ZEMAN – Non abbiamo mai vinto un cazzo (To lose la track)

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Soffermarsi nel mezzo, nel sudore e nella fatica, magari nel rimpianto, ma anche in mezzo alla possibilità di vedere sorgere dalle ceneri qualcosa di duraturo, di bello e di reale. Gli Zeman al secondo disco sembrano recepire una per così dire deriva nichilista anche se la loro sostanza sonora e poetica viene rappresentata grandemente ne dalla vittoria ne dalla sconfitta, ma piuttosto dal simultaneo vivere tutto il resto, abbracciando sconfitti e vincitori e valorizzando le lotte della gente comune per riuscire ad emanciparsi da una società che vede solo il bello e l’apparenza, abbandonandosi ad un bisogno di ricerca che proprio nel non vincere un cazzo ci fa essere unici soggetti in grado di intraprendere il proprio cammino. Il disco della band di Udine è un disco composito che mescola il post punk con un indie sotterraneo, apprendendo la lezione del tempo e intercalando pezzi che sembrano estrapolati dal migliore repertorio di band come Zen Circus in un sodalizio con la musica d’autore che proprio in questo disco è necessaria per esprimere un concetto duraturo, universale e necessario per tutte le band che vogliono e che tentano di diventare qualcuno o qualcosa perché la felicità è un traguardo che solo noi possiamo valorizzare.

Stefano Meli – No Human Dream (Seltz Recordz)

Musica strumentale che mira dritta al cuore dei paesaggi interiori in sovrapposizioni acustiche di rara bellezza che mescolano il blues ad un sottofondo sonoro da ambientazioni reali e tangibili, una comunione con il mondo circostante che diventa arte e prosegue il proprio cammino alla ricerca di una strada da percorrere. Una strada che porta con sé le paure di un domani e il desiderio, almeno per una volta, di essere diversi, di costruire, di assemblare, di garantire passione nell’oscurità che avanza, trasformando il proprio io nelle forme della luce e mantenendo quella costante attualità di base un motivo in più per credere che questa musica parli proprio di noi, del nostro essere dentro, della nostra capacità di cambiare valorizzando il silenzio contro il rumore simultaneo, tra la solitudine e il riscatto in un mondo dove qualsiasi elemento della natura si trasforma per dare vita a qualcosa di unico e raro.

Ottodix – Micromega (Discipline Records)

Il poliedrico artista trevisano Alessandro Zannier, in arte Ottodix, confeziona un disco davvero notevole e nel contempo mutevole, dove l’elettronica di fondo è materia esistenziale per dare un senso ad una serie di architetture cosmiche che si rivolgono in modo sostanziale al mondo della fisica, della matematica, della scienza, in uno sviluppo pragmatico e che passo dopo passo ci porta ad incontrare un mondo dove l’uomo è in costante sviluppo con la macchina, uno sviluppo lontano dalla religione e dalla superstizione, ma piuttosto una continua evoluzione nei confronti del futuro e della ricerca. Flavio Ferri, ex DeltaV è materia portante per lo sviluppo di questo disco e i suoni pop siderali mescolati all’elettrosinfonia in evoluzione ci portano lungo il perimetro attualmente invalicabile tra ciò che è stato e quello che verrà, non risparmiando quell’essenza nel ricercare nei viaggi verso una luce inesplorata, un concetto ben evidenziato nella cover del disco: installazione – opera dello stesso Zannier che permette di approfondire visivamente le tematiche affrontate nelle canzoni stesse. Quello che ne esce è un album criptico e quasi oscuro, tra la filosofia e la meccanica, tra il virtuale e il tangibile in un sali scendi ricreato ad arte che non passa di certo inosservato.

Evan – Reworks, Remixes, Alternatives (Autoproduzione)

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Album liquido dopo il post esordio del 2016 che vede il produttore, dj e compositore Evan all’anagrafe Gaetano Savio, costruire un’evoluzione di concetti espressi nel precedente disco che vede geometrie di stampo elettronico fondersi attraverso remix e versioni alternative affidate ad innumerevoli artisti che si alternano per l’occasione in una composizione d’insieme dagli alti picchi emotivi in suadente armonia con un mondo circostante ricco di parallelismi continui e forme mutevoli che ben si approcciano all’ascoltatore e lasciano scovare anfratti sintetici costruiti e concessi per l’occasione in sodalizi che guardano al futuro, ma che riprendono in mano quella poesia free jazz opportunamente contaminata arricchita da un nu-soul spiazzante e a tratti etereo che dona freschezza in pezzi dal forte impatto emozionale dopo un esordio di per sé fortunato e che continua nel sostanziale ritrovo di una propria ibrida via da seguire.

Granada – Silence gets louder (Autoproduzione)

Quello dei Granada è un suono che proviene da lontano, è un suono glaciale che si interrompe con visioni di new wave ad accarezzare poesie musicali che rendono l’atmosfera in divenire continuo ad accennare sprazzi di luce dove la luce sembra non accoglierci in parallelismi con quello che è stato e quello che deve ancora succedere. I Granada sono una band romana che in questo disco Silence gets louder riesce a ricomporre una smisurata capacità di pensiero oltre le aspettative, utilizzando un comparto musicale davvero notevole e consegnando agli ascoltatori nove tracce che si muovono gran bene tra le sonorità di Editors e Interpol in scosse elettriche ben mixate tra di loro che rendono questo disco un piacere per le orecchie tanto da sembrare un’amalgama, un flusso continuo che porta con sé un indelebile sapore internazionale. La title track è apripista strumentale capace di veicolare la conoscenza della materia sonora in tutte le sue sfaccettature fino a ricomporre un quadro d’insieme che nel finale I can take care of you dona un’oscura speranza di vita per canzoni che non sono poesie fini a se stesse, ma piuttosto incorporano un bisogno, un’urgenza di uscire allo scoperto mostrandoci, velatamente, le nostre introspettive nudità.

