Fino all’anima e ritorno (Autoproduzione)

Fino all’anima e ritorno è un disco che ci fa addentrare nella parte più intima che risiede in noi e lo fa con i racconti del tempo, con la passione di una musica che si fa ascoltare nelle continue concezioni che i nostri Anonima noire vogliono conferire multisfaccettando un piano sequenza che sembra lineare e cantautorale, ma che implementa, durante l’ascolto, la proposta, toccando un rock anni ’90 e memorizzando la lezione di Buckley figlio, in un contesto mutevole e in una sostanza che è pura poesia in musica.

Alcuni loro brani sono già apprezzati da diversi autori del calibro di Fabio Liberatori (Stadio), Gatto panceri, Paolo Audino (Mina,Celentano) e Vincenzo Incenzo (Renato Zero e i grandi della musica italiana) e in questo loro disco d’esordio la prova si fa strutturata in modo da creare forme costruttive non lineari, ma che incasellano i giusti sentimenti in spruzzate di colore che hanno per tema portante il declino nell’oscurità dove solo una luce può essere ancora di salvezza per i giorni che verranno.

Dieci pezzi che sono tracce del nostro percorso, dei nostri cambiamenti, canzoni smussate a dismisura che parlano di cinema di un tempo, di un desiderio nel partecipare a qualcosa di più grande e sentito, di un desiderio di felicità capace di far posto al buio della notte.

Eva Braun – Dopo di noi il diluvio – Volume 1 – (Exit Records)

Il nostro destino che non ha senso, non ha un senso o meglio qualcuno vorrebbe che acquisisse di significato in un mondo commercializzato e commerciale, anche se poi tutta questa esigenza non è altro che mera volontà di annullare le coscienze in un pensiero collettivo non condiviso, ma imposto dall’alto.

I romani Eva Braun ci raccontano tutto questo nel loro Dopo di noi il diluvio Volume 1, prima parte di un concept che parla delle difficoltà di chi ha venti/trenta anni oggi, di chi cerca invano di crearsi una propria strada, in un mare di gocce tutte uguali, ricoperte globalmente dallo stesso mare di polvere.

Ecco allora che il cantautorato impegnato socialmente incrocia i destini e gli sguardi di chi ascolta, attraverso la creazione di tele e fitte trame a volte noise, altre volte psichedeliche in un groviglio allucinato di forza interiore e desiderio di cambiare, come fosse un vivere pienamente, sicuri del fatto che prima o poi, con la forza di volontà, di tutti però, il mondo potrà cambiare.

Solo allora decideremo se abbassare ancora la testa oppure riabbracciarci, come in un film in bianco e nero, come una volta, in un’altra vita.

Terzo Piano – Super Super (LaFameDischi)

Vincitori del contest, Le canzoni migliori le aiuta la fame, il gruppo Terzo Piano stupisce per stratificazioni rock unite da un’elettronica originale e brillante di luce propria.

La band confeziona una prova legata al tempo andato, senza qualsivoglia forma di sostanza in cerca di appigli, ma esprimendo un genere proprio e un’attitudine del tutto originale nello scrivere pezzi e nel dare forma a quel qualcosa di celato, di nascosto, tra un’elettronica sempre presente, ma un’elettronica sempre arrangiata e studiata, incursioni alternative rock e folk, abbracciando i Radiohead di Hail to the Thief, sperimentatori si, ma con la presenza di chitarre roboanti sempre pronte a squarciare la scena e a creare un gusto della ricerca che non si ferma al primo approccio, ma che tende a manifestarsi dopo numerosi ascolti.

E’ un connubio di generi questo, che rende i quattro giovani salernitani, una realtà da seguire a fondo, si perché i testi non sono mai banali e ancorati a qualcosa, sono testi che affrontano in modo visionario e onirico il vivere quotidiano, affrontano l’essere presenti su questa terra domandandosi senza essere scontati; un’eterogeneità di fondo che esplode lungo i dieci brani che compongo un disco che ha tutto fuorché sembrare un disco italiano.

Geometrie funamboliche e sperimentazioni che rendono onore ad una realtà in piena evoluzione, carica di significati nascosti, di notevole savoir faire e di quell’impressione che si percepisce da lontano che siamo di fronte ad un qualcosa di grande.

 

Michele Maraglino – Canzoni contro la comodità (La fame dischi)

Disco maturo e musicalmente aperto alla sostanza che avanza, un disco ultra moderno che delinea meticolosamente, soprattutto per chi fa troppe fotografie, uno spaccato di realtà nostro e vissuto, un inno contro la comodità e l’apatia, il non far nulla scelto e il non far nulla per imposizione.

