Sotto il cielo di Fred – Tributo a Fred Buscaglione (F.E.A., Libellula, La Stampa, Audioglobe)

Il premio Fred Buscaglione nasce a Torino, nasce per ricordare e nasce per valorizzare e sostenere la musica d’autore emergente.

Omaggiare Buscaglione è un onore dato e affidato a poche persone, le quali hanno saputo dare il proprio stile personale ad ogni pezzo interpretato con qualsivoglia capacità espressiva e intuito prettamente soggettivo che non sfigura, ma anzi dona veridicità in più ad un’opera tesa al confronto tra generazioni e stili abbandonati che pian piano vengono riscoperti.

Le raccolte non mi sono mai piaciute, ma questa è in grado di avvicinare in modo del tutto naturale persone lontane per scelta stilistica accomunate da uno spirito di solidarietà e di ammirazione verso chi in Italia si è sempre opposto ad uno stile e ad un ordine prestabilito esule da qualsivoglia forma di corrente da seguire.

Nel disco compaiono ben amalgamate forme e sostanza sviscerata e decostruita, di canzoni completamente stravolte e reinterpretate per l’occasione da chi, nel corso del tempo è stato vincitore dello stesso premio: Brunori con l’introspettiva Nel cielo dei bars, Dente romantico gatto che sospira in Guarda che luna, Benvegnù nel sodalizio ben eseguito di Love in Portofino, Bugo nella minimale Eri piccola così, passando per la meglio riuscita del disco Mi sei rimasta negli occhi cantata da Niccolò Carnesi e poi via via la caciara dello Stato Sociale con Teresa non sparare, la malinconica Sigaretta dei Perturbazione, la ritmata Noi siamo duri de Il pan del diavolo, fino a Juke Box cantata dai The sweet life society e poi le nuove leve Etruschi from Lakota e Eugenio in via i gioia con rispettivamente Porfirio Villarosa e Buonasera signorina, chiudendo in bellezza con i Venus in Furs che si contorcono saltellanti in Voglio scoprir l’America.

Un album di omaggi che guarda il mare lontano, guarda verso un’altra direzione, tra le stelle di altre galassie nell’intento di capire fino in fondo un cielo che forse è anche il nostro, un cielo azzurro che alle volte si tinge di grigio, che ha però la capacità sempre e comunque di lasciar filtrare un filo di luce.

 

Occhi in Apnea – Connessioni sottili (Ribes Records)

Racchiudono il senso del ritrovarsi, come un moto perpetuo che si fa moto ondoso in divenire di gioia, raccontandosi con passione e con esperimenti sonori tralasciano la semplicità iniziale per compiere il salto e concludere un disco carico di racconti e modi di vivere alla stregua e lontano da qualsivoglia ricercatezza leziosa per concretizzare al meglio un’idea, un concetto.

Loro sono gli Occhi in Apnea , nati a Rimini nel 2003, che con il loro Connessioni Sottili hanno fatto della fusione di stili un cavallo di battaglia; si perché la commistione è evidente e frutto di una ricerca che si fa portavoce di un tempo passato tra Sonic Youth e Velvet Underground passando per la canzone d’autore italiana targata ’70 incrociando il prog delle Orme che si schianta inesorabile nel 2015 tra un noise-folk e una post wave di matrice americana che si distanzia dal già sentito per essere conglobata in una raffinata malinconia di fondo che porta l’ascoltatore a seguire parola per parola le piccole storie di tutti i giorni.

Una voce che ci accompagna, quella di Rachele a fare da punta ad un iceberg inimmaginabile e ricco di disincanto che si associa prepotentemente all’altra voce quella di Cristian, al polistrumentista Alessandro Paolini  e alle elettriche di Alessandro Rinaldini.

Canzoni che parlano di noi stessi, di ciò che dobbiamo fare: …spezza la catena, buttala in mare esordisce Questa notte fredda e poi via via ad alternare un cantato italiano soppesato a quello inglese in una formula eccentrica, ma bilanciata.

I pezzi si fanno vivo appoggio con The Missing Picture e Beloved e sperano in Un’altra vita e Forme di sollievo finendo con la disillusione di L’ombra non si vede.