Okland – Okland Ep (Autoproduzione)

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Elettronica da Torino che non si stanca di percorrere territori poco battuti in nome di un salto nel vuoto pronto ad accogliere una sostanza sonora che rinvigorisce e ci rende partecipi di una bellezza ridondante da cogliere nell’attimo, prima del balzo, in un EP fatto di quattro canzoni che incrociano l’alternative house all’avant pop dei giorni nostri in un modo di comunicare che intreccia l’umanità all’artificiale, l’elettrico in contrapposizione all’acustico in pezzi d’insieme che creano un’amalgama davvero convincente e sfrutta opinioni condivise per sfondare porte aperte e stringere il futuro tra le mani in sodalizi che vanno ben oltre le apparenze e si ritrovano con pezzi che portano con sé puro gusto di anteporre desideri al risultato finale. Quello che ne esce è un disco che racconta in modo simbolico le problematiche dell’uomo moderno, le percepisci quasi come metallo tangibile, cullati da una sinfonia proveniente da un mondo lontano e pronta a colpire attraverso i beat della nostra coscienza.

Lomax – Oggi odio tutti EP (Autoproduzione)

Potenza senza controllo che spara a zero sui mostri di ogni giorno, sui mostri che abbiamo alle spalle e quelli che ci troviamo ad affrontare indiscutibilmente contro ogni opinione condivisa. I nostri Lomax sono un pugno allo stomaco al perbenismo contemporaneo anche perché riescono a coltivare uno stile che attinge dal post punk del passato e dall’alternative targato ’90 recuperando un’eredità che ricorda gli Skiantos mescolati all’esigenza furente degli At the drive in e dei Diaframma in un desiderio che si discosta dal già sentito e si concentra attraverso una musica d’insieme che parla attraverso ritornelli ossessivi e ciclicamente appuntiti in grado di lasciare il segno al proprio passaggio. Sei tracce che sono speranza per un album completo, sei tracce che alzano il tiro e tengono un ritmo serrato in tutta l’intera produzione, consegnando un disco che ha una cover pop-up fenomenale e una grafica che lo è altrettanto per una musica che non è semplice sottofondo o disturbo per le nostre orecchie, ma piuttosto una narrazione ostinata in questi tempi di crisi moderna esistenziale.

Rainbow bridge – Dirty sunday (Autoproduzione)

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Trio di potenza acida che implementa la lezione del tempo, la lezione degli anni ’60, quella di Hendrix per intenderci in una costante ricerca di fondo che approda allo strumentale dove le incursioni si fanno sempre più vive in una chiara e netta psichedelia che fa scuola e porta il nostro Giuseppe Piazzolla, Fabio Chiarazzo e Paolo Ormas ad instaurare e a tessere geometrie di improvvisazione sostenuta in un disco che ha il sapore di una sporca domenica costituito per l’occasione da cinque pezzi che implementano il valore intrinseco di questo EP e garantiscono un approccio del tutto riuscito a canzoni che trasportano l’ascoltatore attraverso il tempo per come lo conosciamo. Un album stratificato e nel complesso immediato che farà impazzire di gioia i nostalgici di genere e lascerà spazio alla luce colorata proprio quando quest’ultima sembra non aver spazi d’apertura.

Two moons – Cognitive Dissonance (Atmosphere Records)

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Suoni in substrati atomici che coinvolgono la parte più oscura di noi e degnamente ingabbiano il nostro voler esplorare le profondità della terra attraverso una musica capace di discendere l’animo umano in dissonanze materiche da percepire. Un sodalizio con una musica da sotterraneo capace di filtrare e posizionarsi tra la milza e il cuore. I Two moons, nel nuovo disco in circolazione, prendono le atmosfere dei Bauhaus e le incidono con la pesantezza di band come Tool e Einsturzende Neubauten per portarci attraverso una catastrofe lisergica che in due tempi ci consegna un album potente e nel contempo psichedelico, in grado di mantenere, lungo le nove tracce, una tensione di fondo capace di sfociare, ma rientrare, attraverso la nostra esplorazione interiore, attraverso quei giorni andati a male che ci cullano in un’odissea fatta di colori cupi che avanzano pian piano e ci riportano con loro tra le tenebre e la cenere da cui proveniamo.

Modena City Ramblers – Mani come rami, ai piedi radici (Modena City Records)

Li senti provenire da lontano con quel suono di flauto che accompagna una produzione dopo quattro anni di silenzio, una musica composita d’insieme che spazi tra i generi e abbandona spesso le strade del folk per intersecarsi con un suono più moderno e generazionale dove la canzone si sposa con immagini, riflessioni di vita, sostanza e sudore del tempo che verrà. Mani come rami, ai piedi radici è il nuovo disco dei Modena City Ramblers, un album che parla di orizzonti indefiniti e di un errare che ingloba l’intero mondo che ci accomuna, dimenticando i fatti di cronaca che caratterizzavano il precedente lavoro e tornando sui passi di musiche contaminate dove il dialetto, l’inglese e lo spagnolo sono lingue necessarie di comunicazione e dove l’atmosfera desertica che si respira nella bellissima My ghost town assieme ai Calexico ridefinisce una sostanza che va a recuperarsi nella terra, da quelle radici che sono i nostri punti d’appoggio, ma anche il nostro bisogno di arrivare in alto, non per prevalere, ma piuttosto per respirare un cielo condiviso. Notevole la concessione del diritto musicale sul retro di copertina: “Riproducetelo, prestatelo, fatelo suonare in pubblico e trasmettetelo. La musica è come il vento, fa ondeggiare i rami, nutre le radici” e come, dico io, dargli torto?