Staré Mesto – Punto di Fuga (I dischi del minollo)

Adrenalina pura intrecciata a liriche cantautorali che si lasciano trasportare dal vento della tempesta che tutto prende, tutto si porta via, rabbia lisergica in foglie che si preoccupa di lasciare una traccia, un gesto, un segno di riconoscenza verso ciò che è stato prendendo spunto dalla scuola italiana anni ’90, in primis Marlene Kuntz per intrecciare CSI a Federico Fiumani meditativo come non mai, per non lasciare scampo al reale e ricucendo pezzi di immaginazione sospesa.

Gli Staré Mesto sono tutto questo, poesia catartica in galoppate elettriche che fanno scorrere nelle vene echi di pensose poesie lasciate in balia di un mare in burrasca che chiede di essere inglobato in una luna a ponente che tocca il cielo per sempre.

Illusione, frustrazione, rabbia quasi agonia nera che porta ad una chiusura del proprio essere e al silenzioso vivere quotidiano nell’apatia più totale.

I quattro conoscono la formula per uscire dal tunnel, sospeso per sempre, in un cammino ineluttabile che lungo le 8 tracce si consolida come non mai partendo con le grida sincopate di “Thalia” per arrivare in breve tempo a “insaguinare i prati” in “Racconto di Primavera”, uno spettacolo da poter osservare davanti ad uno schermo bianco dove il tutto è il vuoto di se medesimo.

Poi le canzoni si trascinano in un vortice di speranza, bellissima “Cielo d’Africa” dei Diaframma, reinterpretata per l’occasione.

Solidi, compatti reali; una purezza difficile da scorgere, difficile da trovare intorno a Noi: questi Staré Mesto attingono al passato per donare parole intrecciate in continuo divenire, in grado di trovare un punto di fuga, un punto da dove poter ripartire.

Suntiago – Spop (Autoproduzione)

Suntiago, in bilico tra Verdena e Muse, testi viscerali legati ai primi Afterhours e echi di sogni mai svelati in tredici tracce che scavano nel profondo dell’inconscio, fino a escogitare una via per uscirne, una via dolorosa, una via faticosa, ricca di sinistri racconti distorti e parole gridate al vento che colpisce violentemente anche gli alberi più lontani.

Un disco che racchiude al proprio interno chitarre galoppanti, che assieme ad una perfetta sessione ritmica, intersecano un cantato graffiante lasciando molto spazio all’improvvisazione funky e alla leggerezza che accompagna canzoni come “Africa”.

Un concentrato di melodie che si lasciano ascoltare e ti fanno pensare a quanto elevato sia il livello di preparazione di questa band che spazia facilmente tra diversi di generi e in grado di trasformare canzoni di nicchia in ritornelli a ripetizione che si lasciano ricordare e fanno ben sperare partendo dall’ indie rock per arrivare quasi ad una jam session ben studiata.

“Seguimi” è poesia allo stato puro che si lascia trasportare dalla frenetica “John Bonham” per raggiungere attimi di psichedelia sonora con “L’opinione”, meraviglia di cori floreali in “In giù” per finire con l’innovativa “Ogni rinuncia”.

Un album poliedrico e ricco di sfumature, quattro ragazzi romani dal forte carattere che riassumono in meno di un’ora tutto ciò che si può volere da una grande indie rock band. Da applausi.

My Mystakes – Campbell road (Autoproduzione)

I  My mystakes portano a casa una bella prova.

La portano a casa con coraggio e voglia di andare avanti; dopo i giorni spesi a far cover di Oasis e Coldplay si concentrano su di una stesura più diretta, immediata con chitarre distorte a far tremare tappeti sonori di incisioni legate alla strada, ai sassi, al suolo che viene calpestato.

Una prova senza mezze misure, registrata nella “lontana” Inghilterra, ammiccando a quel suono brit che lega Blur a Travis passando per The Verve e i Radiohead di Pablo honey.

Nove canzoni che si fanno ascoltare tutte d’un fiato, tra strutture non del tutto originali, ma che sfiorano un disco ben pensato con i cori che lasciano all’immaginazione e la poetica impalcatura nel girovagare intona ballate da ricordo come “I feel” struggente quanto basta per passare a “No way” dalle atmosfere piovose e di acqua che si lascia ad assoli conturbanti.

Evocativa inoltre nel finale “We can afford life”, con le parole  “noi non possiamo vederti” si chiude un album che porta la band a sognare mete luminose.

Un disco ben curato e puntuale dove i dettagli sono parte fondamentale di un tutto in piena evoluzione; nell’attesa che le loro speranze si trasformino in realtà, consiglio una maggiore capacità di osare, questo li porterà sicuramente, in modo più semplice, ai risultati sperati.

Virgo – L’appuntamento (Autoproduzione)

Una discesa nell’oscurità, un salto nel buio del rock più oscuro e concitato, acclamato solo da sospiri e fuochi che si accendono illuminando grotte e anfratti sperduti, dove l’uomo può perdersi per poi ritrovarsi ad un appuntamento tanto sperato quanto poco vissuto.