Un disco personale, intimo e quasi caratteristico, per un tempo che non c’è più, per un tempo che deve raccogliersi attorno a Noi e creare forme e geometrie esistenziali nuove e concrete, una ricerca tra connessioni sottili e amore destinato a non finire.

LEF – New Vague 15 (O’Disc/Audioglobe)

LEF_new_vague_15

La cinematografia italiana degli anni ’50 ispira il terzo disco della band Italo – Inglese Lef che ci riconduce attraverso i tempi dove la rivoluzione tricolore nell’arte del cinema era un sogno a cui ora ci affacciamo con non poche speranze di ritorno.

Prosegue la ricerca stilistica di una New Wave intrappolata negli anni ’80 impreziosita da sussulti chitarristici che si condensano ed esplodono a creare un’inusuale unione di cantato inglese e italiano contaminato, pieno di rimandi al cinema e a quel colore bianco e nero che caratterizza per intensità tutto il corso del disco.

Entrare nel buio per riscoprire la luce si potrebbe dire, entrare attraverso le lenti distorte in un concentrato di vita narrata e vissuta fino in fondo, fino al ritorno delle tenebre e al ritrovare se stessi in una notte che non sempre ci porta il coraggio per proseguire e per lasciarci incolumi del nostro destino.

La ricerca quindi che si fa colonna sonora per immagini, un’auto in corsa e i chiaro scuri presenti a regalare ancora un attimo di respiro prima del salto nel vuoto, prima dell’immedesimazione totale con un amore che si dona e che non da compromessi, ma si struttura in modo da non lasciar trasparire elementi di disarmonia.

Ecco allora che i suoni si contaminano in un post punk elettronico dove i sintetizzatori sono il marchio di fabbrica e dove la sezione ritmica lascia lo spazio a chitarre puntuali e presenti in grado di segnare egregiamente il cammino.

Un disco che suona di sperimentazione, di citazionismo iconoclasta, che interseca sonorità del passato trasferendole nel nostro futuro, tra passi pesanti su scale infinite impresse nella pellicola del tempo che non potrà scomparire.

 

The Doormen – Abstract [Ra] (Audioglobe)

Dove li avevamo lasciati i ravennati The Doormen, tra gli anfratti forse di qualche scoglio baciato dall’acqua o tra lo spazio cosmico in compagnia di divagazioni sonore?

Questo ritorno sancisce definitivamente una band dal forte carattere e da una forte connotazione post wave che si interessa di riaprire i confini e amalgamare in modo del tutto personale attimi di furore intrecciati a quel piglio pop che mai manca, ma che si rende necessario per compiere il prodigio ancora una volta.

Un paio di anni fa li avevo apprezzati nel loro primo disco, anche perché questo gruppo di ragazzi era in grado di riportare con facile naturalezza un genere che se non caratterizzato da personalizzazione rischiava di diventare puro e mero scopiazzamento a priori di un qualcosa che ha cambiato le sorti della musica per come la conosciamo ora.

I nostri quindi, grazie anche a una grande capacità nei live, riescono a creare distorsioni sonore che si intrecciano a inventare sovrastrutture di immacolata bellezza che raccontano di viaggi dentro al nostro essere, unico punto di partenza da cui attingere forza che va oltre il confine, che va oltre l’intelletto e spazia tra i campi fioriti dell’anima, dove ognuno, solo li può essere se stesso.

Atmosfere dark e molti riverberi in una voce discostante che ammicca al passato, ma come eco prepotente rimbalza dentro noi come fosse un argine da ristabilire, compiere e vivere.

Prova quindi superata, dopo le nuvole nere, dopo quel passato oscuro che si estende sino ai giorni nostri in cerca di visioni personali, attraverso le ossa, dentro le orbite, abbandonando la tecnologia e uccidendo il bambino dentro di Noi, per rinascere ancora una volta più reali, quasi fosse un sogno lungo una vita.

Dan Solo – Classe A (DsRecords/Audioglobe)

Un dolce rock cantautorale che si rende oscuro pian piano fino a comprendere reale essenza e bisogno di nuovi spunti da cui partire per compiere il salto che può convincere ancora una volta dopo le innumerevoli prove della vita, vissuta e contemplata.