Un disco che sa di pioggia d’Aprile le tonalità si incupiscono e regalano sogni infranti e desideri commossi da pietà che mai e poi mai prenderebbe l’iniziativa di essere quella che non appare.

Un album sulle apparenze quindi, di denuncia, verso un’Italia che va a rotoli perché siamo noi che lo vogliamo arricchiti da strumenti inutili, la fisicità che vince sulla bellezza, il futile che si aggrappa ai pensieri e li rende reali più che mai, senza una via di scampo, senza una via di fuga.

Michele racconta tutto questo e lo fa con il piglio del cantautore, che rispetto all’album precedente si apre a suoni più indie rock  abbracciando le distorsioni del brit pop e strumenti necessari quali pianoforte e tastiere per rendere la proposta più concreta e avvolgente.

Ottima prova che denota quindi carattere e lucidità per il patron della Fame, otto tracce che si fanno bere in un istante e lasciando in qualche modo il nostro eroe solo contro tutti in attesa di smuovere animi, accendere il cervello e far correre le idee.

La madonna di mezzastrada – Lebenswelt (Il mondo della vita) – (Autoproduzione)

Raffinato indie rock agrodolce che si staglia inesorabilmente lungo le giornate come spennellate di nero su di un muro già sporco dalla fuliggine di tutti i giorni.

Quei giorni spesi  a ricucire, a ristabilire un ordine, che non è mai stato ordine, ma solo un riporre su delle mensole dell’infanzia automobiline dalle porte aperte che prima o poi verranno chiuse.

E’ questo il senso del disco e della vita che vogliono dipingere “La madonna di mezza strada” impegnata a ristabilire il senso principale dei nostri cammini, delle nostra parole, delle nostre emozioni.

Testi introspettivi, ammalianti quanto basta, che possono splendere di luce propria solo durante la lettura, solo dopo aver letto le prime parole de “Il mondo della vita”.

Ecco allora che “Lebenswelt” si concentra sulla forza dirompente delle parole associate al vuoto che avanza, che si contrappongono a suoni lisergici di matrice anni ’90 con incedere di chitarre distorte, ricordando “CSI” fra tutti.

Un album ricco di istantanee, quasi a voler fermare il tempo, quasi a voler raccontare sprazzi di vita, di un mondo che ci appartiene si, ma di un mondo che allo stesso tempo risulta decadente quanto basta per far si che le nostre azioni diventino pura routine d’intrattenimento.

Un gruppo da tenere sott’occhio nelle prossime uscite, direi  una vera sorpresa, forse la miglior sorpresa del 2014.

Lenz – De Fault (Autoproduzione)

coverLenz, al secolo Damiano Lanzi, ci regala una prova intrisa di originalità a dismisura, pronta a compiacere gli amanti delle stralunate composizioni che si possono creare con delle tastiere synth e chitarre in loop infinito.

Un album che mescola il cantautorato al suono più heavy dell’industrial creando un vortice di tensione che sfocia pian piano lungo gli 11 brani che compongono questa poesia sonora.

Il post-punk cantato da Lenz è un miscuglio eterogeneo e indefinibile che raggruppa elementi particolarmente orecchiabili ad altri che ricordano il Trivo nazionale.

Una produzione lo-fi con le carte in regola per entrare nella trama di un gioiello da avere a tutti i costi e ascoltare più volte, per capirne l’intero significato celato dal vedo-non vedo.

In questo disco si racconta, anche con ironia, di una presenza incostante che divora lo stesso cantautore, che poi con naturalezza rinasce indossando abiti nuovi e chiamando a se numerosi ospiti-amici a suonare gli strumenti più inusuali; strumenti come il mandolino napoletano o i samples cinematografici.

Dal vivo il giovane si presenta in versione “one man band” dove ad accompagnarlo è una batteria elettronica e un basso a otto corde con annessi pedali ed effetti.

Un’ondata quindi di “New wave” accarezza le corde di queste canzoni, lasciando polvere di stelle al proprio passaggio, come in pezzi quali “EVP”  o la Pumpkiana “High tide” mentre i toni si fanno solenni nella efficace “The salesman” o nella imprevedibile e più rock and roll “Lash”.

Un inno al buon gusto questo “De Fault”, che si differenzia dalle altre produzioni italiche per la componente originale e onirica che caratterizza l’intero album.

Una prova ricca di spunti sottolineata dalla capacità nel mescolare suoni, ritmi e occasioni.

Perché qui di occasioni parliamo e Lenz, l’occasione, se l’è giocata bene.