Feel in the Void – Steps to nowhere (Autoproduzione)

Un duo anomalo che si inerpica lungo i sentieri della costa americana dove strade lunghissime tagliano territori esplorati solo da pochi e grandi intraprendenti viaggiatori.

Questo disco dei Feel in the Void potrebbe essere la colonna sonora di un viaggio fatto a fine ’60 con la propria cabrio e la musica che ti invade a tutto volume, senza cercare tante spiegazioni e lasciandoti appresso giorni andati male, un misto di chitarre acustiche e assoli old style con tanto di richiami alla Eric Clapton, sentire la cover presente nel disco di Tears in Heaven, tanto per farsi un’idea.

Un disco questo ben suonato e ben costruito che il duo foggiano, trapiantato a Bologna, ci regala marchiando a fuoco un proprio stile che raccoglie le proprie basi su di un rock Hendrixiano che parla la lingua dei Creedence ed entra nelle radici profonde di quella musica che diede inizio al tutto.

L’ep composto da sette canzoni inizia con l’alt prog di All my thoughts, lasciando spazio a Lonely Groove che potrebbe essere tranquillamente una canzone dei Pearl Jam, passando per gli assoli di The evildoers e lasciandoci incantare dai cori di More like a diamond, il disco poi acquista atmosfera con Brave, lasciandosi trasportare dalle sfocature Claptoniane per finire con Aprirò le danze canzone interamente cantata in italiano che strizza l’occhio a Marta su Tubi e a Med in Itali.

Michele Nardella e Giuseppe Vinelli ci sanno fare e lo dimostrano in questo disco che ha tutte le carte in regola per aprire più di qualche porta ancora chiusa, un soffio di vento riconoscibile da lontano, ma che porta dentro di sé sottili attimi di cambiamento, un bel percorso questo intrapreso dal duo che porterà sicuramente verso strade infinite.

Galleria Margò – Giro di vite (Rocketman Records)

Un album sicuramente per il nostro tempo, questo del quartetto “Galleria Margò”, che si muove geograficamente tra Milano, BolGalleria-Margò-Fuori-Tuttoogna e Varese.

Un disco di debutto fatto i ironia e cantautorato che si mescola al folk e al rock passando delicatamente alla forma-canzone più espressiva e ricca di sfumature e similitudini con il grande passato.

Una prova che rimane personalissima, soprattutto in pezzi come “Giro di vite” e “Paga tu” a sancire doppi sensi che polemizzano in modo discreto sulla situazione attuale della vita.

Una voce asciutta e carica di fendenti quindi, che coadiuvata da una base ritmica sempre precisa, regala a chi ascolta il gusto di sentirsi in un veloce giro di giostra che non ha mai fine.

In questo disco si assaporano i colori di una passeggiata nel verde interrotta dalla spazzatura scaricata lungo i fiumi, si perchè la “Galleria Margò” sa cosa vuole colpire e lo fa in modo elegante e disincantato.

In poco tempo ci accorgiamo di essere spettatori quotidiani di un mondo che non è nostro.

 

373° K – Lontano (Autoproduzione)

I 373°K confezionano un album di puro stampo rock con matrice scenica che affonda le radici in un genere d’annata che ricorda il periodo italiano di fine anni ’80 inizio ’90.
373C’è cura nei suoni e nella stesura dei testi il tutto è identificato dalla capacità di condire con piglio acceso sonorità heavy con morbido tatto.

I 4 bolognesi si identificano con lo stato di ebollizione del pensiero, al quale sono riusciti ad approdare vivendo con fatica nella società contemporanea.

Il loro è un hard rock che vagheggia tra i primi Litfiba e i Timoria, passando per Scorpions e Europe.

Il singolo “Lontano” raccoglie un’eredità di disillusione che porta verso tempi maturi per il cambiamento.

I testi in generale sono ammonimenti verso un mondo che non ci vuole dove i perdenti sono di casa e le scommesse che si perdono sono segni indelebili su di una pelle innocente.

Canzoni che si fanno ricordare le troviamo nelle ballate “Intera” e “Gli angeli”, mentre gli altri pezzi sono caratterizzati da suoni più pesanti e distorti che lasciano poco spazio all’immaginazione.

Le idee ci sono e anche la cura negli arrangiamenti non è da sottovalutare, quel che spero per questa band però, è di slegarsi dal filone preimpostato che caratterizza un certo rock italico per affondare le proprie radici in un genere più originale e magari meno intuitivo: le capacità ci sono e sono molte.
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Le strade – Le strade (Autoproduzione)

Istinto primario che si attacca al suolo per prendere la terra e gettarla in aria a gran voce strutturando parole come spari che legano il vuoto attorno al mondo.

Andare in fuga verso il confine per non  sbagliare ancora, per trovare vie d’uscita dentro stanze senza porte, dentro territori racchiusi da confini naturali che non lascle-strade-musica-le-strade-epiano respirare.

Voci e ombre, sussurri nell’oscurità e pistole puntate per aver preteso di essere migliori in un Paese dove pochi lo sono o lo possono essere.

Le strade colpiscono per impegno sociale, impatto sonoro e per quella genuinità rivoltosa che fa saltare anche il pubblico più distratto.

Debitori di “Soniche Ministrate” i 5 bolognesi stupiscono in questo loro album d’esordio dove i sintetizzatori e i cori portanti risultano necessari per dare quel tocco di originalità ed energia che si lascia andare in refrain calcolati alla perfezione.

“In fuga verso il confine” è forse la traccia che imprime maggiormente il concetto di protesta mentre “Il prezzo” nel finale, regala attimi cupi di blues maledetto e vertigini sonore.

Gran novità questa, tra le fila della musica italiana; un gruppo che riesce nell’intento di andare diretto al bersaglio senza usare mezzi termini e mezze misure: sentiremo ancora parlare di loro.

Montauk – Montauk (Autoproduzione)

montaukUna voce che sa essere pulita e sporca allo stesso tempo, una voce che convince fino al tempo massimo in cui ci è concesso di procreare generazioni sfrontate di Post-core; inni generazionali gridati al contrario che di comune accordo accrescono la fame di sapere grondante e di velleità nascoste.

I bolognesi Montauk si avvalgono di 8 ottimi illustratori per raccontare le loro altrettante canzoni presenti nel loro disco, canzoni che affascinano per coerenza di testi e di significato e per suono non banale, ma ricercato nelle viscere del rock stoppato e altre volte narrato in un saliscendi emozionale che dona infinite vertigini.

Tracce della caratura di “Come fossi il tuo cane” si aprono con antiarmoniche e pesano grazie ad un testo efficace e cori precisi, “Il bruco” incontra gli Offlaga, “Da quando non siamo più” invece è debitrice di suoni che ammiccano al brit rock, in chiusura “Piove” che ricorda l’Emidio Clementi più arrabbiato.

Un esordio misterioso e quasi nascosto da contrappunti sonori degni di una formazione navigata, anche se qui ci troviamo di fronte ad un indie rock giovane, ma ben strutturato e legato dal filo nero e cupo che si fa colore portante nella via verso casa.

8 tracce di pure contaminazioni, in cui il giovane gruppo trova aria e spazi in cui muoversi rimanendo sempre a proprio agio e con un pensiero legato a quella striscia di terra che si affaccia al mare, pronta a raccogliere l’acqua salata del quotidiano.