I “Virgo” band vicentina ex “Papataci” regala un disco che incanala atmosfere dark che si incontrano con il rock d’atmosfera, brillando per scelte stilistiche inusuali il tutto impreziosito da una voce unica, quella di Daniele Perrino, già presente nell’ultimo album “Due” di Mario biondi, dove è interprete, ma anche autore del pezzo “Lullaby”

Le dieci tracce scivolano via in modo rapido lasciando un groviglio allucinato di impressioni da imprimere su una tela a cornice di una cena illuminata da candele.

Proprio questo è lo scopo dell’ “Appuntamento”: unire chitarre taglienti che ricordano il suono di “Estra” e “Mistonocivo” alla leggerezza di una voce soul che comprime un mondo in eterne figure oniriche.

Un disco in stato di grazia, un disco che segna una maturità inaspettata, un album da ascoltare più volte per capirne l’essenza nel cambio di stagione, dove tutto può sembrare diverso e migliore.

G-Fast – Go to M.A.R.S (La Fabbrica)

Parole semplici e dannate, gridate, a volte sussurrate da una voce roca che si proietta nello spazio in profonde ostilità di passaggi intercosmici dove il buio sembra la chiave per risolvere ed esplorare un infinito che vuole essere principio del tutto mentre provoca solo caos e dannazione.

Il rocker bluesman G-Fast con questo album “Go to M.A.R.S” vuole segnare un cammino fatto di pietre dure da spostare e ricordi che si fanno sempre presenti nella mente, quasi canzoni a ricordo di un tempo lontano, ma che vogliono essere portatrici di esperienze da applicare ogni giorno nel quotidiano.

Un album ricco di energia e passione dove i sogni sbattono addosso al vetro della realtà toccando vertici di phatos in pezzi come la title track o la fumante “Mystical Man”.

Tracce da bassifondi mentali dove chi occupa la nostra testa è solo un pensiero da far volare via come in”Like an angel” o nell’incedere tribale di “The crow i s back”.

Il finale è lasciato alla splendida “What I think of you” che abbandona i territori motorheadiani per entrare con peso leggero in atmosfere più ipnotiche e distensive.

Un uomo solo contro il mondo, un progetto anomalo, ma di certo riuscito che crea un connubio perfetto tra l’impresa solitaria e la forza di un’intera hard rock band. Da applausi.

Rubbish Factory – The sun (Modern Life)

Canzoni che si ascoltano tutte d’un fiato.

Energia viscerale che ti prende la pancia e regala continui riempimenti d’amore verso la musica targata ’70 incrociata con il miglior garage rock da extrasistole ultraterrene, cadenzato da una batteria ben impostata e una chitarra altrettanto energica quanto fuzzeggiante che ricorda QOTSA e a tratti i Verdena di “Solo un grande sasso”.

Una prova che ha del particolare in questo duo cupo e amalgamato che regala spunti di oscurità dove poter affogare dolcemente.

Un ritorno quindi all’essenzialità virata dalla capacità di snocciolare pezzi orecchiabili seppur mantenendo un certo ordine e una certa linearità.

11 pezzi gridati che non risparmiano virate di colore toccando ambienti grunge con una facilità disarmante “Wires” ne è l’esempio, si può ancora sentire la voce di Laney Staley in tutto questo.

Un duo che va dritto al punto, che si divincola con una proposta non di certo innovativa, ma ricca di fascino e facilmente  esportabile.

Un merito quindi per aver donato una nuova interpretazione di genere cavalcando sentieri già battuti si, ma allo stesso tempo lontani dalla spazzatura musicale di tutti i giorni.

 

 

Yumma Re – Sing Sing (Monochrome Records)

Sing SingIl Sing Sing è un palazzone costruito intorno agli anni ’30 che, essendo senza balconi, ricordava forse vagamente il carcere di New York chiamato appunto ‘Sing Sing’. Un palazzo aperto, dove la vita si svolgeva sui pianerottoli, dove i problemi e le gioie dei singoli erano dell’intera comunità che lo abitava”.

Una partenza dai ricordi della band che racconta le contraddizioni di un’Italia da cambiare partendo dai momenti più sentiti e vissuti del gruppo campano, che alla nuova uscita discografica regala emozioni sonore che si divincolano con velocità straordinaria nel traffico metropolitano.

Dieci pezzi di ricercatezza elettronica in cui l’indie più sfrontato si sposa con eleganza al cantautorato e al rock d’oltreoceano, i testi anche se in lingua inglese denotano una maturità da preservare e che colpisce bene il segno.

A tratti sembra di ascoltare echi di Bjork, mentre altri momenti si collassano in ballate Radio Testa dei primi album senza dimenticare Air e i nostrani Joy Cut.

Un album che regala gioie inesprimibili nella trattazione di argomenti non sempre facili da digerire, un continuo crescendo che esplode in frammenti stupendi con “I have a gun” e “You let me down”.

