Danubio – Danubio (Vollmer Industries/DGRecords/I Dischi del Minollo)

Disco corrosivo che riempie l’etere di tanta sostanza sonora capace di rinfrancare gli animi più esigenti in un concentrato di rock sudato che fa da perno ad una produzione di tutto rispetto che cavalca l’esigenza di sputare in faccia alla realtà un significato profondo che ben si evince in questa stratificazione musicale, al di là di qualsivoglia forma di omologazione e riempiendo gli spazi con suoni che si affacciano ai primi Verdena, quelli di Solo un grande sasso per intenderci, fino a toccare vertici di apertura a band attuali come FASK in un sali scendi di sensazioni e sviluppi che attanagliano e conquistano, abbracciano e ripagano di tanto lavoro quasi ad ottenere nella naturalità del momento il guizzo giusto, la scintilla errante pronta a scoppiare e a far fuoco di nuovo, da Dailan fino a Dov’è la psicopolizia quando serve? passando per Nuoto perpetuo e Tre, se conti me per una prova che apre spazi e si confronta con una realtà tante volte troppo pesante per essere compresa, ma che in questo disco trova una via preziosa di fuga da questo stesso vivere e forse solo questo conta.

NoN – Sancta Sanctorum (Garage Records/I dischi del minollo)

NoN: esce il 15 luglio su Garage Records e I Dischi del Minollo il nuovo disco Sancta Sanctorum

Ricerca poetica per il nuovo disco dei NoN e aggiungerei anche licenza poetica nel raccontare a parole legami contorti ed esigenze quasi mistiche che intrappolano i pensieri in una tela precostituita e alzano il tiro riciclando prepotentemente una dark wave di fine ’80 che porta con sé il sapore dei CCCP, accompagnando il tutto dalla pesantezza dei tasti del piano che sembra suonato direttamente da Dino Fumaretto, tanta è la passione, tanto è il coinvolgimento, fino ad includere l’inusuale presenza di strumenti non strumenti come scatole per chiodi e orpelli da ferramenta che danno un senso maggiore alla sperimentazione sonora che abbiamo davanti.

Il luogo sacro per eccellenza, il posto mistico e arcano è raccontato nella sacralità bucolica delle canzoni dei Non che dopo l’incisivo Sacra Massa riescono a convogliare le speranze di una nuova musica per questa Italia, grazie ad un lirismo intenso e racchiuso dalle ombre che ricoprono il nostro incedere quotidiano, un’esigenza militante che raccoglie la paura e la ingloba, parlando d’amore vissuto in pezzi capolavoro come Reti e pareti, o Sostanza, quest’ultima scritta e cantata anche da Luca Barachetti, senza dimenticare le meraviglie crepuscolari di Bukowski piange e Come l’ombra, per un disco che insegna ad essere esigenza di non fermarsi alle apparenze, un album che è esso stesso evoluzione verista per città abbandonate grondanti sangue.

Il sistema di Mel – Felida X (Longrail Records/Dischi del minollo)

Quattro pezzi che sono il proseguimento di B aprendo la strada a sonorità ancora più taglienti, di un distorto vissuto e compattante, quasi in chiave live che dona maggiori certezze rispetto alla prova precedente e sa smarcarsi in modo esemplare in un rock che strizza l’occhio al post e concede pochi spazi, ma tanta sostanza, una sostanza ben rappresentata dalla forza non scontata dei quattro pezzi che si lasciano ascoltare attentamente in una lisergica idea di Come non Volevi per passare alle concezioni introspettive di Marta nella stanza fino alle possibilità ineluttabili di Litio e alla monumentale Spacecake.

Una prova di getto che non chiede nulla, una prova che è pura ambientazione sonora cupa e oscura a ricreare geometrie esistenziali e trovando spazio in un mondo obliquo che corre assieme a noi, spazi riempiti con le nostre malinconie, mai state così attuali come ora, in questo momento.

Staré Mesto – Punto di Fuga (I dischi del minollo)

Adrenalina pura intrecciata a liriche cantautorali che si lasciano trasportare dal vento della tempesta che tutto prende, tutto si porta via, rabbia lisergica in foglie che si preoccupa di lasciare una traccia, un gesto, un segno di riconoscenza verso ciò che è stato prendendo spunto dalla scuola italiana anni ’90, in primis Marlene Kuntz per intrecciare CSI a Federico Fiumani meditativo come non mai, per non lasciare scampo al reale e ricucendo pezzi di immaginazione sospesa.

Gli Staré Mesto sono tutto questo, poesia catartica in galoppate elettriche che fanno scorrere nelle vene echi di pensose poesie lasciate in balia di un mare in burrasca che chiede di essere inglobato in una luna a ponente che tocca il cielo per sempre.

Illusione, frustrazione, rabbia quasi agonia nera che porta ad una chiusura del proprio essere e al silenzioso vivere quotidiano nell’apatia più totale.

I quattro conoscono la formula per uscire dal tunnel, sospeso per sempre, in un cammino ineluttabile che lungo le 8 tracce si consolida come non mai partendo con le grida sincopate di “Thalia” per arrivare in breve tempo a “insaguinare i prati” in “Racconto di Primavera”, uno spettacolo da poter osservare davanti ad uno schermo bianco dove il tutto è il vuoto di se medesimo.

Poi le canzoni si trascinano in un vortice di speranza, bellissima “Cielo d’Africa” dei Diaframma, reinterpretata per l’occasione.

Solidi, compatti reali; una purezza difficile da scorgere, difficile da trovare intorno a Noi: questi Staré Mesto attingono al passato per donare parole intrecciate in continuo divenire, in grado di trovare un punto di fuga, un punto da dove poter ripartire.

