I Fiori di Hiroshima – Nabuk (Phonarchia Dischi/Audioglobe/The Orchard)

Pulsanti di energia giovanile e vibrante attesa i nostri Fiori di Hiroshima, ventenni e essenzialmente energici si stagliano all’orizzonte della musica italiana con questo loro primo disco di cinque piccoli racconti dal sapore dolce amaro e atteggiati da spirito di appartenenza nei confronti di sodalizi cosmici e chiaro scuri luccicanti e vibranti, un piglio deciso e desiderio di stupire, tra distorti non celati e quella classe che tende ad uscire allo scoperto, fresca energia di puro indie rock nostrano, quello che va di moda oggi, quello che si sente ai concerti, quello che la gente vuole sentire.

Nociva apre le danze elettro acustiche fino alla compressione finale della title track Nabuk, un soffio di vento e poi la tempesta, un soffio di vento ancora per sperare, passando per quella storpiatura malata di Datemi un martello e poi via via a rincorrere un’internazionalità ambita e ricercata.

Solo cinque pezzi, ma che in qualche modo denotano le potenzialità della band, potenzialità da affinare con il tempo, ma intrise di quell’odore di gioventù che fa così bene, tanto da poter essere aria fresca in piena estate.

I Casablanca – Bombyx Mori (Phonarchia dischi)

Rino Gaetano che parla a Little Tony di come va il tempo, asciugando le lacrime di pioggia e collocando la deriva vicino al boom economico degli anni 60′ per ridestare pavoneggiamenti alla Vianello e via via intersecando parole di onestà e sincerità racchiuse da groove nudi e crudi per un disco d’esordio, questo dei Casablanca, che ancora allo stato larvale concede competenza ed esigenza di esprimersi; un Kerouac d’annata lungo la sua strada solitaria, tra spaghetti western e un Morricone che pretenzioso lancia fulmini e saette al nuovo giorno.

Sei tracce apprezzabilissime e in parte malinconiche, spezzate dalla quotidianità da una chitarra che lascia il tempo al tempo e si concede in semiacustici arpeggi rivelatori di un bel secolo andato.

Sei canzoni che inneggiano alla Rivoluzione, ma verso l’impotenza, con gli occhi di chi guarda davanti con un po’ di nostalgia, un amarcord acceso ad est con svogliata aria romantica e piglio sbarazzino da conquistatori d’oltreoceano.

Luoghi Comuni – Chi ben comincia (Phonarchia Dischi)

Sbattere la realtà in faccia, la realtà che ci opprime renderla tale solo ascoltando delle note, lasciando tutto indietro alle nostre spalle e scaraventarci in un mondo, il nostro, che ci vede compiacere di prodotti materiali effimeri che via via si esauriscono come la materia di cui sono fatti.

I luoghi comuni raccontano i sogni spezzati di ognuno di noi, lo fanno raccogliendo le voci di una generazione e lo fanno anche bene, mescolando la musica “moderna” post cantautorato anni zero con una commistione di generi che abbraccia il brit pop ben riuscito e trasportandolo in una dimensione tutta italiana che ricorda gli Zen Circus degli esordi.

Un pop rock aggressivo che ammicca alla sostanza, che vuole raggiungere una conquista personale, un gesto che scende a compromessi, sfiorando Ministri e facendo della schiettezza un punto di forza su cui basarsi per le produzioni future.

Lisa, L’alternativa e poi Alzati passando per Il ballo di San Vito interpretata con alto trasporto finendo con a Metà dell’opera , quasi a sancire una forma di esigenza nel continuare il cammino intrapreso, nel farsi portatori di un qualcosa che al momento è ancora incompiuto.

Bel disco che arriva diritto al sodo, abbandonando i fronzoli e ridando vita ad un genere, ad uno stile che ha bisogno di una vitalità intrinseca per essere continuamente parte vitale di ognuno di Noi.

Q-Yes – Generazione Y (Phonarchia Dischi)

Non si possono definire, a loro non frega niente essere definiti, loro escono dalla moda di ogni giorno per rimarcare con vitale importanza il concetto di colore intriso dentro ad ognuno di noi, si fanno portavoce di spazzi che non sono stati ancora scoperti e grazie ad un suono ricercato e canzoni di gioie amori e dolori i nostri Q-Yes ex Zocaffè si lasciano andare tra flutti e mari inesplorati dove l’istintività è anche segno di maturazione.

Beat non troppo conclamato che viene spruzzato dal rock’n’roll d’annata con le chitarre che non sono fragorose, ma che fanno il loro dovere, il tutto condito qua e la da un’elettronica sbarazzina, ma sicuramente convincente in grado di trasformare il grigiore del quotidiano in un caldo abbraccio di gioia intrinseca.

I nostri raccontano di amori e tradimenti, si raccontano e guardano dal cannocchiale della vita le mille sfaccettature che quest’ultima riesce a donare, si immolano e registrano, capiscono fin dove possono spingersi e lo fanno con eleganza, ma mai con insistenza tra Margherita e il suo mondo di illusione virtuale, tra le #chiacchiere e i Rivoluzionari da bar che popolano i nostri paese e le nostre città, passando con ironia a Lividi e baci e finendo con i cibi manipolati in un omaggio a Celentano con L’unica chance.

Un disco questo che segna una nuova partenza, senza compromessi e con un’originalità disarmante, a segnare l’inizio del tempo, quel tempo che a pensarci bene è anche il nostro.