Dan Solo non ha bisogno di molte presentazioni, creatore dei Pornodrome, bassista per sei dischi nei Marlene Kuntz e poi fondatore dei Petrol, si cimenta in una prova solista dal sapore cantautorale che scava nelle profondità delle coscienze per scardinare concetti e ridare vitalità compressa e ricercata in piccole perle di rara bellezza sostenute da un cantato quasi innocente che canzone dopo canzone si confessa quasi fosse un viaggio dentro al proprio io da cui partire e attuare nuove scelte di vita.

La propensione a dipingere le canzoni, con strati di colori sottili, è molta e si denota soprattutto nell’apertura Avrei, passando per Elena e nel finale con la ballata elettrica Stella di luna.

Alla ricerca quindi di una propria aspirazione il nostro si cimenta in un alternative con sprazzi di elettronica non troppo gridata, ma essenziale per dare un senso maggiore, carico di sfumature, alla visione d’insieme che si fa bellezza caratteriale lungo le variopinte undici tracce.

Piccoli fiori rari da coltivare quindi, da cui imparare e da cui attingere acqua per vivere; un racconto di vita esistenziale che fa parte del nostro essere al mondo.

 

Fratelli Calafuria – Prove Complesse (Woodworm/Audioglobe)

Non ci sono confini e nemmeno regole per questo disco dei Fratelli Calafuria, un’espansione sonora di colori che portati all’ennesima potenza lasciano scorrere immagini sfocate direttamente alle radici del rock, trasformati poi con il tempo in susseguirsi di vicende che si nutrono di garage punk ‘d’annata inglobato a proprio piacimento in un caleidoscopio unico.

Mix inusuale per Prove Complesse, meritato approdo dopo i numerosi successi del tempo, pur restando band di nicchia, dal sapore terreno e coltivando un substrato di energia che basterebbe a metà dei gruppi presenti nella penisola per dire qualcosa.

Sono tredici canzoni che si spostano tra testi surreali in bilico tra poesia neorealista e verismo mai conclamato, dove i testi che abbracciano le poesie di Gaetano sono catapultati ai giorni nostri, nel vivere quotidiano, tra i problemi che affrontiamo ogni santo giorno.

Pensiamo ad House in affitto, passando per Meraviglia o E’ stata estate, parole che non hanno bisogno di classificazioni, ma sono un tutt’uno con il suono, testi a volte verbosi, ma essenziali per delineare un concetto che alla fine del tutto offre numerosi punti di vista.

A livello musicale scopriamo una maturità generosa, conseguita e sbocciata in linea con la scuola americana toccando At the drive in per passare alla sfrontatezza degli inglesi The Who.

Non siamo qui per definire però queste prodezze, possiamo a malapena delinearle, tra stupore e assoluta meraviglia, esplorando il nostro cervello che assume le fattezze di un labirinto da cui non vorremmo mai uscire.

 

Numa – Il Periodo (Audioglobe)

Un tuffo all’inferno possiamo definire questo disco, un singolo apripista che non potrebbe essere più azzeccato di così, tra fuochi che divampano e contaminazioni sonore che sono incrociatori tra l’hard rock più viscerale e un certo metal incalzante che possiamo definire classico senza mezze misure.

Il rocker fiorentino, incontrato nella versione italiana del Rocky horror picture show, si lascia andare a lamenti che sono in cerca di consolazione, a cullarsi negli anfratti più nascosti dentro di noi alla ricerca di quel qualcosa di sperato, di vivo, di immaginifico ed eloquente, che parli una lingua nuova, universale.

E’ molto interessante e sicuramente coraggioso sentire questo puzzle emotivo in salsa hard rock cantato in italiano, solitamente questo genere di musica è accompagnato da acuti che sovrastano un cantato in inglese, il nostro, invece, sceglie una propria via, un proprio cammino, un totale lascia passare per l’inferno.

Ecco allora che si snocciolano trame sonore del tutto originali o che almeno in parte cercano di creare un tutt’uno con un concetto, con una digressione sonora che va ben oltre il sentito, si ascolti semplicemente la traccia finale Illusion Prog. per capire dove sta la capacità del nostro nel contaminare vari stili in una ricerca continua.

Un disco ben suonato e calibrato, sospeso e inquieto, carico di quella luce oscura che di certo non farà Primavera, ma ci farà uscire in modo naturale da questo Inverno.