Questa band meriterebbe di essere ascoltata solo per ciò che viene raccontato nelle loro storie-canzoni, un volto storico, ma al contempo nuovo dell’underground italiano, dove poesia si mescola all’oscurità e sinceramente di questa formula non posso che rimanere stupito.

Yugo in incognito – Uomini senza gomiti (Lapidarie incisioni)

Gli Yugo in Incognito firmano un disco pseudo punk, a tratti i suoni sembrano legati al classic rock d’alta scuola, dall’altra assoli ben calibrati si caratterizzano per andare oltre schemi prefissati.

Durante l’ascolto ci si chiede perchè questo disco sia arrivato così tardi, dopo quasi 12 anni di attività e centinaia di live in lungo e in largo senza aver mai concretizzato la bellezza che  questo stile eterogeneo e spiazzante può contenere.

Un album che nella sua dismogeneità regala emozioni in rima, quasi da giullari di corte, in pezzi come “Smart” o “500ino”, mentre attimi di riflessione li ascoltiamo nella capiente “Cyclette&Abbandonata” o nel bellissimo finale di “Don’t iscriv yourself to the siae”.

Notevole inoltre l’aspetto grafico del tutto: un piccolo astuccio che racchiude i testi delle canzoni in fogli volanti, per poterli attentamente analizzare senza vincoli di ancoraggio.

Questo disco è prima di tutto una denuncia verso una società legata a stereotipi che continuano a licenziare, fisicamente parlando, giovani menti che, legate all’idea di un futuro migliore, sono costrette a fuggirsene via lontano dall’apatia dilagante.

Un disco amaro, puro, vibrante e consolatorio per quanto consolante possa essere vivere in Italia nel 2013.

The grooming – Thisconnect (Autoproduzione)

La band dai 1000 volti definita tale in quanto le canzoni che compongono questa meraviglia sonora si snodano all’interno di labirinti esistenziali in cui è veramente facile perdersi e non trovare la strada verso casa, in cui è quasi scontato trovare persone che si incrociano, si guardano e iniziano a ballare senza un naturale motivo.

Una band che mescola un’elettronica d’attacco e un suono che si avvicina a Portished e Massive attack, passando per le atmsofere rosate dei francesi Air.

Un mix di eterogeneità e passione in cui è notevole l’uso di synth e programmatori che danno un tocco pienamente personale al lavoro di cesallatura finale che di certo regala sorprese sonore di ascolto in ascolto.

Giri di basso e groove di batteria che si intersecano con il reale infinito fino a dar forma all’indecifrabile essenza del perdersi.

Ospiti eccelenti nelle voci e sul palco: da Meme Galbusera a Gianluca “thehuge” Plomitallo, passando per Jack Jaselli, Alessandra Contini, Ezio Castellano, Denise Misseri e Ketty Passa, Paolo Martella e Chiara Canzian.

I quattro prendono ciò che di meglio sanno fare per donarlo giustamente ad altrettante voci che riescono ad interpretare in maniera magistrale liriche introspettive e quasi laceranti.

Un disco di notevole fattura, da ascoltare e riascoltare, un’elettronica mai esagerata o gridata, ma anzi, il giusto connubio tra l’emozionale e il vibrato andante.Tanto di cappello.

L’inferno di Orfeo – L’idiota (HertzBridge Records – LibellulaMusic)

Un cantautorato che abbraccia sensazioni lontane di rock più classic senza tempo per ricordare che parole e intreccio fiabesco si possono schierare dalla parte di chi l’idiota vuole essere, apparire o chi si atteggia in modo così tale da far credere agli altri di esserlo veramente.

Un disco maturo e lagato in qualche modo alle origini di questi quattro torinesi che ora come ora stanno raccogliendo i frutti tanto sperati, affermandosi tra le migliori proposte della scena alternativa piemontese.

Musica che si mescola con un vissuto in cui il colore dominante il rosso si scontra con il giallo per creare quel tenue arancione di copertina che regala emozioni contrapposte da uno stile unico e certamente originale.

I testi denotano una sapiente ricerca, fulcro esistenziale per gridare le proprie idee senza essere calpestati, senza essere giudicati e in qualche modo per fare quadrare il cerchio della memoria, sempre cara al Silotto frontman.

Un incrocio quindi tra Non Voglio che Clara e Paolo Benvegnù, tra Manuel Agnelli del Quello che non c’è e la poesia musicale di Valentina dorme.

Pezzi che si fanno ricordare per la loro armonia d’insieme sono certamente l’apertura con “La Manovra”,  “Arrampicate” con un cameo DeAndreiano in sferzata elettrica e la title track “L’idiota”, mentre la chiusura affidata alla struggente “Paola” non delude le aspettative di un bellissimo finale.

Un disco che guarda al cambiamento con stile, racchiudendo piccole perle quotidiane da digerire sciogliendole dolcemente dentro al bicchiere di una vita troppo amara in cui sperare di vedere nascere, di tanto in tanto, qualche bel fiore.