King Suffy Generator – The fifht state (I dischi del minollo)

I King Suffy Generator ritornano alla grande con una musica che ricopre pianure cementificate e uomini grigi che camminano con la 24 ore e il cellulare in maquintono.

Un incedere frenetico lungo le strade delle città affollate, ricreando un mondo caotico e privo di respiro, dove l’anima non trova un corpo in cui abitare e dove gli uccelli fanno i nidi sulle antenne della televisione.

Sei tracce di pura improvvisazione con sprazzi pinkfloydiani e chitarre post rock che schizzano in assoli ben pensati e stratificati quasi a fuzzeggiare su prati inesistenti.

I  cinque regalano grandi prospettive armoniche in canzoni complesse come la notevole “Derailed dreams” e l’innocenza perduta di “We used to talk about emancipation”.

Un continuo andare e tornare di controrif dipendenti da una linea ritmica solida che si fa strada nel prog pensato e ragionato.

In copertina immagine appuntata di Giorgio da Valeggia che da il nome al disco “Il quinto  stato”, masse cadaveriche che guardano il vuoto, privi di esistenza reale.

Un album marcatamente maturo con piglio internazionale, pronto a spiazzare qualsiasi purista di genere.

The brain olotester – Wash your blues away (I dischi del minollo)

Una moglie seduta in un angolo che guarda stupita ed incredula, ascoltando un uomo che suona sogni d’amore e di speranza nel grigio, poi la lucthe-brain-olotester-cover2013-250x250e fioca divampa e tocca attimi di vertigine sublime in pezzi quasi psichedelici e ipnotici che non lasciano tregua a sensazioni banali e a risvegli privi di sostanza.

Un lungo carillon che abbraccia regole spontanee, ma innovative, dove il già sentito è da accantonare per lasciar spazio ad un nuovo modo di approcciarsi al cantautorato che da un po’ di anni a questa parte aveva fatto il sold out mentale con i vari musicanti degli anni zero.

Giuseppe Calignano invece in questa sua bellissima seconda prova viene affiancato da numerosi amici tra i quali Tommaso Cerasuolo dei Perturbazione e alcuni membri degli Airportman regalandoci un disco che stupisce, sia per approccio che per attitudine ad una novità musicale che abbraccia Genesis intimisti, Sparklehorse fino ad arrivare ai primi Belle and Sebastian, passando per MGMT.

Le canzoni sono sussurri di sostanza vitale e come non possiamo gridare al miracolo in pezzi quali “Unexpected revelations” con intro e code strumentali da brividi spaziali, o in “My timeless present” dove gli archi sono conditi con un giusto mix di elettronica, mentre “The sad ballad of Mr.Spaceman” ricorda il James Iha del poco fortunato “Let it come down”.

La finale “Wash your blues away” corona intimi sogni di gloria con la voce di Giuliana Negro.

Un album di puro ascolto senza mezze misure che predilige il sussurro al frastuono che di questi tempi è un toccasana alla confusione che gira nei canali mediatici di quell’oggetto chiamato televisione che riflette un popolo consumatore estremo poco propenso all’ascolto in silenzio, un disco immacolato e grandioso che sa riflettere in modo delicato sul più grande mistero dell’umanità:  l’amore.

Il fratello – Il fratello (I dischi del minollo)

Una saracinesca sbarrata, scura, dalle tonalità dimenticate, 2 bambini camminano sopra  un marciapiede: sorella e fratello uniti, quest’ultimo sembra essere accecato da qualcosa, da una luce e decide di seguirla incurante di dove può portare.

Al ritorno il fratello non c’è più la bambina sembra non accorgersene; dove è finito per tutti questi anni?.

Inizia così l’avventuphpThumb_generated_thumbnailjpgra di Andrea Romano, siciliano, classe 1977 che assieme a Paolo Mei, Peppe Sindona, Francesco Cantone e Toti Valente forma alla fine degli anni 90 i Matildamay.

Poi l’avventura finisce, si sgretola, ma i rapporti rimangono e con questo disco nuove collaborazioni si presentano all’orizzonte.

Per l’occasione “Il fratello” ospita Mauro Ermanno Giovanardi, Lorenzo Urcillo (Colapesce), Giovanni Caruso, Valerio Vittoria, Angelo Orlando Meloni, Tazio Iacobacci, Carlo Barbagallo e Cesare Basile.

Un collettivo nel collettivo, amici soprattutto,  che grazie all’ispirazione inesauribile di Andrea Romano catapultano il suono a formare 8 tracce di delicata introspezione dove a parlare sono gli anni passati a rincorrere errori e gesti buoni da chiudere in un cassetto e riscoprire quando la stagione regala nuove idee e aspirazioni.

Velata amarezza nei testi, quasi aria mattutina invernale, un cuore malinconico dunque, ma aperto ad ogni forma di empatia con il mondo circostante; l’accostamento con la forma canzone e gli arrangiamenti dopo, risulta alquanto puntualizzato da sottofondi riverberati e voce soffusa, tende che si tendono in un abbraccio infinito.

Così Andrea parla del rumore di Lei, del rumore della luna o dell’assenza in “Vai via”, più dolce “Cos’ha che il mio mondo non ha” con Colapesce mentre la verità si fa auto determinazione in “E’ vero che per te” chiudendo con la meraviglia autobiografica “Nei ricordi di mio padre”.

Andrea con questo disco dipinge un mondo fatto di dissolvenze e profondità segnando la strada ad un nuovo cantautorato “nordico” figurativo dove ombre si stagliano nelle coscienze di chi ascolta, creando, grazie a rara capacità personale, quel pensiero di rimettersi in gioco sempre e comunque.