Winona – Fulmine (SeaHorse Recordings)

Fulmini a ciel sereno che contaminano lasciando tracce di immacolata bellezza in testi maturi e concitati pronti a descrivere con minuziosa bravura i sospiri e i cambiamenti del nostro tempo che sono veicolo di nuova speranza.

Tre giovani ragazzi che creano con le proprie mani un piccolo concept, un rilascio di energia istantaneo, vibrante e marcatamente un colpo al cuore che lascia intravedere un’esigenza di uscire dagli schemi prefissati, la volontà di creare e ottenere substrati di melodie sonore che catturano e hanno in pugno la platea, coloro che li ascoltano.

Una musica quindi prima di tutto suonata e impegnata che racconta di bellezza che scompare e di persone che ancora tentano di ricercarla in qualsiasi cosa.

Nel tempo hanno potuto condividere il palco con Tre allegri ragazzi morti, Action Men e Fast Animals and Slow Kids su tutti e da cui hanno potuto trovare ispirazione per un genere che pian piano si sta riscoprendo.

11 brani niente di più e niente di meno, condensati viscerali di amor proprio e di amore per il mondo.

Sprazzi di luce quindi in notti nere tempesta dove le sonorità si amalgamano fino a entrare inesorabilmente in un solo bagliore di stelle.

Olla – A serious talk (Libellula/Audioglobe)

Lounge club di periferia che si staglia inesorabile alle ballate elettroniche ed emozionali che creano circolarità ad emblema di uno stato autunnale che cade e avvolge come foglia in un concreto divenire acustico, sincopato e leggermente darkeggiante, motivo di sfogo e di racconto, narrazione fresca tra futuro e cambi di stagione, narrazione il cui fulcro è intriso di vita.

Un cuore quindi che palpita e ci consegna questo gruppo al loro esordio discografico, una band che sa di pioggia, quella che ti accarezza nelle giornate estive, un bagliore di pop emozionale che sopraggiunge a noi stendendo a gran voce la concorrenza che avanza quasi ad imporsi come portatori di un suono che li rende unici e ricercatori di concretezza.

Canzoni bene elaborate costruite attorno a sali scendi sonori dove in egual misura si parla del domani, tra l’importanza del restare grazie al coraggio di combattere per non rischiare di attraversare territori di disillusione e con la paura di rimanere in un mondo privo di certezze.

Quasi un cantautorato elettronico quello degli Olla che canzone dopo canzone convince e si confronta tra pezzi tirati e lievi incursioni pop a coronare il tutto, partendo con The future e finendo con The Fly off; ribadendo quindi il concetto per cui tutto ruota: il restare.

Restare e non abbandonarsi, restare e comprendere, capire ed esplorare in poche parole vivere come non lo si è fatto mai, vivere come fosse l’ultimo giorno, ora.

Eugenio Rodondi – Ocra (Phonarchia Dischi/Audioglobe)

Questo disco sa di terra, di sabbia, quella che calpesti nelle giornate al mare, bagnata leggermente da secchielli sparuti e poco interessati a dare linfa vitale ad un terreno troppo caldo per essere compreso.

Eugenio Rodondi al suo secondo disco si appassiona al cantautorato febbricitante che esce direttamente da un film di Morricone, tra pietre scaldate al sole e lucertole che cercano un leggero refrigerio all’ombra di qualche foglia d’erba.

Il cantautore torinese sancisce definitivamente la propria maturità con un progetto artistico che spicca per talento e capacità vocale, la prima forse a farsi notare, tra ballate ironiche e meditative come solo il migliore Tom Waits sa confezionare.

Un album che tocca i campi, i cieli azzurri e i prati, che parla in prima persona della difficoltà di trovare un posto di lavoro, quest’ultimo preda quotidianamente di classismo sociale, dimenticando la vera essenza del tutto, tra ignoranza e un mondo fatto di finzione.

Una prova quindi che denota carattere solare e riflessivo, colto e mai banale, un risveglio  naturale che sa di giallo carico, tra note di acustica a marcare un territorio fatto di colpi di scena e sostanza.

Quasi come essere dentro ad un film quindi, dove i protagonisti siamo noi alle prese con i piccoli e quotidiani misteri della vita che per quanto piccoli alle volte sembrano inconcepibili.